God’s Will. Where is it?

What is the Will of God? What does it mean that something or event is the Will of God?

First of all, it is good to affirm that the Will of God does not imply a passive or reactive attitude on our side but a pro-active one.

What “happens” is always ambiguous, I would say “neutral” in the determination of God’s will. Whether this or that is God’s will, whether this event or that event is God’s will, is not decided regardless of the subject that relates to this or that, this event or that event.

If my mom dies or I win a competition, it is not the event “in itself” – whether it be positive or negative – “God’s will”. I repeat: it is not the objectivity of something that has in itself the qualification of “God’s will”. Not even the a priori affirmation that all that is positive (the Good) is the Will of God while the negative is not. For example: saying that death was not and is not God’s will has no sense. What happens, is. It is neither good nor bad.

Something or event is good or bad always referring-to and “in-relation-to” something else, that is, to a knowing and willing subject with its intentionality.

An event or something is good, because it is assumed in an act of intentionality towards the good, within a benevolent project. Whether raining is a good event depends on my intentional project for that day, but it is not good in itself. It’s good-for-me-now.

The same is true when we affirm that something or event is the Will of God. It is not the event which in itself is the Will of God but the “relationship” between “me” and that “something”. I repeat: between “my” subjectivity and something objective (in general: the world). Therefore, the relationship between “God” and “something / event” is not “immediately” given. The relationship between God and the world (this or that event, this or that thing) is “known” or “revealed” always and in any case through the mediation of “my / our” subjectivity.

It is I (or we) who “discover” the Will of God in something or event when I assume what I live or happens around me into the intentionality of the Good, the Gospel or the Kingdom of God. To put more clearly. If my mother dies or I win a competition, these events are not already in themselves “God’s will” but they become “God’s Will” when I discover in them the possibilities of Good (indeed, of a greater good “Magis”) and an opportunity for loving more. How can I love more here and now, in this current situation? Is it God’s Will that I marry or become a priest, religious, or remain single? When I ask myself these questions it is not a question of guessing what God ever wanted when he created me. Instead, it is a question of becoming aware of one’s life-in-the-world and looking at it as a possibility towards a greater good than the actual reality, so that what is revealed as a simple matter of “fact” becomes “the act of giving oneself”. To discover the will of God means to become co-creator of God in the various situations of life.

Is my mom dead? Is it God’s will that she died? Such question makes no sense, since my mother’s death “becomes” God’s Will only when I discover in this event a possibility to act according to my intentionality towards the Good. I know what good means – for example – by reading the Gospel, studying the world, researching with reason and relying on the Good that sustains everything, that is, trusting God.

The will of God, therefore, is a pro-active (non-reactive) response of my subjectivity in which I become “co-creator” with God, transforming events, situations and things into God’s original Project.

Volontà di Dio. Dov’ è mai?

Cosa è la Volontà di Dio? Cosa vuol dire che qualcosa o evento è la Volontà di Dio?

Innanzitutto, è bene affermare subito che la Volontà di Dio non implica un atteggiamento passivo o reattivo da parte nostra ma pro-attivo.

Ciò che “accade” è ambiguo, direi “neutro” nella determinazione della volontà di Dio. Se questo o quello è volontà di Dio, se questo evento o quell’evento è volontà di Dio non è deciso a prescindere dal soggetto che si relaziona a questo o a quello, a questo evento o a quell’evento.

Se mia mamma muore o vinco un concorso, non è l’evento “in sé” – positivo o negativo che sia – “la volontà di Dio”. Ripeto: non è l’oggettività di qualcosa che ha in sé la qualifica di “volere di Dio“. Nemmeno l’apriori affermazione che tutto ciò che è positivo (il Bene) è la Volontà di Dio mentre il negativo non lo è. Per esempio: dire che la morte non era e non è la volontà di Dio non ha senso. Ciò che accade, è. Punto e basta. Non è né buono né cattivo.

Qualcosa o evento è buono o cattivo riferito a qualcosa d’altro, cioè ad un soggetto conoscente e volente dotato di intenzionalità.

Un evento o qualcosa è buono perché è assunto in una intenzionalità di bene, in un progetto benevole. Che piova sia un evento buono, dipende dal mio orizzonte intenzionale, ma non è buono in sé. È buono-per-me.

Lo stesso vale quando affermiamo che qualcosa o evento è Volontà di Dio. Non è l’evento che in sé è volontà di Dio ma la “relazione” tra “me” e quel “qualcosa”. Ripeto: tra la “mia” soggettività e un qualcosa di oggettivo (in generale: il mondo). Non è pertanto “immediatamente” la relazione tra “Dio” e “qualcosa/evento”. La relazione tra Dio e il mondo (questo o quell’evento, questa o quella cosa) è “conosciuta” o “rivelata” sempre e comunque attraverso la mediazione della “mia/nostra” soggettività.

Sono io (o noi) che “scopro” la volontà di Dio in qualcosa o evento quando assumo nella intenzionalità del Bene, del Vangelo o del Regno di Dio quanto vivo o accade attorno a me. Per esprimermi meglio. Se mia mamma muore o vinco un concorso, questi eventi non sono già in sé “volontà di Dio” ma lo diventano nel momento in cui scopro in essi delle possibilità di Bene (anzi, di un bene maggiore “Magis”) e occasione per “amare di più”. Come posso qui ed ora, in questa attuale situazione, amare di più? È volontà di Dio che mi sposi o mi faccia prete, religioso, o single? Quando mi pongo queste domande non si tratta di indovinare cosa abbia mai voluto Dio quando mi ha fatto nascere. Si tratta, invece, di diventare consapevoli della propria vita-nel-mondo e di guardarla come una possibilità verso un bene maggiore rispetto al dato, perché “il dato di fatto” diventi “l’atto di darsi”, così scopro che la volontà di Dio è divenire co-creatori di Dio nelle varie situazioni della vita.

È morta mia mamma? È volontà di Dio che sia morta? Tale domanda non ha senso, poiché la morte di mia mamma “diventa” la volontà di Dio quando scopro in questo evento una possibilità o occasione di agire secondo una intenzionalità di bene. Cosa significa il bene lo conosco – per esempio – leggendo il Vangelo, studiando il mondo, ricercando con la ragione ed affidandomi al Bene che sostiene ogni cosa, cioè a Dio.

La volontà di Dio, quindi, è un atto pro-attivo (non reattivo) della mia soggettività che diventa co-creatrice di Dio nel trasformare eventi, situazioni e cose nel Progetto delle Origini di Dio.

Via col vento… Panta rei

Cosa hanno in comune il 10 febbraio 2013 e il 25 giugno 2022? In entrambe le date, ciò che era stato stabilito, è stato cambiato.

Nel 2013 le dimissioni di Papa Benedetto XVI hanno generato un cataclisma nel modo di concepire il Papato. Anzi questo cataclisma si è approfondito per i tradizionalisti e conservatori con l’elezione di Bergoglio al soglio di Pietro, fino al punto che costoro – strenui difensori del Romano Pontefice e di tutto ciò che significa Cattolicesimo papale – hanno dovuto ripensare se stessi e “inventarsi” l’espediente della “vera” Tradizione, in quanto non potevano più considerarsi difensori del Papa. Tuttalpiù potevano solo definirsi “difensori” della “vera” Tradizione, come se fosse possibile che ci sia una “vera” Tradizione cattolica senza il dovuto riconoscimento ossequioso del Romano Pontefice regnante.

Così il 25 giugno 2022 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha abolito la sentenza “Roe v. Wade” con cui nel 1973 era stato legalizzato l’aborto negli Usa. Molti progressisti (in ran parte democratici) hanno protestato dicendo che i diritti civili dei cittadini non possono essere spazzati via per via di votazione. Ma – mi chiedo – non era stata una votazione democratica che aveva permesso attraverso una sentenza approvata democraticamente di mutare una precedente comprensione dei diritti civili? Così potranno anche altre sentenze della Corte suprema essere ribaltate attraverso un simile procedimento democratico: contraccezione e altri diritti della comunità LGBT, compreso il matrimonio omosessuale. Bisogna pertanto difendere i diritti ormai riconosciuti e se sono stati riconosciuti nel passato lo devono anche nel presente e nel futuro.

Nel 2013 il presupposto implicito che un pontefice non poteva dare le dimissioni è stato spazzato via; nel 2022 l’idea che una volta acquisiti dei diritti civili questo vale per sempre. Coloro che nel 1973 invocavano il cambiamento delle norme vigente in materia di aborto (e in seguito contraccezione e matrimonio omosessuale), ora invocano l’intangibilità di questi diritti come se fossero diritti immutabili.  Ma è coerente tutto questo?

Così gli attuali tradizionalisti che dal 2013 ad oggi 2022 hanno continuato a disobbedire al Romano Pontefice e a denigrare il suo Magistero, non potranno più – se venisse eletto un Papa “conservatore” – invocare l’obbedienza al Sommo pontefice da parte degli altri, dato che essi stessi non l’hanno di fatto osservata durante il pontificato di Bergoglio.

Morale della favola? Tutto cambia, nulla permane. Tutto è relazione. Specialmente ciò che “oggi” è vissuto e compreso come “un diritto”, può benissimo tra qualche decennio (se non prima ancora) essere considerato semplicemente qualcosa di “passato”, cioè non più presente e quindi andato via con il flusso delle cose… passato via. Ciò che è stato non crea uno stato, una condizione permanente. Una essenza. In tedesco, il “Gewesen” (stato) non è “Wesen” (essenza).

Si tratta della relatività di ogni cosa, per cui se oggi (t1) riconosco (o riconosciamo per via di maggioranza) con tutta coscienza che qualcosa è giusto o ingiusto, domani (t2) potrà essere considerato passato.

I diritti civili hanno bisogno di essere “continuamente” vissuti e argomentati, altrimenti passano via dalla coscienza del presente come qualcosa di passato (Gewesen),  non più essenziale (Wesen).

Così è anche per il papato e per tutto ciò che riguarda la fede cristiana. Se non è continuamente vissuta e argomentata, anche questa passa via dalla coscienza dei credenti come qualcosa di passato e non più essenziale.  

L’evidenza dell’Io Sono

Tutto ciò che “è”, esiste in quanto “esperito” (esse est percepi). Aldilà dell’esperienza (E) si possono fare solo congetture ma anche queste congetture hanno bisogno di essere esperite perché esistano. Dunque, il “non-esperienziale” (NE) è un mero postulato. È come la faccia non-visibile della luna. Ammettiamo che esista benché non l’abbiamo mai vista e sperimentata.

Per definizione la materia è ciò che “causa” o da cui “emerge” la consapevolezza. Dagli stati fisici emergerebbero – così tale posizione – gli stati mentali, i cosiddetti “qualia”: la dimensione soggettiva (cosa si prova nell’essere umani, nel sentire un pezzo di musica, etc…). Ma come si fa a dire che esiste ciò che per definizione non è sperimentabile, in quanto trascendente l’esperienza?  Questo è il mito del riduzionismo e del materialismo scientifico (non della scienza che non scivola in queste affermazioni o presupposti assurdi!). La materia, invece, è un’idea o una rappresentazione (immagine) dell’esperienza, ovvero di ciò che è fenomeno originario di consapevolezza. La materia è l’idea che ci facciamo della nostra esperienza come mondo esterno.

Dunque, cosa è mai NE? Se è vero che dal meno non può derivare il più, cioè da  NE non può derivare E, dal fisico il mentale, ne segue che la correlazione che pur si riconosce tra E e NE (se ho bevuto troppo perdo consapevolezza) non è tale da porre una assoluta identità tra E e NE. L’E non è riducibile al NE, forse potrebbe essere vero il contrario. Allo stesso tempo deve essere riconosciuta una differenza tra il modo “fisico” e quello “mentale” dell’esperienza. Tra NE e E c’è sì un’identità reale ma si tratta di una identità reale in cui NE e E sono formalmente distinti.

Se E (mentale) non può essere prodotto o emergere da NE (fisico), significa che NE non è “fisico” nel senso di altro, esterno, materiale ma è “fisico” (NE) nel senso che è e costituisce l’orizzonte intrascendibile dell’esperienza. Perché si dia “esperienza” è necessario che ci sia consapevolezza. Quindi, il NE è ciò che normalmente viene identificato come “fisico”. È la physis, la “Pura Consapevolezza”, il soggetto (NE) di esperienza (E). La Presenza trascendentale dell’ “Io Sono”.  Qui con “soggetto” non si intende un Ente supremo, il Dio, ma la sostanza, l’essenza, come dice l’inglese “under-standing” ciò che sta sotto e che è comprensione, consapevolezza. In greco sarebbe: hypo-stasis (tradotto in teologia trinitaria con “persona”). Da ciò ne segue che la soggettività è l’orizzonte intrascendibile della realtà.

NE è la Pura Consapevolezza in cui si dà esperienza (E). Come la luce è ciò attraverso cui i colori “appaiono”, così l’Io-Sono è lo sfondo o fondamento di ogni esperienza., la Presenza nella quale percepisco, vedo, sento, tocco, odoro, penso, sento emozioni, ricordo, dormo, sogno, son sveglio. Ma non è la “mia” o la “tua” consapevolezza. Queste sono l’apparenza dell’infinita consapevolezza: noi siamo l’appropriazione della limitazione o de-finizione (finitizzazione) che la Pura Consapevolezza realizza di se stessa. L’Io-Sono (NE) è l’Essere in cui si dà apparenza degli enti. L’esperienza è determinazione della Pura Consapevolezza (genitivo soggettivo) la quale viene ulteriormente determinata “astrattamente” nell’esperienza del finito, della mente finita. L’apparenza del mondo è la determinazione dell’“Essere-che-è-Io-Sono”, mentre la “mia” e “tua” esperienza sono l’astrazione di questa esperienza di Dio (gen. soggettivo) così come viene percepita, sentita, vissuta e pensata dalla prospettiva del finito. È ciò che normalmente viene indicata come l’esperienza di Dio (gen. oggettivo) e del mondo come creato ovvero posto-da-Dio-fuori-di-Sé.

Se ci poniamo dalla prospettiva dell’esperienza di Dio in senso “oggettivo”, è inevitabile che l’esistenza di Dio non sia immediatamente evidente poiché la “mia” mente astrae dalla condizione di possibilità con cui percepisce, vede, sente, tocca, odora, pensa, ricorda, dorme e sogna, se stessa e il mondo. Da questa prospettiva, la mente vede gli oggetti colorati e indaga tra gli oggetti quale di questi siano più colorati per attribuire loro poi la proprietà della luce che riscontra negli altri oggetti. Tale mente sarà sempre in dubbio, poiché potrebbero comparire sempre oggetti “più colorati” di altri che sono all’origine della luce degli altri oggetti colorati. E così all’infinito. Dimostrare l’esistenza della luce per via della mediazione (di altri oggetti colorati) è un assurdo, è come dimostrare l’esistenza attuale del 10 nel 5, o degli stati mentali in quelli fisici. Mentre la luce pre-esiste agli oggetti colorati e questi non fanno altro che farla apparire e riflettere.  

Allo stesso modo Dio è “evidente” come è la Luce nelle cose rischiarate e illuminate. Come senza luce non vedrei mai le cose, così senza l’evidenza di Dio non vedrei il mondo e tutto ciò che lo contiene. Ma Dio non è evidente come “cosa” o “oggetto” tra le cose del mondo. Se così fosse non vedrei più le cose e Dio non sarebbe più evidente come ciò attraverso e in cui tutte le cose sono visibili.

L’evidenza di Dio, quindi, è nel modo del “quo” non del “quod” proprio perché Dio è ciò senza del quale nulla sarebbe esperibile, visibile, comprensibile e dicibile. In questo senso è l’ineffabile che rende il mondo dicibile; l’incredibile che rende l’umano credibile. Dunque, l’ineffabilità di Dio non è qualcosa di misterioso, irraggiungibile, come se Dio sfuggisse sempre all’umano comprendere. L’ineffabilità di Dio è evidente nelle nostre parole che ricercano senso. È lo sfondo in cui si dà la scena del mondo. Evidenza – come dice bene l’etimo – è provenienza dalla luce (e-videre). Dunque, Dio non è evidente nel mondo come le cose sono visibili, ma le cose sono visibili perché Dio è evidente come “non-cosa” (no-thing), ni-ente.

Da quanto detto risulta chiaro che le cose – da questa prospettiva – non sono più da considerarsi primarie come è nella prospettiva astratta che separa le cose dalla sua sostanza. La relazioni tra le cose deve essere considerata, invece, primaria, più fondamentale delle cose correlate. Le relazioni non solo “connettono” cose preesistenti, ma modificano ciò che intendiamo per “cose”. Ciò di cui abbiamo a che fare immediatamente è la struttura di questa relatività primaria e originaria. Dire “cose” è un’utile scorciatoia per indicare “cose” (o enti) congelati nel flusso dell’esperienza quindi ab-stracta – e che emergono secondariamente, attirando così la nostra mente a percepirle come isole, indipendenti e isolate, le une dalle altre.

La relatio, invece, viene prima dei relata, cioè delle “cose” . Ciò che intendiamo con la parola “e” non è solo additivo, ma creativo e indica la Pura Consapevolezza, la sostanza di tutte le cose.

Porsi la domanda cosa dà “validità” a ciò che è esperito, cosa ci da certezza (se ce ne da) che ciò che è esperito sia “vero”, significa porsi nella prospettiva dell’assurdo, prospettiva in cui lo stesso Cartesio è caduto quando ha voluto dare un fondamento “oggettivo” esterno al “cogito ergo sum” per dare un fondamento certo all’immediatezza della sua esperienza del dubitare.

Come già detto, tale prospettiva conduce all’assurdo poiché non è altro che un processo che va all’infinito. Chi volesse convalidare la veridicità dell’esperienza del dubitare con il ricordo a Dio che è verace, non fa altro che postulare un Dio che per sua definizione non inganna ed è affidabile, poiché se non lo fosse, non sarebbe Dio. Ma tale argomento ha la sua validità ultima non tanto nel postulato ma questo postulato non fa altro che esprimere “oggettivamente” la corrispondenza tra l’esperienza del dubitare e un fondamento esterno, cioè il Dio-che-non-inganna.

Non ci si rende conto che da tale prospettiva assurda se ne esce solo se si riconosce l’immediatezza dell’esperienza della sua fondazione. L’esperienza del dubitare è vera non perché la sua dimostrazione (resoconto) corrisponde all’esperienza. Questa verifica – se così possiamo dire – non è primaria, ma è la verifica secondaria di una teoria che si valuta se sia coerente con l’esperienza immediata del dubitare.

Prima ancora del modo con cui esprimere il rapporto tra idea ed esperienza, quindi prima ancora dell’affermazione se una esperienza è vera o falsa, si dà la verità immediata del suo apparire, dell’esperienza. Questo apparire è primariamente e originariamente vero. Appunto: a – letheia, non nascosto, apparenza.  L’esperienza è l’apparire del vero. L’immediatezza e intrascendibilità dell’esperienza sono ciò che danno verità all’esperienza. Che sia poi riconosciuta o compresa in modo corretto o coerente in se stesso è qualcosa che avviene successivamente e secondariamente. Anche della falsità di un’esperienza, di un inganno – nel senso cartesiano – è inevitabile che di essa – qualora se ne dia esperienza – sia vera. È vero che faccio l’esperienza di ingannarmi ed è vero che mentre mi sto ingannando faccio un’esperienza di me che mi sto ingannando. Senza ricorrere al Dio cartesiano, l’immediatezza dell’esperienza è auto/evidente come esperienza della consapevolezza originaria: Io Sono.

Dio non è la Totalità degli enti

Con totalità ontica si intende la totalità di questo o di quell’ente. A è non-B, non-C, non-D, etc…  A è la totalità ontica di A. Questa determina l’ente A e l’ente A determina la Tot ontica di A.

La Tot ontica di A, o di B, C, etc… (gen. soggettivo) è la totalità che appare in una sua determinazione. Ma la Tot ontica non è l’apparire della Tot ontologica. Perché l’intero o la totalità di tutti gli enti possa apparire, questa non deve essere determinata. Se fosse determinata sarebbe ontica e quindi sarebbe ancora “ente”, non tanto l’apparizione di un ente, cioè una (particolare e singolare) determinazione, ma di tutti gli enti, di tutte le determinazioni, cioè dell’Ente Sommo, la Somma determinazione: la determinazione di tutte le determinazioni. In linguaggio religioso questo Sommo ente è Dio, o meglio ancora il Dio. L’Ente Sommo o Supremo è il Dio.

Tale modo di intendere la totalità non è ontologico, ma ancora “ontico”. La Tot degli enti, così intesa, è possibile con il contributo di ogni ente e con la loro totalità. Così intesa si comprende perché nella totalità ontica viga una relazione biunivoca tra le parti e queste con il Dio. La totalità di questo o quell’ente, così come di tutti gli enti emerge attraverso la relazione biunivoca tra il tutto e le sue parti. Le parti hanno bisogno del tutto, e il tutto ha bisogno delle sue parti. Si comprende perché la parte è tale – quindi determinata – poiché dipende dal tutto che la determina. Ma è anche vero che il tutto è tale – quindi determinato – poiché dipende dalle parti che lo costituiscono.

Ma la totalità “ontologica” non è la totalità ontica. La totalità ontologica, infatti, nonè determinata. È in-determinata. Proprio perché indeterminata, quindi ni-ente, è totalità che non necessita – in quanto determinata e sommamente determinata – di un ente o degli enti perché sia. È una totalità assoluta, cioè sciolta (ab-soluta) da ogni ente e determinazione. Né questo, né quello. Così come è sciolta dalla totalità ontica di ciò che religiosamente chiamiamo il Dio. È l’Assoluto. In virtù di questa assolutezza e indeterminatezza, la totalità ontologica è Onni-potente non perché più potente di altri enti, o il Sommamente Potente. È Onnipotente poiché fa sì che ogni ente sia potente; è la capacità di essere tutto nell’ente senza sostituirvisi o invadendolo, interferendovi. Dio è tutto in ogni determinazione e nella totalità delle determinazioni, poiché non è né una determinazione, né la totalità delle determinazioni.  Poiché l’Assoluto è Essere, e non Ente (Sommo) – perciò ni-ente –, l’essere di ogni ente è lo stesso essere dell’Assoluto. Deus suum ipsius est et omnium esse (Bernardo di Chiaravalle).

Solo ciò che è determinato “appare”, appunto perché è l’apparizione di qualcosa o qualcuno. Dal punto di vista religioso viene chiamato l’apparire della totalità degli enti, non di questo o di quello, rivelazione divina o meglio ancora rivelazione dell’Ente Sommo, de il Dio. Apparizione di Qualcuno che è il Dio. L’Assoluto – in quanto tale – non appare mai. Ciò che appare è la Sua determinazione, cioè il Dio e il creato. L’Assoluto si determina – appare – nella relatività creativa.  Possiamo quindi affermare che l’Assoluto (con Meister Eckhart direi divinitas, distinguendo così Dio da il Dio, deus) è “relatività assoluta” per il fatto che appare come relatività creativa.