L’altro non è altro di me

Il racconto del Giudizio universale di Matteo 25 è stato spesso letto come una sorta di “descrizione” anticipata di quello che dovrebbe essere il “giudizio finale”. Non è così; È una parabola che cerca di rispondere a una domanda universale: “Cosa fare? Come dare senso nella propria vita?”

 La risposta che Gesù offre non potrebbe essere più chiara. Non si fa riferimento a un credo o ad una condotta “religiosa”, ma si nominano piuttosto azioni concrete che non richiedono ragionamento per comprenderle: nutrire gli affamati, bere gli assetati, ospitare lo straniero, vestire i nudi, visitare i prigionieri.

 Nella sua semplicità tagliente e radicale, la parabola rivela una delle grandi novità del messaggio di Gesù: c’è un modo di incontrare Dio che non passa per il tempio. Nessun requisito “religioso” appare nell’elenco; ciò che conta è un’azione compassionevole a favore di coloro che soffrono di più.

In altre parole, Gesù pone l’agire al di sopra del credere, l’etica al di sopra della religione. Il che non è nuovo, poiché così è detto nello stesso Vangelo di Matteo: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). E ora è chiaro qual è la “volontà del Padre”, ne abbiamo qui l’elenco delle azioni.

Oltre alla semplicità del suo messaggio, incentrato sulla pratica compassionevole nei confronti dei più bisognosi, ci sono altre due cose che spiccano. Da un lato, la domanda dei destinatari delle parole: “Quando ti abbiamo visto …?”. Sia quelli che hanno aiutato che quelli che non lo hanno fatto – non si erano resi conto che Gesù era nel bisogno. Lui era lì… e non se ne erano accorti. E il fatto che non ci si accorge che Lui è lì, è secondario: ciò che è essenziale è agire per il bene.

“A me non piacciono quelli che si comportano bene per paura di finire all’inferno. Preferisco quelli che si comportano bene perché amano comportarsi bene. A me non piacciono quelli che sono buoni per piacere a Dio. Preferisco quelli che sono buoni perché sono buoni. Non mi piace rispettare i miei simili perché sono figli di Dio. Mi piace rispettarli perché sono esseri che sentono e che soffrono. Non mi piace chi si dedica al prossimo e coltiva la giustizia pensando in questo modo di piacere a Dio. Mi piace chi si dedica al prossimo perché sente amore e compassione per la gente” (Carlo Rovelli, in conversazione con card. Gianfranco Ravasi nell’ambito di una “tappa” del “Cortile dei Gentili”, manifestazione promossa dall’Università di Catania e dal Pontificio Consiglio della Cultura)

Usando il nostro linguaggio, diremmo che sia i non credenti che i credenti non pensavano affatto che Dio si trovasse negli affamati, assetati, estranei, nudi, malati, prigionieri … Entrambi sembravano avere una “idea” molto diversa del Dio che negavano o quello in cui affermavano di credere. Come accadde a Giacobbe (Gen 28,16), quando si svegliò dal sonno e disse: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo”.  

L’altra questione sorprendente è la forza delle parole di Gesù quando afferma: “L’hai fatto (o non l’hai fatto) a me”. Non dice: “è come se l’avessi fatto con me”; no. Questa affermazione non nasce da un imperativo etico, ma dalla comprensione di qualcuno che sa che siamo tutti uno, che tutti gli altri sono io. O in altre parole: tutto il resto non è altro di me.

“Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.” (Col 3,11); “Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28); “tutte le cose sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo!” (Col 2,17).

Queste parole esprimono il nucleo della non-dualità: ci sono diversità ma siamo lo stesso Cristo.  Così come l’autore del quarto Vangelo mette in bocca a Gesù: “Il Padre ed io siamo uno” (Gv 10,30). Affermare, valorizzare, accogliere e prendersi cura delle differenze, siamo tutt’uno con tutto ciò che è. La sostanza è divina. Questa è l’apocalisse, la rivelazione definitiva di Dio.

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