
In questa parabola Gesù ha cercato di denunciare gli attacchi a cui è stato sottoposto dai farisei e dai sacerdoti del Tempio. È una parabola che illustra la visione che Gesù aveva della religione.
Allora possiamo già indicare il significato religioso dei personaggi. Il padre della parabola rappresenta Dio e la casa dove dimorano i due figli con il padre, è il proprio essere, il proprio sé.
Il “figlio minore” rappresenta coloro che vogliono vivere lontano da Dio – noi diremmo l’ateo; coloro che credono che la felicità o la realizzazione siano da cercarsi fuori di sé. In tante cose esterne con cui identificarsi. Il che porta il “figlio minore” alla frustrazione più assoluta, per poi ritornare in sé, e riconoscere che nella casa del padre c’è possibilità di sopravvivere, ma da salariato e non da figlio.
Il “figlio maggiore”, nel frattempo, è il simbolo di tutte le persone religiose. Se il figlio minore era l’ateo, il figlio maggiore è teista. In realtà, si vanta dei suoi “meriti”, in un atteggiamento di orgoglio religioso, caratterizzato dalla sua obbedienza esteriore, dal perfezionismo, nel rigoroso rispetto della legge o della norma. Tutto ciò genera una religione mercantilista (“do ut des”: io ti do perché tu mi dia). Su questa comprensione “mercantilista” della religione vanno d’accordo sia il figlio maggiore che quello minore. In entrambi i figli, troviamo l’immagine dell’ego che si appropria della religione a proprio vantaggio. Dio mi serve per affermarmi, per essere sicuro, cioè per sopravvivere. Senza Dio, muoio.
Con questa mentalità il figlio maggiore già non vive, perché il suo desiderio è quello di “adempiere” la legge in vista del vivere dopo. Non conosce la ricchezza di ciò che potrebbe vivere, perché mette tutte le sue energie nell’ “avere meriti” e per vivere dopo. Al contrario del fratello maggiore, il figlio minore vuole conoscere la ricchezza per sé. Infatti, al padre chiede: “dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. E raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Il figlio minore vive per sé solo, senza il Padre e senza il fratello maggiore. Non si tratta di vivere dopo, ma di vivere da solo. Comunque entrambi i fratelli vivono fuori dalla casa del padre. Senza il padre.
Qual è la risposta del padre ad entrambi i figli? Qual è il modo di vivere in modo nuovo la religione?
“Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).
Il “padre” lascia essere entrambi i figli, dona la libertà (al figlio minore che decide di partire e al figlio maggiore che rifiuta di entrare in casa). ; è compassione (davanti al figlio che ritorna e davanti all’altro che lo supplica ad entrare); è gratuità e traboccamento d’amore (che arriva a dire: “Tutto ciò che è mio è tuo”).
Nel lessico biblico il figlio è colui che assomiglia in tutto al padre; il padre è colui che dona tutto al figlio. Il padre vuole l’autonomia e l’indipendenza del figlio senza alcuna soggezione e sottomissione. È proprio di Dio poter essere Padre in modo tale che colui che è generato non è sottomesso ma pienamente autonomo e indipendente.
Il rapporto tra il Padre e i due figli non è fondato sulla dipendenza patriarcale (servo-padrone; creatura-creatore) ma sulla condivisione. Il (Dio) padre della parabola non coincide con l’immagine che il figlio minore e quello maggiore hanno del proprio padre. Entrambi i figli non sono a casa in casa. In tedesco “mistero” si dice Ge-heimnis, cioè essere a casa (Heim). I due figli non sono a casa loro in casa. Non sono in contatto con la propria identità.
Il padre della parabola è interessato solo ad una cosa: che i suoi figli possano crescere e fa fare a loro l’esperienza che lui è padre per loro perché è amante della loro vita, non geloso delle sue sostanze o dei suoi diritti di padre. Questa parabola è paradigmatica di quell’immagine trasgressivadi Dio che Gesù ha vissuto e vuole trasmettere ai suoi discepoli affinché anche loro possano entrare nella stessa intimità che ha con il Padre.
«Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10,22).
Tanto al figlio maggiore quanto al figlio minore il Padre dice che tutto è loro. Entrare nel mistero della nostra identità divina significa fa risuonare nel segreto del nostro cuore in noi le parole del padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31).
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai.
Tu eri dentro di me ed io ero fuori. Lì ti cercavo.
Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature.
Tu eri con me, ma io non ero con te.
Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te.
Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete.
Mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace
(Agostino, Confessioni, Libro X, 27.38).