L’evidenza dell’Io Sono

Tutto ciò che “è”, esiste in quanto “esperito” (esse est percepi). Aldilà dell’esperienza (E) si possono fare solo congetture ma anche queste congetture hanno bisogno di essere esperite perché esistano. Dunque, il “non-esperienziale” (NE) è un mero postulato. È come la faccia non-visibile della luna. Ammettiamo che esista benché non l’abbiamo mai vista e sperimentata.

Per definizione la materia è ciò che “causa” o da cui “emerge” la consapevolezza. Dagli stati fisici emergerebbero – così tale posizione – gli stati mentali, i cosiddetti “qualia”: la dimensione soggettiva (cosa si prova nell’essere umani, nel sentire un pezzo di musica, etc…). Ma come si fa a dire che esiste ciò che per definizione non è sperimentabile, in quanto trascendente l’esperienza?  Questo è il mito del riduzionismo e del materialismo scientifico (non della scienza che non scivola in queste affermazioni o presupposti assurdi!). La materia, invece, è un’idea o una rappresentazione (immagine) dell’esperienza, ovvero di ciò che è fenomeno originario di consapevolezza. La materia è l’idea che ci facciamo della nostra esperienza come mondo esterno.

Dunque, cosa è mai NE? Se è vero che dal meno non può derivare il più, cioè da  NE non può derivare E, dal fisico il mentale, ne segue che la correlazione che pur si riconosce tra E e NE (se ho bevuto troppo perdo consapevolezza) non è tale da porre una assoluta identità tra E e NE. L’E non è riducibile al NE, forse potrebbe essere vero il contrario. Allo stesso tempo deve essere riconosciuta una differenza tra il modo “fisico” e quello “mentale” dell’esperienza. Tra NE e E c’è sì un’identità reale ma si tratta di una identità reale in cui NE e E sono formalmente distinti.

Se E (mentale) non può essere prodotto o emergere da NE (fisico), significa che NE non è “fisico” nel senso di altro, esterno, materiale ma è “fisico” (NE) nel senso che è e costituisce l’orizzonte intrascendibile dell’esperienza. Perché si dia “esperienza” è necessario che ci sia consapevolezza. Quindi, il NE è ciò che normalmente viene identificato come “fisico”. È la physis, la “Pura Consapevolezza”, il soggetto (NE) di esperienza (E). La Presenza trascendentale dell’ “Io Sono”.  Qui con “soggetto” non si intende un Ente supremo, il Dio, ma la sostanza, l’essenza, come dice l’inglese “under-standing” ciò che sta sotto e che è comprensione, consapevolezza. In greco sarebbe: hypo-stasis (tradotto in teologia trinitaria con “persona”). Da ciò ne segue che la soggettività è l’orizzonte intrascendibile della realtà.

NE è la Pura Consapevolezza in cui si dà esperienza (E). Come la luce è ciò attraverso cui i colori “appaiono”, così l’Io-Sono è lo sfondo o fondamento di ogni esperienza., la Presenza nella quale percepisco, vedo, sento, tocco, odoro, penso, sento emozioni, ricordo, dormo, sogno, son sveglio. Ma non è la “mia” o la “tua” consapevolezza. Queste sono l’apparenza dell’infinita consapevolezza: noi siamo l’appropriazione della limitazione o de-finizione (finitizzazione) che la Pura Consapevolezza realizza di se stessa. L’Io-Sono (NE) è l’Essere in cui si dà apparenza degli enti. L’esperienza è determinazione della Pura Consapevolezza (genitivo soggettivo) la quale viene ulteriormente determinata “astrattamente” nell’esperienza del finito, della mente finita. L’apparenza del mondo è la determinazione dell’“Essere-che-è-Io-Sono”, mentre la “mia” e “tua” esperienza sono l’astrazione di questa esperienza di Dio (gen. soggettivo) così come viene percepita, sentita, vissuta e pensata dalla prospettiva del finito. È ciò che normalmente viene indicata come l’esperienza di Dio (gen. oggettivo) e del mondo come creato ovvero posto-da-Dio-fuori-di-Sé.

Se ci poniamo dalla prospettiva dell’esperienza di Dio in senso “oggettivo”, è inevitabile che l’esistenza di Dio non sia immediatamente evidente poiché la “mia” mente astrae dalla condizione di possibilità con cui percepisce, vede, sente, tocca, odora, pensa, ricorda, dorme e sogna, se stessa e il mondo. Da questa prospettiva, la mente vede gli oggetti colorati e indaga tra gli oggetti quale di questi siano più colorati per attribuire loro poi la proprietà della luce che riscontra negli altri oggetti. Tale mente sarà sempre in dubbio, poiché potrebbero comparire sempre oggetti “più colorati” di altri che sono all’origine della luce degli altri oggetti colorati. E così all’infinito. Dimostrare l’esistenza della luce per via della mediazione (di altri oggetti colorati) è un assurdo, è come dimostrare l’esistenza attuale del 10 nel 5, o degli stati mentali in quelli fisici. Mentre la luce pre-esiste agli oggetti colorati e questi non fanno altro che farla apparire e riflettere.  

Allo stesso modo Dio è “evidente” come è la Luce nelle cose rischiarate e illuminate. Come senza luce non vedrei mai le cose, così senza l’evidenza di Dio non vedrei il mondo e tutto ciò che lo contiene. Ma Dio non è evidente come “cosa” o “oggetto” tra le cose del mondo. Se così fosse non vedrei più le cose e Dio non sarebbe più evidente come ciò attraverso e in cui tutte le cose sono visibili.

L’evidenza di Dio, quindi, è nel modo del “quo” non del “quod” proprio perché Dio è ciò senza del quale nulla sarebbe esperibile, visibile, comprensibile e dicibile. In questo senso è l’ineffabile che rende il mondo dicibile; l’incredibile che rende l’umano credibile. Dunque, l’ineffabilità di Dio non è qualcosa di misterioso, irraggiungibile, come se Dio sfuggisse sempre all’umano comprendere. L’ineffabilità di Dio è evidente nelle nostre parole che ricercano senso. È lo sfondo in cui si dà la scena del mondo. Evidenza – come dice bene l’etimo – è provenienza dalla luce (e-videre). Dunque, Dio non è evidente nel mondo come le cose sono visibili, ma le cose sono visibili perché Dio è evidente come “non-cosa” (no-thing), ni-ente.

Da quanto detto risulta chiaro che le cose – da questa prospettiva – non sono più da considerarsi primarie come è nella prospettiva astratta che separa le cose dalla sua sostanza. La relazioni tra le cose deve essere considerata, invece, primaria, più fondamentale delle cose correlate. Le relazioni non solo “connettono” cose preesistenti, ma modificano ciò che intendiamo per “cose”. Ciò di cui abbiamo a che fare immediatamente è la struttura di questa relatività primaria e originaria. Dire “cose” è un’utile scorciatoia per indicare “cose” (o enti) congelati nel flusso dell’esperienza quindi ab-stracta – e che emergono secondariamente, attirando così la nostra mente a percepirle come isole, indipendenti e isolate, le une dalle altre.

La relatio, invece, viene prima dei relata, cioè delle “cose” . Ciò che intendiamo con la parola “e” non è solo additivo, ma creativo e indica la Pura Consapevolezza, la sostanza di tutte le cose.

Porsi la domanda cosa dà “validità” a ciò che è esperito, cosa ci da certezza (se ce ne da) che ciò che è esperito sia “vero”, significa porsi nella prospettiva dell’assurdo, prospettiva in cui lo stesso Cartesio è caduto quando ha voluto dare un fondamento “oggettivo” esterno al “cogito ergo sum” per dare un fondamento certo all’immediatezza della sua esperienza del dubitare.

Come già detto, tale prospettiva conduce all’assurdo poiché non è altro che un processo che va all’infinito. Chi volesse convalidare la veridicità dell’esperienza del dubitare con il ricordo a Dio che è verace, non fa altro che postulare un Dio che per sua definizione non inganna ed è affidabile, poiché se non lo fosse, non sarebbe Dio. Ma tale argomento ha la sua validità ultima non tanto nel postulato ma questo postulato non fa altro che esprimere “oggettivamente” la corrispondenza tra l’esperienza del dubitare e un fondamento esterno, cioè il Dio-che-non-inganna.

Non ci si rende conto che da tale prospettiva assurda se ne esce solo se si riconosce l’immediatezza dell’esperienza della sua fondazione. L’esperienza del dubitare è vera non perché la sua dimostrazione (resoconto) corrisponde all’esperienza. Questa verifica – se così possiamo dire – non è primaria, ma è la verifica secondaria di una teoria che si valuta se sia coerente con l’esperienza immediata del dubitare.

Prima ancora del modo con cui esprimere il rapporto tra idea ed esperienza, quindi prima ancora dell’affermazione se una esperienza è vera o falsa, si dà la verità immediata del suo apparire, dell’esperienza. Questo apparire è primariamente e originariamente vero. Appunto: a – letheia, non nascosto, apparenza.  L’esperienza è l’apparire del vero. L’immediatezza e intrascendibilità dell’esperienza sono ciò che danno verità all’esperienza. Che sia poi riconosciuta o compresa in modo corretto o coerente in se stesso è qualcosa che avviene successivamente e secondariamente. Anche della falsità di un’esperienza, di un inganno – nel senso cartesiano – è inevitabile che di essa – qualora se ne dia esperienza – sia vera. È vero che faccio l’esperienza di ingannarmi ed è vero che mentre mi sto ingannando faccio un’esperienza di me che mi sto ingannando. Senza ricorrere al Dio cartesiano, l’immediatezza dell’esperienza è auto/evidente come esperienza della consapevolezza originaria: Io Sono.

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