Della novità di Dio

Celebrando il mistero dell’incarnazione di Dio, si dà normalmente per scontato che Dio ad un certo punto ha deciso di farsi uomo. Sant’Ignazio di Loyola parla del “Consiglio trinitario” in cui si è decisa l’incarnazione, per sopperire al peccato degli uomini e al loro destino infernale. Ad un certo punto, quindi, Dio avrebbe deciso qualcosa di nuovo: l’incarnazione. Ciò vuol dire che Dio passa dalla potenza all’atto, dall’essere “non-incarnato” ad “incarnato”. Quello che non era, è divenuto. Cosicché ora Dio è più Dio di prima. C’è una novità in Dio? Sentiamo ciò che dice Tommaso d’Aquino.

“Il mistero dell’incarnazione non si è attuato per un qualche cambiamento nell’eterna condizione di Dio, ma in quanto egli in maniera nuova si unì a una creatura o meglio unì a sé la creatura” (STh, IIIª q. 1 a. 1 ad 1). Come risulta da questo testo, la “novità” non si predica di Dio, come se Dio si unisse in maniera nuova ad una creatura. No, Dio unì a sé la creatura, è un mutamento della creatura e non di Dio. Con l’incarnazione non c’è un “nuovo” Dio, differente o migliore del Dio precedente. È lo stesso e medesimo, eterno, Dio. Ciò che muta è la creatura, passando da uno stato di “non-unione” ad uno di “unione”. La creatura diventa così quello che non era: unita a Dio.

Se la novità è qualcosa della creatura, il cui fondamento è la mutabilità di cui è costituita essenzialmente, significa che la novità della vita divina è ciò a cui tende la creatura per essenza. Essenzialmente la creatura è definita dalla sua relazione diveniente a Dio, dal suo unirsi sempre più al divino. Allora la creatura è “nuova” quando realizza un po’ di più questa unione con Dio. Ciò che è detto “nuovo” nella Bibbia – cieli e terra nuova, la Nuova alleanza ed anche il Nuovo testamento – non vuole esprimere un supplemento di creazione da parte di Dio, nemmeno l’offerta di un “nuovo” patto con l’umanità, migliore di quello di prima. “Nuova” è detto della risposta creaturale “più piena” di prima.

Gesù incarna la Nuova alleanza non perché in lui Dio ha fatto qualcosa di nuovo rispetto a prima, con il popolo di Israele e l’umanità. È l’umanità che ha fatto qualcosa di nuovo, accogliendo in Gesù in pienezza il Dio dell’unica ed eterna alleanza. I cieli e la terra saranno nuovi poiché questi avranno accolto in pienezza l’alleanza. Il Natale è la celebrazione che l’umanità è chiamata a rinnovarsi nell’amore verso Dio e il prossimo, accogliendo così quell’alleanza di Dio con il creato che in Gesù di Nazareth ha trovato il culmine del suo compimento. Gesù è l’uomo “nuovo” poiché è l’uomo-che-ha-risposto a Dio. In questa risposta radicale e totale, Gesù esprime la sua unione ipostatica o nei termini del NT l’essere Figlio di Dio. Ciò a cui noi tutti e tutte le creature siamo chiamati.

Il Suo è il Nostro Natale.

Monista sì, ma relativo

La visione dantesca dei tre cerchi della Trinità
e al centro l’umanità nostra dipinta dentro la divinità

Si può credere ancora in “Dio” senza credere in un Dio personale? La concezione teista non riesce a reggere di fronte al dolore umano. La sofferenza degli innocenti (cfr dilemma di Epicuro) chiama in causa l’esistenza di un Dio infinitamente giusto e buono, attributi indispensabili per un Dio personale.

Due sono le alternative all’idea del Dio personale: o l’idea stoica della ragione universale o l’idea spinoziana del deus sive natura.

Sostengo, invece, una terza soluzione. Il Dio (tri-)personale è ancora pensabile non più come un’entità separata da noi. Dio è personale solamente quoad nos, cioè nella sua relazione a noi la divinità si rivela come il Dio uno e trino. Uno potrebbe obiettare: questo è modalismo “rivelativo”! Sì, è modalismo rivelativo, cioè Dio è (tri-) personale solo in relazione alla creatura. Ma la differenza dal modalismo sabelliano è che la rivelazione di Dio è la sua essenza. Questo è il modalismo di Karl Rahner nelle sue ultime conseguenze.

Affermare che la trinità economica è la trinità immanente, e viceversa significa che tutta la trinità (immanente) è la sua rivelazione! Non c’è nient’altro oltre la trinità economica. Ciò che va affermato “oltre”, non è tanto la trinità immanente (che è invece “identica” con la trinità economica), quanto la natura di Dio, la divinità (deitas o divinitas) del Dio (deus sive trinitas). È necessario affermare – perché si dia un monismo relativo (posizione che sostengo) – che la divinità di Dio è la trinità (natura in divinis ipsa relatio). Ma se la trinità è la rivelazione di Dio a noi, significa che “noi” siamo inclusi nella stessa natura di Dio.

Distinguiamo, quindi, due aspetti di Dio. La trinità è l’aspetto personale di Dio in quanto la natura divina attualizza se stessa, dandosi a noi come Padre, Figlio, e Spirito Santo. Nella Sua relazione al creato, Dio è vissuto ed esperimentato come “persona” e quindi il nostro modo di rivolgerci a Dio assumerà toni personali e antropomorfici. Con un’immagine: la divinità di Dio è come la luna. Come noi vediamo solo una faccia della luna, quella a noi rivolta, così sperimentiamo solo una faccia della divinità – cioè la persona, il volto – cioè il Dio (trino) rivolto a noi. È questo il Dio “persona” o “tri-personale”, cioè il Dio rivolto a noi.

Ma c’è anche l’altra faccia della luna, quella invisibile che non è rivolta a noi. È sempre la stessa luna, ma quell’altra faccia della luna non ci è accessibile, poiché non è rivolta a noi. Ma sappiamo che è l’altra faccia della stessa luna. Seguendo tale analogia, possiamo dire che l’altro aspetto della divinità , quello che a noi non è dato conoscere ed esperimentare, è la pura relazionalità. Potremo chiamare questo aspetto della divinità “irrelato” o “assoluto”. La divinità di Dio (divinitas), la natura di Dio, è puro darsi. L’aspetto rivolto “a noi” definisce la divinità come Dio (deus sive trinitas), il suo essere persona. Questo è l’aspetto che conosciamo ed esperimentiamo di Dio.

La divinità è l’aspetto trans-personale di Dio in quanto è relazionalità pura: l’eterno darsi (zoé) e scaturire (physis) della divinità. Senza di noi (e quindi il creato), la divinità non è Dio (trino). Che la divinità sia il Dio (deus sive trinitas), è decisione eterna. L’essenza della divinità, ciò che è, è determinata dalla sua volontà. Come afferma Plotino (Enneadi VI, 8, 13), l’Uno è padrone di sé poiché il suo essere dipende dalla sua libertà. “Egli è come volle”. Questo è l’evento in cui l’in-determinato o im-personale nel senso di trans-personale(deitas) si determina come deus sive trinitas e si definisce nell’umano (e quindi nel creato). Per questo il finito che siamo “noi” (e il creato) siamo inclusi dall’eternità in questa decisione eterna.

Distacco da sé senza attaccarlo

Il compito di ogni spiritualità è quello tenerci completamente svegli, vigilanti e consapevoli della realtà. Restare “attenti” e “svegli” non deriva da uno sforzo di volontà, ma da un abbandono al momento presente, così com’è. Essere presenti nel presente alla Presenza è ciò che significa essere “in” Dio o con qualsiasi altro nome vogliamo far riferimento all’intrascendibile trascendenza. Si tratta di lasciar andare quelle resistenze che ci trattengono dall’immergerci nel presente, per trattenere presso di noi l’immagine del passato o le aspettative del futuro. Accogliere – invece – la realtà di ciò che è proprio qui e ora, pienamente.

Per essere veramente consapevoli, dobbiamo fare un passo indietro dalla nostra identificazione compulsiva con il nostro sé isolato. Questa identificazione avviene attraverso il corpo: le sue sensazioni, emozioni e immagini mentali. Il “lasciar andare” tale identificazione (“io non sono il mio corpo, io non sono le mie sensazioni ed emozioni, io non sono la mia mente”) è l’aspetto più difficile della contemplazione. Porre sotto la nube dell’oblio (Nube della non-conoscenza) il nostro sé isolato (chiamato anche “ego”) è un compito faticoso poiché implica il passaggio (conversione, metànoia)  dall’idea del nostro “sé” individuale alla realtà del Sé divino. Questa è l’illusione principale della nostra vita: pensare e volere “propria” vita per poterla possedere “Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25). Io non sono il mio “io”. L’Io con cui mi osservo non è l’Io osservato. Quello “lì” è la mia realizzazione, cioè la mia opera, in tedesco Wirklichkeit (= realtà) da wirken che dà il sostantivo das Werk, opera. Ma “io” non sono la mia opera: le mie sensazioni, le mie emozioni, le mie idee, la mia mente e le mie immagini. “Io” sono, pur senza sapere “chi” sono poiché quello che sono è ormai sotto la nube dell’oblio.

Si tratta di pura consapevolezza, un’osservazione di “me” da una certa distanza, dalla piattaforma panoramica gentilmente offerta da Dio. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8,16). In greco si tratta della “testimonianza” (συμμαρτυρεῖ) che lo Spirito dà al nostro spirito che siamo “relativi” cioè “figli” di Dio. Siamo “immagine” di Dio. Siamo il riflesso di Dio nello specchio che noi siamo. Come lo specchio è “nient’altro-che” riflessione (ma riflessione appunto seconda) della realtà che si riflette nello specchio (riflessione appunto prima). Vedersi con gli occhi di Dio; consapevoli della consapevolezza di Dio. Dimenticar-si (nube dell’oblio) per entrare nella nube (in greco: σκιά che vuol dire “ombra” e da cui deriva anche il verbo “attendarsi” ἐσκήνωσεν) della non-conoscenza. L’esperienza di consapevolezza, di perdere il “proprio” sé, è il vero processo di incarnazione.

La maggior parte di noi non comprende questa consapevolezza perché siamo totalmente identificati con i nostri pensieri, sentimenti e modelli compulsivi di percezione che vanno e vengono. Non abbiamo una distanza adeguata da noi stessi, il che ci impedisce di “vedere”, quindi contemplare, lo sfondo in cui esistiamo (ek-sistere) e così non vediamo la nostra radicale connessione con tutto il resto. Il distacco dal “proprio” sé è assolutamente necessario per iniziare a vedere lo sfondo da cui siamo: tuffarsi nel profondo dello Spirito, come ha insegnato Meister Eckhart.

Quanto più contempliamo, tanto più il senso della nostra autonomia e ciò che pensiamo sia il nostro “sé” svanisce. Di solito pensiamo che il “proprio” sé sia il nostro unico sé, mentre si tratta di una creazione della nostra mente: “sé come se”. Attraverso la pratica della contemplazione, diventiamo sempre meno interessati a considerare questa identità relativa che siamo (riflesso di Dio) come la “nostra” realtà.

È controproducente dichiarare guerra a questa immagine “falsa” di sé. Essa diventerebbe così solo più marcata e rigida. Basta non seguirla, non darle credito o importanza. Quando non la nutriamo, essa lentamente scompare con calma e sperimentiamo una sorta di naturale umiltà.

Se la nostra contemplazione scende in profondità, pervadendo anche il nostro inconscio, per così dire, tutta la nostra visione del mondo cambierà: da uno stato di paura e di isolamento, ad uno di connessione con tutto il cosmo e di fiducia. Non viviamo più dentro il nostro sé fragile e incapsulato, ma diventiamo sempre più pesci che liberamente si muovono nell’oceano. Così, lentamente, diminuisce in noi il bisogno di proteggere il nostro piccolo e fragile sé. Nella contemplazione, passiamo dalla percezione del “proprio” e dai racconti auto-biografici che continuamente ci facciamo, alla pura consapevolezza di sé. L’apostolo Paolo parla di questa consapevolezza che è “riflessione di Dio” con il termine “Cristo”. “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20); “La realtà è di Cristo” (Col 2,7).

Le “mythe” de la vocation

Accompagnant les gens dans leur cheminement spirituel, très souvent la demande revient: «Père Paul, pouvez-vous m’aider à comprendre ce que Dieu veut de moi, de ma vie?». Normalement, ils me contactent pour discerner la «vocation», surtout si Dieu les appelle à la vie religieuse ou sacerdotale. Comme vous pouvez l’imaginer, ce sont des hommes adultes entre 35 et 50 ans. Dans de nombreux cas, ils sont célibataires avec un travail qui vivent encore avec leurs parents, parfois engagés dans la paroisse, avec une vie spirituelle de prière quotidienne et un désir de donner un plus grand sens à leur vie. “Qu’est-ce que Dieu veut de moi?”

Un jour, un homme de 42 ans s’est approché de moi, célibataire, avec un bon travail et également impliqué dans la paroisse. Et il m’a demandé: “J’ai toujours pensé à devenir prêtre, mais je n’ai jamais eu le courage de franchir le pas: mais qu’est-ce que Dieu veut de moi?”. J’ai écouté en silence, puis j’ai répondu: “Est-ce que tu essaies d’aimer?” Et il a répondu: «Oui, j’essaye d’aimer les gens autour de moi, de répondre à leurs demandes, de me rendre utile. Oui, j’essaye d’aimer. Mais qu’est-ce que Dieu veut de moi? Dois-je devenir prêtre? “. Encore une fois, je me taisais. Puis je lui ai dit: «Aime là où tu es, aime à chaque instant, telle est la vocation pour toi». Et il a répondu: “Oui, Père, mais je dois savoir si je devrais devenir prêtre ou pas”. Et j’ai répondu: “Je suis désolé, mais tu veux devenir prêtre pourquoi?”. Maintenant, c’était lui qui se taisait. Je me suis souvenu de ce que disait Augustin et je lui ai redit: «Aime, et fais ce que tu veux». Et j’ai ajouté: «Même en devenant prêtre, ce qui compte, c’est d’avoir aimé. Cela vous sauve, vous et les autres ».

Je me suis aussi souvenu de ce que disait Thérèse de Lisieux (Manuscrits autobiographiques, 227-229): «L’amour m’a offert la pierre angulaire de ma vocation. J’ai compris que l’Église a un corps composé de différents membres, mais que dans ce corps le membre nécessaire et le plus noble ne peut manquer. J’ai compris que l’Église a un cœur, un cœur brûlé d’amour. J’ai compris que seul l’amour pousse les membres de l’Église à l’action et que, éteignant cet amour, les apôtres ne proclameraient plus l’Évangile, les martyrs ne verseraient plus leur sang. J’ai compris et je savais que l’amour embrasse toutes les vocations en lui-même, que l’amour est tout, qu’il s’étend à tous les temps et à tous les lieux, en un mot, que l’amour est éternel. Puis avec une grande joie et une extase d’âme, j’ai crié: Ô Jésus, mon amour, j’ai enfin trouvé ma vocation. Ma vocation est l’amour. Oui, j’ai trouvé ma place dans l’Église, et tu m’as donné cette place, ô mon Dieu, au cœur de l’Église, ma mère, je serai amour et ainsi je serai tout et mon désir se traduira dans la réalité. “.

Abandonner le «mythe» de la vocation, c’est découvrir que l’amour est la volonté de Dieu. Dieu appelle chaque homme et chaque femme, en fait chaque être créé, à répondre là où il est, tel qu’il est, de toute sa vie, en aimant. Vous pouvez devenir prêtre, nonne; vous pouvez vous marier ou ne pas vous marier. Mais à la fin de votre vie, Dieu ne vous dira pas: “Pourquoi n’êtes-vous pas devenu prêtre, comme je l’avais pensé depuis l’éternité pour vous?”, Mais Il vous dira: “Pourquoi n’avez-vous pas aimé, alors que vous étiez prêtre, religieuse et mariée, ou ? “. Comme le dit le jésuite Rossi de Gasperis, «la volonté de Dieu pour nous de chercher et de trouver n’est pas une réalité déjà écrite, fixée et préfabriquée devant nous et sans nous, quelque chose de déjà beau et fait que nous devrions seulement découvrir , comme nous découvrons un trésor caché par quelqu’un dans notre jardin, puis nous nous y adaptons passivement ».

Connaître la «Volonté de Dieu» signifie s’accorder ici et maintenant avec l’amour de Dieu autant que possible, et librement et avec amour conditionné par cet amour de Dieu, en concevant ma vie selon ce que je veux. En fait, Dieu suscite en nous non seulement le travail, mais aussi la volonté selon ses desseins bienveillants (Phil 2:13). Faire la volonté de Dieu, c’est donc faire ce que je veux librement, alors que je me laisse embrasser par l’amour de Dieu. Je ne trouve pas la Volonté de Dieu pour moi en dehors de moi, mais en moi: écouter et s’accorder avec l’énergie vitale et la voix de l’amour qui opère déjà en moi. C’est exactement ce que Jésus de Nazareth avait fait et devenait ainsi la “Parole de Dieu”, c’est-à-dire l’incarnation de la Volonté de Dieu.

À l’appui de cette compréhension de la vocation, nous avons Thomas d’Aquin lui-même, selon lequel chaque être créé est une imitation singulière et particulière de l’essence divine. Chaque être est une pensée de Dieu unique et irremplaçable. “Or, les différentes choses imitent l’essence divine de différentes manières et chacune à sa manière, puisque chacune a un être distinct d’un autre” (Thomas d’Aquin, De Veritate, q. 3, art. 2). Mais toute pensée de Dieu imite cette essence divine qui est essentiellement l’amour.

C’est pourquoi Thomas d’Aquin poursuit en disant que «l’essence divine elle-même, avec laquelle ont été conçues les relations que les choses entretiennent avec elles, est l’idée de chaque chose» (Ibid.). Quelles sont ces relations entre les choses, sinon les relations amoureuses? «Puisque les relations entre les choses sont différentes, il doit y avoir beaucoup d’idées. Précisément, pour toutes choses, il n’y a qu’une seule idée du côté de l’essence [divine], mais beaucoup d’entre elles se trouvent du côté des différentes relations que les créatures ont avec cette essence »(Thomas d’Aquin, De Veritate, q. 3, art. 2).

Nous avons réduit la vocation et le discernement sur la vocation à un mythe, à une sorte d’oracle divin. Rien de tout cela. Comprendre sa vocation, au contraire, c’est se plonger au plus profond de soi pour se regarder comme Dieu nous regarde. Chacun de nous est une pensée unique, irremplaçable et éternelle de l’essence divine.

Les paroles de Martin Buber pour comprendre le vrai sens (et non le mythe) de la vocation sont éclairantes. “Tous les hommes ont accès à Dieu, mais chacun a un accès différent. C’est en effet la diversité des hommes, la différenciation de leurs qualités et de leurs tendances qui constituent la grande ressource de l’humanité. L’universalité de Dieu consiste dans la multiplicité infinie des chemins qui y mènent, dont chacun est réservé à un homme.

Certains disciples d’un zaddik décédé allèrent voir le voyant de Lublin et s’étonnèrent qu’il ait eu d’autres usages que leur professeur. ‘Qu’est-ce que Dieu – s’exclama le rabbin – celui qui peut être servi sur un seul chemin?’. Mais puisque chaque homme peut, à partir de là où il est et de sa propre essence, atteindre Dieu, même le genre humain en tant que tel peut, en progressant sur tous les chemins, l’atteindre.

Dieu ne dit pas: ‘Ce chemin m’amène, tandis que l’autre ne le fait pas’; au lieu de cela, il dit: ‘Tout ce que vous faites peut être un chemin vers moi, à condition que vous le fassiez de telle sorte que cela vous mène à moi’. Mais en quoi consiste ce que l’homme spécifique peut et doit faire et personne d’autre ne peut se révéler à l’homme qu’à partir de lui-même. Dans ce domaine, regarder ce qu’un autre a fait et essayer de l’imiter ne peut qu’induire en erreur; ce faisant, en effet, on perd de vue ce à quoi lui, et lui seul, est appelé.

Le Baal-Shem dit: ‘Chacun se comporte selon le degré qui lui appartient. Si cela ne se produit pas, et que l’on prend possession du rang de partenaire et laisse sa propre fuite, il n’y parviendra pas non plus’. Ainsi le chemin par lequel un homme aura accès à Dieu ne peut être indiqué que par la connaissance de son propre être, la connaissance de sa propre qualité et de sa tendance essentielle. ‘Il y a quelque chose de précieux en chacun qui n’est en personne d’autre’. Mais ce qui est précieux en lui-même, l’homme ne peut le découvrir que s’il saisit vraiment son sentiment le plus profond, son désir fondamental, ce qui émeut l’aspect le plus intime de son être” (Martin Buber, Le chemin de l’homme, p. 28-29).

Il “mito” della vocazione

Accompagnando persone nel loro cammino spirituale, molto spesso ritorna la richiesta: “Padre Paolo, mi può aiutare a capire cosa Dio vuole da me, dalla mia vita?”. Normalmente mi contattano per discernere la “vocazione”, in particolare se Dio li stia chiamando alla vita religiosa o sacerdotale. Come potete ben immaginare, si tratta di maschi adulti tra i 35 e 50 anni. In molti casi sono single con un lavoro che ancora vivono con i propri genitori, a volte impegnati in parrocchia, con una vita spirituale di preghiera quotidiana e desiderio di dare un senso maggiore alla propria vita. “Cosa vuole Dio da me?”

Un giorno, mi avvicinò un uomo di 42 anni, single, con un buon lavoro ed anche impegnato in parrocchia. E mi chiese: “Ho sempre pensato a farmi prete, ma non ho avuto mai il coraggio di fare il passo: ma Dio cosa vuole da me?”. Stetti ad ascoltare in silenzio, poi gli risposi: “Cerchi di amare?” E lui mi rispose: “Sì, cerco di voler bene alle persone che mi stanno vicino, di rispondere alle loro richieste, di rendermi utile. Sì, cerco di amare. Ma Dio cosa vuole da me? Devo farmi prete?”. Di nuovo feci silenzio. Poi gli dissi: “Ama lì dove sei, ama in ogni momento, quella è la vocazione per te”. E lui mi rispose: “Sì, Padre, ma devo capire se farmi prete o no”. Ed io gli risposi: “Scusami, ma ti vuoi far prete perché?”. Ora, fu lui a far silenzio. Mi ricordai quanto Agostino affermò e glielo ridissi: “Ama, e fa ciò che vuoi”. E aggiunsi: “Anche facendoti prete, ciò che conta, è l’aver amato. Questo salva te e gli altri”.

Mi ricordai anche di ciò che disse Teresa di Lisieux (Manuscrits autobiographiques, 227-229): “L’amore mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che, l’amore è eterno. Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà”.

Abbandonare il “mito” della vocazione significa scoprire che l’amore è la volontà di Dio. Dio chiama ogni uomo e donna, anzi ogni essere creato, a rispondere lì dove è, così come è, con la sua intera vita, amando. Ti puoi far prete, suora; ti puoi sposare o non sposare. Ma alla fine della vita, Dio non ti dirà: “Perché non ti sei fatto prete, come avevo pensato dall’eternità per te?”, ma ti dirà: “Perché non hai amato, mentre eri prete, suora e sposato, o single?”.  Come dice il gesuita Rossi de Gasperis, “la volontà di Dio su di noi da cercare e da trovare non è una realtà già scritta, fissata e prefabbricata prima di noi e senza di noi, una cosa già bella e fatta che noi dovremmo solo scoprire, come si scopre un tesoro nascosto da qualcuno nel nostro giardino, per poi adeguarci passivamente a essa”. Conoscere la “Volontà di Dio” significa sintonizzarsi qui e ora con l’amore di Dio quanto più mi è possibile, e liberamente e amorosamente condizionato da questo amore di Dio, disegnare la mia vita secondo quello che io voglio. Dio infatti suscita in noi non solo l’operare, ma anche il volere secondo i suoi benevoli disegni (Fil 2,13). Fare la volontà di Dio, quindi, è fare quel che io liberamente voglio, mentre mi lascio abbracciare dall’amore di Dio.  La Volontà di Dio su di me io non la trovo fuori di me, ma in me: ascoltando e sintonizzandomi con l’energia vitale e la voce dell’amore che già opera in me. Gesù di Nazareth aveva proprio fatto questo ed è diventato così “Parola di Dio”, cioè l’incarnazione della Volontà di Dio.

A sostegno di questa comprensione della vocazione, abbiamo lo stesso Tommaso d’Aquino, secondo il quale ogni essere creato è una singolare e particolare imitazione dell’essenza divina. Ogni ente è un pensiero unico ed irripetibile di Dio. “Ora, le diverse cose imitano l’essenza divina in modi diversi e ciascuna secondo il suo modo, dato che ciascuna ha un essere distinto da un’altra” (Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 3, art. 2). Ma ogni pensiero di Dio imita quell’essenza divina che è essenzialmente amore.

Per questo Tommaso d’Aquino prosegue dicendo che “la stessa essenza divina, insieme con la quale sono stati concepiti i rapporti che le cose hanno con essa, è l’idea di ciascuna cosa” (Ibid.). Cosa mai sono questi rapporti tra le cose, se non rapporti di amore? “Dato che i rapporti delle cose sono diversi, è necessario che ci siano molte idee. Precisamente, per tutte le cose c’è una sola idea dal lato dell’essenza [divina], ma se ne riscontrano molte dal lato dei diversi rapporti che le creature hanno con tale essenza” (Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 3, art. 2).

Abbiamo ridotto la vocazione e il discernimento sulla vocazione ad un mito, ad una specie di oracolo divino. Nulla di tutto questo. Capire la propria vocazione è, invece, immergersi nel profondo di sé per guardarsi come Dio ci guarda. Ognuno di noi è un pensiero unico, irripetibile ed eterno dell’essenza divina.

Illuminanti le parole di Martin Buber per capire il senso vero (e non il mito) della vocazione. “Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. E infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo.

Alcuni discepoli di un defunto zaddik si recarono dal Veggente di Lublino e si meravigliavano che avesse usi diversi dal loro maestro. ‘Che Dio è mai – esclamò il Rabbi – quello che può essere servito su un unico cammino?’. Ma dato che ogni uomo può, a partire da dove si trova e dalla propria essenza, giungere a Dio, anche il genere umano in quanto tale può, progredendo su tutti i cammini, giungere fino a lui.

Dio non dice: ‘Questo cammino conduce fino a me, mentre quell’altro no’; dice invece: ‘Tutto quello che fai può essere un cammino verso di me, a condizione che tu lo faccia in modo tale che ti conduca fino a me’. Ma in che cosa consista ciò che può e deve fare quell’uomo preciso e nessun altro, può rivelarsi all’uomo solo a partire da se stesso. In questo campo, il fatto di guardare quanto un altro ha fatto e di sforzarsi di imitarlo può solo indurre in errore; comportandosi così, infatti, uno perde di vista ciò a cui lui, e lui solo, è chiamato.

Il Baal-Shem dice: ‘Ognuno si comporti conformemente al grado che è il suo. Se non avviene così, e uno si impadronisce del grado del compagno e si lascia sfuggire il proprio, non realizzerà né l’uno né l’altro”. Così il cammino attraverso il quale un uomo avrà accesso a Dio gli può essere indicato unicamente dalla conoscenza del proprio essere, la conoscenza della propria qualità e della propria tendenza essenziale. ‘In ognuno c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro’. Ma ciò che è prezioso dentro di sé, l’uomo può scoprirlo solo se coglie veramente il proprio sentimento più profondo, il proprio desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del proprio essere’” (Martin Buber, Il Cammino dell’uomo, pp. 28-29).

Il Gesù storico e la fede in Cristo

Da anni assistiamo a un rinnovato interesse verso la figura di Gesù. A volte fede e ragione si isolano, girando così su loro stesse; a volte simpatizzano e (con)corrono insieme a cercare il Cristo. Tra colui che crede che Gesù è il Cristo (diremo il Cristo della fede) e colui che ricerca con i mezzi storico-critici il Gesù della storia la collaborazione è necessaria. Da un lato, lo storico-critico aiuta il credente a smascherare ogni mitizzazione indebita di Gesù Cristo; dall’altro lato, il credente aiuta il “pensante” – colui che cerca e ricerca il Gesù storico – a non insuperbirsi, ma anche a non desistere dalla sua ricerca. Venendo ai tratti fondamentali del Gesù storico, innanzitutto egli non era un cristiano, ma un giudeo. Il popolo ebraico ci dona Gesù così com’è: vere homo ma ancor più vere iudaicus. Di questa identità ebraica la ricerca recente sottolinea in particolare due aspetti. Il Gesù ebreo sarebbe stato un apocalittico, in stretta comunione con la missione di Giovanni Battista. Ci sono anche posizioni radicali – secondo le quali Gesù non avrebbe fatto altro che continuare la novità del messaggio e dell’opera del Battista – ma sono maggiormente in sintonia con chi sottolinea una differenza tra il prima e il dopo la morte del Precursore.

C’è una differenza tra apocalittica (la fine del mondo arriverà) e escatologia (la fine è già qui). Come dice Giuseppe Barbaglio: «Il presente, dunque, non è per Gesù il tempo del male e della perdizione, mentre al futuro sarebbe assegnata tutta la liberazione; così si esprimeva l’apocalittica; ma egli non fu un apocalittico. L’oggi è connotato, imperfettamente ma realmente, dalla grazia del futuro potere regale di Dio». L’altro aspetto è rapporto tra Gesù e la Legge. Essa aveva due dimensioni fondamentali: morale e cultuale; quest’ultima dà distinzione etnica ai giudei, contrapponendoli ai gentili. Tra gli autori noto varie tendenze, ma quasi tutti sono d’accordo nel sottolineare che Gesù ha osservato la Legge: è stato maestro della Legge, non ha mai rifiutato le istituzioni di Israele e non ha mai voluto iniziare una nuova religione.

Furono le comunità cristiane – dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme – a presentare un Gesù contro la Legge. Gesù attribuì priorità alla purezza morale sopra quella cultuale, senza con questa rifiutarla. Ciò che lo contraddistingue è aver posto il cuore della Legge – l’amore di Dio e del prossimo – quale particolare interpretazione (accanto ad altre diffuse al suo tempo) della Legge stessa. Questo “cuore nuovo” del codice di santità non sostituisce la Legge, bensì la realizza.

J.S. Spong afferma che lo studio critico della Bibbia è il riferimento per l’accademia cristiana eppure, dopo essersi addestrati perlopiù in quelle sedi, i membri del clero «sembrano partecipare alla congiura del silenzio per sopprimere questa conoscenza quando diventano pastori, per paura che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo istituzionale». C’è separazione tra i livelli della comunicazione della fede: il piano liturgico-devozionale; catechetico-tradizionale; formativo-intellettuale dei leader (laici, candidati al ministero e preti); infine, piano accademico (professori e ricercatori). Abbiamo bisogno di un linguaggio in grado di ridire la fede con nuove categorie, dialogando con la modernità.

La ricerca storico-critica obbliga la dogmatica a ripensare modelli e presupposti; il riferimento alla storia di Gesù costituisce una resistenza a certe forme fantastiche o addirittura docetiste di cristologia. L’identità etnica di Gesù, ebreo e galileo di Nazaret, ha una dimensione importante per la comprensione del mistero dell’incarnazione. L’impatto non può che essere purificatrice se mantenuto nella sua funzione critica nei confronti di qualsiasi formulazione che dimentica l’originaria intenzionalità della fede cristiana. Tra ricerca storico-critica e dogmatica ecclesiale si è giunti ad un’ambiguità: da un lato la ricerca storico-critica tende a “dis-sacrare” il Cristo, cioè ad abbandonare il terreno comodo del dogma per addentrarsi per i sentieri accidendati della ricostruzione del Gesù storico; dall’altro lato la dogmatica ecclesiale tenta di assorbire i risultati della ricerca storica senza modificare però la propria costruzione ideologica. Si accostano i testi sacri con devozione e senso critico, con l’incenso e lo scalpello. E quando si arriva a un punto in cui la rivestitura teologica cede sotto lo scalpello e fa emergere un possibile strato “dis-sacrato” interviene l’incenso per annebbiarne la visione.

Un esempio: la questione delle due letture (concepimento verginale o fornicazione) della illegittimità della nascita di Gesù. Un altro esempio: il racconto dei Vangeli sulla tomba vuota che rimanda sì ad un dato storico – la tomba che è vuota – ma è vuota perché Gesù è risorto oppure perché il suo corpo era stato posto in una fossa comune? La dogmatica rimane sorda a tutto questo. La ricerca storica ci aiuta a comprendere chi era questo Gesù, intorno a cui ruota la fede della comunità dei discepoli; è il punto di partenza di ogni cristologia, proprio perché il “chi è Gesù per i credenti” non può far a meno del “chi era Gesù per i suoi contemporanei”. È quindi il presupposto (conditio sine qua non), ma non potrà mai essere il fondamento della conoscenza di fede, poiché questa ha come suo “oggetto” proprio Dio e la Sua relazione al mondo e alla storia. Benché la ricerca storica non fondi l’oggetto proprio della conoscenza di fede, tuttavia influisce sul modo con cui esso viene espresso. Ripeto: questo “oggetto” di fede non è il Gesù storico in quanto tale (oggetto, invece, della ricerca storico-critica), ma la relazione che questo Gesù storico ha con un orizzonte trascendente, cioè l’essere di Dio. La relazione in quanto tale e l’orizzonte trascendente a cui la relazione rimanda (Dio) non possono mai de iure essere “oggetto” della ricerca storico-critica.

Tra giudizi dogmatici e giudizi storici c’è una differenza sia ontologica che epistemologica. Da un lato il giudizio dogmatico sulla realtà di Gesù di Nazareth (Gesù è Figlio di Dio) non può venire fondato sulla provvisorietà di giudizi storici che si esprimono secondo criteri probabilistici. Dall’altro lato il giudizio dogmatico non può interferire su quello storico ed (im)porre la propria certezza di fede su un dato che la ricerca storico-critica riconosce come “poco probabile” (menzionavo il concepimento verginale di Gesù e la tomba vuota). Dal punto di vista epistemologico sarebbe come applicare il modello del Dio tappabuchi – qui la conoscenza dogmatica – per supplire alla deficienza delle cause secondarie quando queste non riescono a sortire il proprio effetto.

Al modello teologico dell’interventismo divino corrisponde la conoscenza di fede che aggiunge per canali straordinari (tradizioni orali private o conoscenze soprannaturali) ciò che manca alla conoscenza storico-critica. Ma conoscenze storiche e conoscenze di fede non sono tra loro complementari: non appartengono allo stesso ordine di conoscenza, sono differenti. La prospettiva credente che si fonda sulla relazione tra questo Gesù storico e l’orizzonte teologico eccedente si serve di categorie, modelli, immagini con esprime nella cultura del proprio tempo la conoscenza teologica. A questo livello di formulazione di fede la ricerca storico-critica influisce criticamente sulle concezioni teologiche. Sussiste, pertanto, una circolarità ermeneutica tra conoscenza storica e conoscenza di fede: queste vanno tenute distinte, per evitare affrettate confusioni, pur in un rapporto asimmetrico tra loro.

La tragedia della Shoah ha costretto le chiese a ripensarsi, in particolare a rimembrare; nel senso proprio della parola: re-inserire Gesù nel suo corpo originario che è il popolo ebraico. Penso che l’aspetto ebraico di Gesù sia stato recepito. Un altro elemento è la continuità tra la cultura religiosa del tempo – sia giudaica che ellenistica – e come questa ha influito nel pensare l’evento di Gesù Cristo. In tal senso, gli studi di Boyarin sulle categorie della letteratura inter-testamentaria illuminano l’interpretazione del Nuovo Testamento della figura storica di Gesù. Poi c’è l’aspetto della discontinuità tra Gesù e la comprensione prima e dopo il 70 d.C.; qui si pongono le discussioni su come interpretare ciò che c’è di continuità in Gesù: l’aspetto halachico, l’aspetto apocalittico e la dimensione della divinità, che è centrale. Infine, volendo superare lo strappo tra il Gesù storico e il Cristo della fede, presente nell’odierna esegesi e cristologia, Ratzinger nel suo Gesù di Nazaret ha optato per il minimo uso del metodo storico-critico, identificando così «il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio». È necessario insistere, invece, che c’è una maggiore discontinuità tra Gesù della storia e Cristo della fede, pur in una grande continuità tra i due. L’attuale dibattito nella ricostruzione del Gesù storico invita il credente a comprendere la novità di Gesù ma all’interno dell’ambiente del suo tempo, e non proveniente dall’alto, cioè da Dio.

La ricerca storica su Gesù fa prendere coscienza di quanto sia sfaccettato il cristianesimo delle origini. Anche nella rilettura storica, come ricordava Albert Schweitzer, emerge una pluralità di prospettive. La ricostruzione attraverso i criteri della ricerca storica ci ha presentato un Gesù come uomo libero e contestatore non violento: così singolare da essere differente dagli altri suoi contemporanei (New Quest) oppure così ebreo tra ebrei da venir considerato una variante dei giudaismi (Third Quest). Ogni ricostruzione è sempre un’opera storiografica che parte da una ipotesi. Utilizzando gli stessi dati guadagnati con la ricerca storico-critica si possono ottenere contrastanti ricostruzioni a partire dalle ipotesi iniziali. Ma alcune dimensioni del Gesù storico pungolano la Chiesa. Ne individuo tre: Gesù vere homo, Gesù uomo libero; Gesù cosmico.

Innanzitutto, la ricerca sollecita la Chiesa a ritornare a questo Gesù. Per dirla con J.-N. Aletti: «La confessione dell’umanità del Figlio di Dio (è veramente uomo) non ha nulla di astratto, nella misura in cui consiste nel riconoscere questa umanità, in un secolo, una cultura, un paese, una religione, una società, una famiglia, una realtà sessuata: non esiste un’umanità se non con queste determinazioni, che nessuno – spero – oserà qualificare superficiali o secondarie. Confessare l’umanità del Figlio di Dio implica che si desidera conoscere questo Gesù, questo Galileo, le sue parole e le sue azioni, poiché è questo e nessun altro il Figlio di Dio, ormai vivente nella gloria. Tutto ciò che la ricerca storica intraprende non può dunque non interessare il credente – e quel credente particolare che è il teologo». La ricerca sul Gesù storico ci aiuta, perciò, a far emergere la dimensione umana di Gesù, evitando così che sia assorbita dalla divinità. Il vere homo della definizione di Calcedonia è assunto così nei termini del vere iudaicus, sua concreta espressione storica.

Una seconda dimensione è la libertà di Gesù contro un «apparato legalistico-rituale che voglia salvaguardare la diversità e superiorità di Dio a scapito delle sacrosante esigenze dell’uomo» (Sean Freyne). Specialmente i continui suoi movimenti nelle regioni di confine “esterne” di una Galilea essenzialmente ebraica rivelano un senso di libertà che Gesù aveva rispetto al contatto con i non ebrei, differente da quella dei suoi correligionari.

Infine, la ricerca storico-critica permette alla chiesa di prendere consapevolezza che questo Gesù non appartiene solamente a noi (chiesa) e a loro (popolo ebraico), ma a tutti. Con l’evento pasquale ogni uomo definisce l’identità di Gesù Cristo. Gesù è già il Cristo, ma non è ancora il Cristo totale. La ricerca storica permette di individuare un’eccedenza tra il Gesù ebreo e il Cristo totale o cosmico. Gesù non è il Cristo. La ricerca è allora indispensabile per sviluppare una cristologia in un orizzonte dinamico e relazionale, come è avvenuto con Rahner, che ha materializzato tale suo interesse nello studio “Cristologia. Prospettiva sistematica ed esegetica: basi operative per un corso di studio interdisciplinare”, scritto non a caso con l’esegeta Wilhelm Thüsing.

Consapevolezza e Materia

È possibile essere consapevoli di ciò che è aldilà della consapevolezza? È possibile sapere che il sole continua ad esistere anche quando non ne sono consapevole?

In entrambi i casi non si può trascendere la consapevolezza. L’intrascendibilità della consapevolezza è fondamento della realtà. Ciò che esiste (ek – siste), ciò che esce dal nulla per ritornare nel nulla, è la materia che fa apparire la consapevolezza, è apparenza o manifestazione della consapevolezza.

In quanto apparire, diviene secondo il prima e il dopo; il meno e il più; il nulla e l’ente. È l’apparire che diviene; e l’apparire è proprio questo venire dal nulla verso l’essere. Questo apparire o divenire apparente si predica (secondo la credenza del senso comune) della consapevolezza, per cui si dice che diventiamo consapevoli, oppure che la consapevolezza è epifenomeno della materia, prodotta dal cervello: manifestazione complessa dei neuroni cerebrali.

Non è la consapevolezza prodotta dalla materia (o stati fisici), ma viceversa. È la materia che è apparenza della consapevolezza, e questa filtra e fa trasparire (appunto: apparire-attraverso) la consapevolezza. La consapevolezza non diviene e non esiste, ma semplicemente “è”.

Immutabile è la consapevolezza, eternamente presente in ogni istante. Essa appare nel passaggio dal nulla all’essere in cui la materia consiste, per cui esiste. La materia manifesta la consapevolezza a tal punto che è sorta la credenza (opinione) che da essa provenga la consapevolezza; mentre la materia non genera la consapevolezza. È apparenza.

Ne segue che non è la consapevolezza che è nella materia, o la mente che è nel cervello, ma è la materia nella consapevolezza e il cervello nella mente. Così, propriamente, non è l’anima che risiede nel corpo, ma è il corpo nell’anima. “Sebbene le cose corporali (soltanto) si dicano essere in altre come il contenuto nel contenente, quelle spirituali però contengono le cose in cui si trovano: così l’anima contiene il corpo. Quindi anche Dio è nelle cose come contenente le cose. Tuttavia, per una certa analogia con le cose corporali, si dice che tutte le cose sono in Dio, in quanto che Dio le contiene” (STh I q. 8 art. 1, ad. 2). Non è Dio che è nel mondo, ma il mondo è in Dio. La materia è nella consapevolezza.

L’ombra e la nube

Quando smettiamo di idolatrare l’illusione di poter avere controllo sugli eventi della vita e riconosciamo la nostra povertà, è solo allora che diventiamo “immacolati” come Maria.

Abbiamo tutti bisogno che ci venga detto che Dio ci ama. Il mistero dell’Annunciazione non è altro che questo: la comunicazione della benedizione originale che siamo amati. Ma che questa benedizione “emerga” dal profondo, è necessario che la risposta sia adeguata al Mistero che viene comunicato. In che senso?

Pochi versi prima che l’angelo appaia a Maria nel primo capitolo del Vangelo di Luca, avviene un’altra annunciazione; un angelo annuncia a un vecchio, Zaccaria, che sua moglie ugualmente anziana deve dare alla luce un figlio che “preparerà al Signore un popolo ben disposto”. Verrà chiamato Giovanni. Zaccaria dice all’angelo: “Come posso conoscere questo?”. Questa risposta di Zaccaria è radicalmente diversa da quella che fa Maria. Dice: “Come avverrà questo?”. Zaccaria cerca conoscenza e informazioni, Maria si accontenta di saggezza. La risposta di Maria è più semplice di quella di Zaccaria, e anche più profonda. Come tutti i profeti, Maria si ferma davanti a Dio che è l’ineffabile ed inconoscibile. “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (ἐπισκιάσει σοι).

L’ombra oscura (σκιά) che copre Maria è la nube della non-conoscenza dell’Anonimo inglese del XIV sec. Dio copre Maria senza che sia conosciuto. Id quo maius cogitari nequit (Sant’Anselmo). Dio non è mai conosciuto ma può essere solo vissuto ed incarnato (ἐσκήνωσεν). Ecco perché il mistero dell’ombra che scende e copre Maria è il mistero dell’ineffabile ed inconoscibile Mistero che proprio restando tale diventa la casa stessa di Maria, poiché il Mistero si rivela, facendosi carne in Maria, cioè velandosi.

L’ombra è la tenda. Il mistero è la casa. Dio non è conosciuto o creduto, ma solo vissuto ed incarnato. “Eccomi” risponde Maria: “Avvenga per me secondo la tua parola”. La “parola” è fatto, avvenimento in Maria. Carne della sua carne. Il significato più profondo del concepimento verginale non è né biologico, né cristologico. È la verginità del fondo della nostra anima che Dio continuamente avvolge e vi si incarna ogni volta che ci abbandoniamo all’amore di Dio, senza volerLo conoscere (nel senso di controllarlo). Puro abbandono. ViverLo senza un perché. Allora non saremo solo “immacolati” ma daremo alla luce in noi la Parola di Vita e saremo vergini come Maria. Così ne parla Thomas Merton:

Le point vierge

Al centro del nostro essere c’è un punto di nullità che rimane intatto dal peccato e dall’illusione, un punto di pura verità, un punto o scintilla che appartiene interamente a Dio, che non è mai a nostra disposizione, dal quale Dio dispone della nostra vita, che è inaccessibile alle fantasie della nostra mente e alle brutalità della nostra volontà.

Questo piccolo punto di nullità e di povertà assoluta è la gloria pura di Dio in noi. È, per così dire, il Suo nome scritto in noi, come la nostra povertà, la nostra indigenza, la nostra dipendenza e la nostra figliolanza. E come un diamante puro che risplende della luce invisibile del cielo. È in tutti, e se potessimo vederlo, miliardi di punti di luce simili allo splendore di un sole farebbero svanire ogni oscurità e crudeltà della vita dalla faccia della terra…

Non ho un programma per questa visione: è un dono. Ma la porta del cielo è in ogni luogo.

(Thomas Merton, Diario di un testimone colpevole, 156-157)

L’incarnazione cosmica di Dio

In un saggio sulla teologia del culto, Karl Rahner presenta due modelli di interpretazione dell’azione divina. “Il primo modo è di considerare la grazia divina come un intervento di Dio nel mondo in un punto dello spazio e del tempo”[1] Questo primo modello interpreta l’azione di Dio in modo miracoloso e mitologico. Il mondo è inteso come “esterno” a Dio e ogni azione divina è compresa “dall’esterno” rispetto all’ordine del mondo[2].

In questa prospettiva interventista, la grazia di Dio viene principalmente considerata come frammentaria ed aliena, in un mondo che è fondamentalmente privo della grazia. Secondo questo modello, la rivelazione divina è considerata come sequenza di incursioni puntuali e singolari di Dio dall’esterno nella creazione e nella storia umana. In tale modello, la rivelazione viene identificata con alcune azioni e parole “speciali” di Dio, considerate straordinarie e irriducibili al corso ordinario della creazione. La rivelazione costituisce un secondo livello di creazione: il cosiddetto “soprannaturale”.

Secondo Rahner c’è, tuttavia, un altro modo di considerare la rivelazione divina. “Il mondo secolare fin dall’inizio è sempre circondato e permeato dalla grazia della divina auto-comunicazione. La sua grazia è sempre e ovunque presente nel mondo”[3]. Dio non è presente nel mondo in modo soprannaturale o straordinario. Due sono le ragioni principali. Innanzitutto, poiché la relazione con Dio costituisce intrinsecamente l’essere del mondo in ogni momento; ciò significa che Dio e il mondo, il Creatore e la creatura non sono in concorrenza. L’essere e la creazione di Dio, l’azione di Dio (prima causa) e le azioni create (cause secondarie), non sono inversamente ma direttamente proporzionali.

In secondo luogo, perché la relazione con Dio definisce l’essere della creazione. Significa che la creazione non è “aggiunta” all’essere finito. Ne consegue che non esiste una relazione divina maggiore con l’essere finito rispetto all’atto creativo stesso che nient’altro che l’essere di Dio stesso. La vera natura di Dio è la creatività. Concepire la rivelazione divina come un’ulteriore o speciale azione divina, significa non comprendere la creaturalità come predicato trascendentale dell’essere finito.

L’auto-comunicazione di Dio si identifica con l’essere di Dio ed è condizione trascendentale per la creazione. Karl Rahner afferma chiaramente: “Quando Dio vuole essere ciò che non è Dio, l’uomo viene ad essere”[4]. Ciò che Rahner ascrive qui all’umanità, dovrebbe essere attribuito alla creazione in quanto tale, poiché l’autodeterminazione di Dio è universale e presente dovunque. Il creato esprime l’essere di Dio: ogni cosa creata è “immagine” – a suo modo – di Dio. Poiché Dio è Spirito, significa che ogni cosa (panta) partecipa – a suo modo – dello spirito di Dio (psyché).

A questo punto possiamo porre in parallelo – come già molti studiosi stanno facendo (cf. Daniel Boyarin) – Gen 1,1-3 e Gv 1,1-3.

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu” (Gen 1,1-3)

In principio era il Verbo (= la Parola, Ragione, Progetto, Sapienza)
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste (Gv 1,1-3)

Fin dagli inizi della creazione (Big Bang), l’universo si evolve sempre più verso la somiglianza con Dio. L’intero universo partecipa del Mistero di Dio (cf Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, Contemplatio ad amorem) e per mezzo dell’evoluzione ogni ente è “attirato” (auto-trascendimento) a conformarsi sempre più coscientemente e liberamente a Dio, diventando così simile a Dio (theiosis). Poiché Dio è Spirito, e lo Spirito è Amore, l’amore attrae tutto l’universo secundum modum recipientis a divenire “trinitas creata”. Come recita l’ultimo verso del Paradiso e della Divina Commedia di Dante Alighieri: “L’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso, XXXIII, v. 145).

Il Credo Niceno-costantinopolitano inizia con l’affermazione che crediamo in un solo Dio e conclude confessando che crediamo nella vita del mondo che verrà. L’auto-comunicazione di Dio mira all’adempimento finale quando “Dio sarà tutto in tutti”. (1Cor 15,28). “[Dio] vuole veramente avere l’altro come suo, lo costituisce nella sua genuina realtà. Dio esce da se stesso, lui come pienezza di auto-donazione. Perché può farlo, perché questa è la sua possibilità libera e primaria, per questa ragione è definito nelle Scritture come amore”[5]. Se Dio è auto-comunicazione, ogni essere creato secondo il suo livello di ricettività e auto-trascendenza, è una rivelazione di Dio.

I cieli narrano la gloria di Dio,

e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.

Il giorno al giorno ne affida il messaggio

la notte alla notte ne trasmette notizia.

Non è linguaggio e non sono parole,

di cui non si oda il suono.

Per tutta la terra si diffonde la loro voce

e ai confini del mondo la loro parola.

(Salmo 19: 2-5)

Quanto più si da apertura a Dio (nella coscienza, nella libertà e nell’amore), tanto più lì Dio stesso si dice e si esprime. Nella sua amorevole consegna a Dio e agli uomini, Gesù attualizza quella potenzialità dell’auto-trascendenza che è presente in ogni forma vivente a diverso grado ed intensità, e nelle varie figure umane e religiose. In Gesù di Nazareth “il cosmo accetta Dio in modo definitivo e assoluto”[6]. Realizzando simbolicamente l’apertura trascendentale e totale a Dio, possiamo affermare che Gesù è “incarna” l’essere di Dio nell’atto categoriale della sua consegna d’amore per gli altri[7].

A partire da questa prospettiva cosmico-evolutiva intendo comprendere – seguendo alcuni Padri della Chiesa come Origene di Alessandria e Massimo il Confessore, la scuola scotista e francescana della scolastica e più recentemente a noi Karl Rahner – l’evento dell’incarnazione. Chiediamoci: Chi e cosa è il Cristo? Dove è il Cristo? Alla luce delle precedenti considerazioni sull’auto-comunicazione di Dio, interpretata secondo il modello dell’universale presenza di Dio, dobbiamo rispondere che il Cristo è il progetto (= Verbo, Sapienza e Parola) realizzato di Dio. Un cristiano è qualcuno che ha imparato a vedere Cristo ovunque. Comprendere il Cristo cosmico cambia il modo in cui ci relazioniamo alla creazione, alle altre religioni, alle altre persone, a noi stessi e a Dio. Conoscere e sperimentare questo Cristo può determinare un cambiamento importante nella coscienza. Il Cristo universale è presente sia nella Scrittura che nella Tradizione, così come è stato compreso da molti mistici, sebbene non come punto centrale e fondamentale della fede cristiana (cf il Prologo di Giovanni, Colossesi 1,15-20, Efesini 1, 9-12). In modo più specifico, possiamo dire che il Cristo universale è l’accoglienza ad modum creaturae recipientis dell’auto-comunicazione di Dio, che pervade tutta la creazione ed evolve dispiegandosi (Ent-faltung) fin dall’inizio (Big Bang) per raggiungere la sua completa e definitiva realizzazione cosmica nella “vita del mondo che verrà”.

Gesù è il Cristo in quanto è quella realizzazione piena e definitiva del Cristo universale già in punto preciso della storia e della creazione. È la promessa inequivocabile di ciò che per ogni uomo e donna, e per tutto il creato, avverrà nella potenza dello Spirito. Gesù e Cristo non sono, quindi, la stessa cosa: non materialmente, ma formalmente si identificano. Se da un lato la persona storica di Gesù di Nazareth è quella singolare unione di umano e divino realizzata nello spazio e nel tempo, da un altro lato Cristo è l’unione di materia e Spirito dall’inizio dei tempi. Quando crediamo in Gesù Cristo, stiamo credendo in qualcosa di molto più grande dell’incarnazione storica che chiamiamo Gesù. Possiamo dire che Gesù è la mappa visibile e tangibile di una realtà molto più vasta. Tutta la portata del significato di Unto, il Cristo, include noi e include tutta la creazione fin dagli inizi dei tempi.

Tanto l’incarnazione quanto la risurrezione (singolare e universale) non sono quindi atti consecutivi di Dio, ma esprimono l’effetto della risposta creaturale all’unica ed eterna auto-comunicazione di Dio. La risurrezione di Gesù, quindi, non è un nuovo atto creativo divino, un’azione più potente e straordinaria di Dio. Se fosse così, Dio contraddirebbe se stesso nella sua relazione trascendentale con il mondo (creatio ex nihilo), in quanto dell’atto creativo – identico con l’essere di Dio – non si può pensare uno maggiore. Se “creazione” dice dipendenza radicale e totale dell’ente dall’essere di Dio, non si può pensare una dipendenza “maggiore” da Dio oltre la relazione trascendentale del mondo da Dio. La risurrezione non può essere pensata così come un’azione “maggiore” rispetto l’atto creativo di Dio: sia ex parte dei che ex parte creaturae. “[La] risurrezione non è altro che il momento più alto in cui un essere umano si arrende all’amore di Dio, e non un nuovo atto divino che si aggiunge alla creazione. La risurrezione di Gesù è il risultato, invece, dell’autodeterminazione di Gesù di arrendersi a Dio nella morte”[8].

Con la risurrezione di Gesù comprendiamo pienamente ciò che Dio ha operato fin dall’inizio: che tutto vive, si muove e ha il proprio essere in Dio. Tutta la creazione è “progenie” di Dio – come dice Paolo in Atti 17,28 – e tutta la creazione è sacramento di Dio. Gesù di Nazareth è il sacramento di Dio per eccellenza, poiché egli rivela come Dio è ed agisce. È sacramento non perché “causa” la grazia o la salvezza – Dio rimane sempre l’unica e sola fonte di ogni grazia e salvezza, ma perché ne è segno ed indicazione. I sacramenti sono come “bandiere a vento” o “anemoscopi” che mostrano la direzione del vento, dove soffia il vento. In questo modo Gesù rivela e opera la grazia e la salvezza di Dio.

Un tale approccio all’incarnazione di Dio e alla risurrezione di Gesù permette una comprensione dell’azione divina che oltrepassi il modo mitologico di considerare l’incarnazione divina come qualcosa di straordinario aggiunto alla creazione attraverso una speciale azione divina.

[1] Karl Rahner, “On the Theology of Worship,” in Theological Investigations. Vol. XIX (Crossroad: New York, 1983), 141-149, at 142.

[2] Philip Clayton, “The Case for Christian Panentheism,” Dialog 37 (Summer 1998): 201-208,

[3] Karl Rahner, “On the Theology of Worship,” 142-143.

[4] Karl Rahner, Foundations of Christian Faith, 222-223.

[5] Karl Rahner, Foundations of Christian Faith, 222.

[6] Denis Edwards, Jesus and the Evolving Cosmos (Eugene, OR: Wipf and Stock, 2004), 66.

[7] “Incarnation is not supposed to be an isolated event in Jesus Christ alone, but is seen to have been a continuous process of incarnation that began with creation, reached its climax in Christ and continues even today.” (John Macquarrie, Jesus Christ in Modern Thought, London, SCM Press, 1990, 392.421)

[8] Bela Weissmahr, “Kann Gott die Auferstehung Jesu durch innerweltliche Kräfte bewirkt haben?” in ZKTh100 (1978), 441-469, 456.

Dio oltre Dio

Quando pensiamo alla parola “Dio”, emergono subito due domande:

1. Qual è il referente della parola Dio. Cosa abbiamo in mente, cosa hanno in mente le persone quando dicono o ascoltano la parola “Dio”;

2. Come si può parlare di Dio?

Vorrei iniziare con la prima domanda. La parola “Dio” e la realtà a cui si riferisce questa parola, fanno riferimento a due diverse comprensioni di Dio. Queste due diverse comprensioni sono presenti non solo nella tradizione cristiana ma anche nelle altre religioni.

In una prima fase della nostra vita, cresciamo con una determinata comprensione di Dio. La parola “Dio” si riferisce a un Ente supremo, ad un super essere: una persona divina che è separata dall’universo anche se in qualche modo relazionata all’universo. Questa persona “suprema”  è onnipotente e onnisciente; un Dio amorevole, ma allo stesso tempo  autoritario come un legislatore che occasionalmente interviene nei grandi eventi del passato proprio come si legge nella Bibbia (la creazione del mondo, l’Esodo, l’incarnazione del Verbo divino, la risurrezione di Gesù Cristo), e di volta in volta continua qualche volta ad intervenire nelle nostre vite, a volte anche in modo “molto” straordinario: apparizioni mariane, liquefazione del sangue di San Gennaro, miracoli eucaristici e guarigioni miracolose di Lourdes.

La definizione data a questo modo di pensare un tale Dio è “teismo soprannaturale”. Nella nostra vita da bambini quando andavamo ancora al Catechismo  questo modo di pensare Dio non ci creava grandi problemi. Qualche volta sorgeva la paura occasionale verso Dio, quando facevamo i peccatucci proibiti dalla religione cattolica. Questo “Dio”, Ente supremo, appariva come un genitore molto grande con un grosso bastone.

Crescendo nell’adolescenza, siamo poi passati ad una fase di agnosticismo molto confortevole. Abbiamo smesso di interessarci a questo tipo di “Dio e alla sua religione.  Poi cosa è successo? Ad un certo punto nella nostra vita è arrivato un momento in cui abbiamo iniziato a pensare a Dio in modo diverso. Non più un Ente supremo, ma con la parola “Dio” abbiamo iniziato a far riferimento ad una realtà che comprendeva tutto, abbracciava tutto; “Dio” visto come “spirito” che racchiudeva e custodiva ogni ente, non separato dal mondo ma in azione nel cosmo. Così come ne parla il libro degli Atti, abbiamo iniziato a sentire e percepire Dio come una realtà in cui viviamo e ci muoviamo e abbiamo il nostro essere. Siamo in Dio come i pesci sono nell’acqua; ora l’acqua è anche nei pesci ma la cosa veramente importante è che i pesci sono nell’acqua. Siamo arrivati a questa comprensione non principalmente attraverso uno sforzo intellettuale ma attraverso una serie di esperienze in cui ci ha condotto la vita, attraverso fasi di disintegrazioni e di crisi, e fasi di reintegrazione e di emergenza della vita in noi.

La realtà ha inizia così ad apparire luminosa (deus da dies: giorno, luce, splendore) e abbiamo visto come tutto non era più separato ma connesso: il sé, Dio e il mondo.  È stata l’emergenza di una consapevolezza segnata dallo stupore e dalla meraviglia. Questi sono stati e sono momenti di esperienza mistica del e nel quotidiano. Forse saranno durati per 40 minuti, forse di meno, a volte brevi istanti come rugiada nella nostra quotidianità. Non si tratta di grazie speciali ma del lento dischiudersi della propria consapevolezza a livelli sempre più profondi. I mistici di tutte le tradizioni religiose ne hanno parlato di tali esperienze. Lentamente la presenza luminosa di “Dio” diventa così evidente per cui è quasi naturale credere in Dio pur senza saperlo “collocare” dentro il mondo ordinario, “un oggetto” tra gli oggetti del mondo, così come non possiamo collocare la luce tra i colori della natura, poiché Dio che è quella luce, il “quo” attraverso cui tutto si vede e si comprende, senza che sia esso stesso compreso.

Con questa differente comprensione della parola “Dio” – come presenza avvolgente e spirito vitale da cui tutto continuamente emerge e in cui viviamo – molti dei problemi teologici su Dio e affini hanno iniziato a sciogliersi, poiché questi erano associati a quella precedente comprensione di Dio.  

Passiamo così alla seconda domanda. Come parlare di “Dio”? Com’è Dio, come è il Suo carattere e la sua natura? Come è la sua persona. Si può mai dire che Dio sente e vede, agisce e reagisce Dio alle creature?  Penso che ci siano fondamentalmente due modi di rispondere.

C’è un modo reattivo. Si parla di Dio come essere che ama e punisce. È questo il dio con cui siamo un po’ tutti cresciuti. Certamente, è un linguaggio molto bello e tenero: Gesù ti ama, ti vuol bene ed è pieno di grazia.  Ma abbiamo anche imparato che non potevamo dare per scontato l’amore di Dio e che se non rispondevamo nel modo giusto, cioè se non credevamo a certe cose che il catechismo ci insegnava o ci comportavamo in certi modi sbagliati, e di tutto questo non ci pentivamo sinceramente, allora questo Dio “reattivo” si sarebbe comportato di conseguenza, punendoci in vita o mandandoci per sempre all’inferno.

Penso che qualsiasi forma di cristianesimo che parla così di Dio, cioè in modo “reattivo” (do ut des), come di un Dio amorevole “e” punitivo, non abbia fino in fondo assimilato quanto afferma Gv 3,16: “Dio ha tanto amato il mondo”. Sì, ci sono due diversi tipi di cristianesimo; due diversi tipi di religione. Entrambi usano il linguaggio cristiano, ma uno è basato sulla paura, mentre l’altro sulla vita che è essenzialmente libera dalla paura: una vita di relazione più profonda con una realtà che ci ha dato la vita che ci sostiene nella vita. Quindi è molto importante come pensiamo a Dio.

Ma c’è un altro modo di pensare e parlare di Dio: in modo non più reattivo ma attivo, cioè atto creattivo d’amore incondizionato. In tale differente prospettiva, anche il problema del male – in quanto problema – viene affrontato in modo diverso e fondamentalmente scompare. Rimane certamente la sua realtà drammatica, ed anche il suo aspetto di incomprensibilità, ma questa realtà non viene riferita più direttamente a Dio – perché Dio permette il male? – ma viene riferita alla finitezza della creatura. Se Dio crea altro da sé, quindi qualcosa che è non-Dio e se Dio è il Bene perfetto, tutto ciò che è altro da Dio, è inevitabilmente limitato, imperfetto e diveniente. Ila male, come non-bene, è dunque inevitabile ma allo stesso tempo è in cammino verso quella pienezza di bene (quindi assenza totale del “non bene”) che è il Bene stesso, cioè Dio.

In tale diversa prospettiva anche la nozione di intervento divino scompare. Dio è già presente nel mondo e non ha bisogno di entrarci di volta in volta. È la creatura, invece, che gradualmente e in modi sempre più differenti si dischiude al Dio della Vita e lo accoglie.  

E la preghiera? Certo, continueremo a pregare rivolgendoci a Dio “come se” Dio fosse il “Tu” a cui innalzare la nostra richiesta: Kyrie eleison. Abbiamo bisogno di pregare così, perché come creature siamo costitutivamente dipendenti da Altro/altri. Siamo relazione continuamente originati da A/altro. Per questo come chiedo aiuto alle persone create (uomini e santi), così chiedo aiuto anche alle persone “divine” (Padre, Figlio e Spirito Santo). Ma lo facciamo non perché pensiamo che Dio possa intervenire perché glielo ho chiesto o perché se non lo faccio Dio potrebbe dimenticarsene, ma semplicemente perché pregandolo esprimiamo così la nostra dipendenza da Dio.

Sì, preghiamo Dio come se Dio fosse “una” (o “tre”) persona e parlo con Dio “come se” Dio fosse proprio qui. Nel colloquio con Dio e nella preghiera di richiesta a Dio, non potremo rivolgerci allo Spirito avvolgente e continuamente all’opera nella creazione. abbiamo bisogno di Qualcuno “fuori” di noi, a cui parlare e confidarci. È la preghiera di richiesta che configura “Dio” in un certo modo e viene conosciuto in modo personale, a differenza della contemplazione in cui Dio – invece – trascende ogni esperienza e conoscenza.

Nella Sua relazione al creato, Dio è vissuto ed esperimentato come “persona” e quindi il nostro modo di rivolgerci a Dio assumerà toni personali e antropomorfici. Questo tipo di linguaggio personale ed antropomorfico su Dio che utilizziamo nella preghiera come colloquio con Dio e nella preghiera di richiesta, è qualcosa di naturale, cioè corrisponde alla nostra natura umana.

Vorrei qui utilizzare l’immagine della luna. Come vediamo solo una faccia della luna, quella a noi rivolta, così esperimentiamo solo la faccia di Dio – cioè la persona, il volto – di Dio rivolto a noi. È questo il Dio “personale” o “tri-personale”, cioè il Dio rivolto a noi.

Ma c’è anche l’altra faccia della luna, quella invisibile che non è rivolta a noi. È sempre la stessa luna, ma quell’altra faccia della luna non ci è accessibile (e dunque non è conoscibile o esperimentabile), poiché non è rivolta a noi. Ma “sappiamo” che c’è l’altra faccia della luna. Sarà una faccia probabilmente diversa, oppure identica? Non lo sappiamo.

Seguendo tale analogia, possiamo dire che l’altro aspetto di Dio, quello che a noi non è dato conoscere ed esperimentare, è la sua non-relazionalità a noi, il suo essere assoluto e irrelato. Potremo chiamare questo aspetto “irrelato” o “assoluto” di Dio la sua divinità (divinitas), la sua natura; mentre l’aspetto rivolto al creato è il suo essere Dio (deus), il suo essere persona. Questo secondo aspetto è l’aspetto che conosciamo ed esperimentiamo di Dio. La divinità, invece, è l’aspetto di Dio che “non-conosciamo”. L’anonimo inglese de “La Nube della non-conoscenza” parla di oscurità, “come se ci fosse una nube, la nube della non-conoscenza. Tu non ne sai niente, ma semplicemente senti dentro di te un puro anelito verso Dio. Qualunque cosa tu faccia, questa oscurità e questa nube restano sempre tra te e Dio, e non ti permettono né di vederlo chiaramente alla luce della comprensione razionale, né di sentirlo nel tuo cuore con la dolcezza del suo amore” (cap. 3).

Si tratta dello “spirito di Dio” che è il fondo della creatura ed è identico al profondo di Dio. Essenza divina ed immagine divina: una e medesima realtà. Dio è entrambi gli aspetti. Dio è la Sua relazione a noi (deus trinitas) ed è in se stesso relazione assoluta (deus divinitas o relatio subsistens). La conoscenza che avviene per fede rivelata (Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo) e la non-conoscenza di Dio che avviene per puro amore di nulla (Dio non è Padre, Figlio e Spirito Santo) sono intrinsecamente correlate. Così la preghiera (e meditazione) e la contemplazione. La parola e il silenzio. L’essere e il nulla.