Il dilemma

  • L’esperienza cosciente negli esseri umani “dipende” dall’attività cerebrale: questo è l’assioma delle neuroscienze per spiegare la coscienza.
  • L’esperienza cosciente negli esseri umani è “oggettivata” e quindi considerata “fenomeno” o “contenuto” di esperienza, compresa a livello “meta-cognitivo” come “attività cerebrale” da cui l’esperienza cosciente dipenderebbe. Questa è l’assioma del monismo relativo per spiegare la coscienza.

La coscienza “precede” la materia (attività cerebrale), e non viceversa.

Mi sembra logico! Il più precede il meno. La realtà eminente “contiene” e “comprende” quella di cui l’altra (materia, etc…) partecipa. Questo è il principio logico che per molti fisicalisti non è più evidente, poiché – così dicono – si fondano sui dati. Ma i dati in quanto tali (!) non hanno alcuna relazione tra loro (causalità, emergenza, etc…). Ogni relazione (logos-légein) è l o g i c a ovvero non ha una realtà in sé, esterna all’osservatore che la misura. Anche nella concezione di Rovelli [Relational Quantum Mechanics (RQM)] ciò che viene indicato come osservatore/sistema di fatti è una costruzione “logica” espressa rigorosamente in equazioni. Ne segue che è importante saper ben distinguere i (cosiddetti) DATI dalla loro INTERPRETAZIONE.

La prospettiva di Federico Faggin sulla coscienza – come quella di altri che possono essere identificati come “monisti” (tra cui il sottoscritto, benché “relativo”) – non fa altro che porre come punto di partenza dell’indagine sulla coscienza

  • l’ESPERIENZA
  • la LOGICA.

L’orizzonte dell’esperienza è intrascendibile. Noi conosciamo non le cose ma “l’esperienza che facciamo con le cose” (FENOMENI) e questa esperienza che “facciamo” è appunto qualcosa che “facciamo”, “costruiamo”, inventiamo, modelliamo nel momento stesso in cui facciamo esperienza (Social constructivism).

La “scienza” è un modo/interpretazione (sociale) della costruzione dell’esperienza che facciamo (METACOGNITIVO).

Pregare…tra Tu e il sé

XXX Domenica – Anno C

Il “fariseo” simboleggia l’ego che vive di confronto, giudizio ed esclusione.

Il confronto permette di affermarsi, separandosi dagli altri.

Il giudizio è uno stato mentale, poiché pensare equivale a giudicare, cioè apporre “etichette” su tutto e tutti.

L’esclusione degli altri implica l’affermazione della propria “superiorità” morale o personale sugli altri.

L’immagine del “pubblicano”, invece, rimanda alla consapevolezza della propria vulnerabilità, con il suo carico di debolezza, errore, menzogna e persino male: ciò che, genericamente, è stato inteso come “peccato”.

Il primo vive di un’ossessione fobica di sé e, da questo punto di vista, condanna tutto e tutti coloro che non può né accettare né poter vedere. “Il fariseo stando in piedi, disse tra sé questa preghiera”.

Si erge senza l’altro/a… fuori di lui e dentro lui. In questo senso vive nella menzogna, perché incapace di riconoscere e accettare la propria ombra, la propria diversità. E, non vedendolo, è costretto a proiettarlo sull’altro, senza accorgersi che, con ogni probabilità, ciò che condanna nell’altro/a è ciò che, nel suo inconscio – cioè nella sua parte d’ombra – vorrebbe vivere e fare!

Così, mentre è orgoglioso di non essere “come tutti gli altri: ladri, ingiusti, adulteri”, è come se dicesse: “Io non sono come gli altri…, ma mi piacerebbe esserlo”. Risultato? È un uomo non riconciliato con se stesso, non “giustificato”, nel senso che la parabola dà alla parola “giusto”.

Il primo “si rifugia” nell’immagine idealizzata di sé; il pubblicano, invece, semplicemente riconosce la sua verità e si accetta così com’è. “Sono un peccatore, abbi misericordia o Dio”.

Non fa paragoni, non giudica e non esclude altri.

Accetta semplicemente la sua unica verità, senza inventarla.

È semplicemente consapevole della sua condizione.

Questa è vera “umiltà”. Sguardo sereno sulla realtà, innanzitutto propria e poi degli altri. Ed è “giustificato” poiché è unificato e pacificato.

“Essere giustificati” non indica tanto una qualità ma uno stato, una condizione di essere.

Il Signore è un Dio di giustizia, che non conosce favori. Non favorisce i buoni e disdegna i cattivi.

Il latino ius, iustitia lex … legein, sono tutte parole che rimandano a: unire, connettere.

L’idea di base è che la GIUSTIZIA è l’atto di unire, la capacità di connettere: lex – légein. La parola sanscrita è Yoga la cui radice yuj significa “collegare, unire”. Il latino ius deriva dal sanscrito yuj; la funzione essenziale della giustizia è ristabilire il legame dell’individuo con gli altri, con la società, con l’ambiente circostante e infine con se stesso.

Dicendo che il pubblicano tornò a casa giustificato, Gesù sta rivelando il segreto dell’essere stesso di Dio. Dio è “giusto” perché giustifica, condivide il suo “stato” di essere-con (di “inter-esse”) con chi è “altro”, quell’“altro” che è l’empio, il peccatore.

Dio è giusto, Dio è santo, perché nessuno è così diverso da Lui, così escluso da Lui, da non poter essere “con-Lui.” Nessuno è così “altro” da essere per sempre “non-altro” in Dio. Non c’è altro che Dio.

È interessante notare che la parabola di Gesù ci dice che sia il fariseo che il pubblicano si trovano nell’area del tempio. All’interno dell’area sacra, il fariseo è al centro, il pubblicano è ai margini, ai margine dello spazio sacro.

Il Tempio rappresenta l’essere di Dio: chi è al centro, nel cuore di Dio? Colui il cui cuore abita in Dio. Colui che è consapevole di sé cioè nello spazio eterno dell’”Essere-con” di Dio.

La parabola non dice che Dio ha parlato all’uno e non all’altro.

Sia il fariseo che il pubblicano danno del “Tu” a Dio:

  • “O Dio, ti ringrazio perché non sono…” (Fariseo)
  • “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Pubblicano)

Ciò che fa la differenza tra i due non è tanto a motivo del “dare del Tu a Dio” (preghiera “teista”?) ma la differente consapevolezza che l’uno e l’altro hanno di “sé” (preghiera “non-duale”).

Il fariseo è-separato-da-altri/o (e il Dio che il fariseo invoca è Colui che è sacro/santo, separato-dal-mondo, così anche lui si comprende “separato” dagli altri ma anche da quel totalmente Altro che è Dio). Il pubblicano, invece, è consapevole di sé, poiché si comprende nell’orizzonte della pietà, misericordia: non separato dagli altri e da Dio, ma nell’amore di Dio, nella sua misericordia. Si sente a casa di Dio.

Chi si rende conto che Dio ha accolto le sue preghiere?

Colui che ha trovato la pace con se stesso, perché non ha nulla da nascondere, nemmeno la sua ombra. “Stando” nella luce, diventa. luce.

Come riconoscere se vivo nascosto nell’ombra o svelato nella luce?

Da questi sintomi lo possiamo riconoscere nella vita quotidiana:

  • nel confronto con gli altri,
  • nella compulsiva smania di giudicare tutto e tutti,
  • nell’escludere altri.

Ogni volta che sentiamo una certa rigidità nei confronti di certe persone, atteggiamenti, comportamenti.

Ovviamente non tutto ciò con cui non sono d’accordo sta lì a rivelare la mia ombra, il mio lato oscuro. Ma ciò che mi rende nervoso a motivo di ciò che altri dicono o sono, tutto questo è qualcosa che non riesco ancora ad accettare in me e voglio negare di me.

2022 – Fisica Quantistica

Prima del 1900 avevamo una perfetta comprensione delle leggi che governano l’universo fisico tramandateci dal grande Isaac Newton. Queste sono le leggi che insegniamo ancora ai ragazzi delle scuole superiori di tutto il mondo, le leggi della cosiddetta fisica classica. Al centro della prospettiva di Newton c’è l’idea che se descrivi come è il mondo in questo momento, indicando la posizione e la velocità di tutti gli elementi e descrivi le forze che agiscono su quegli elementi, avrai delle leggi che predicono con esattezza come sarà il mondo in qualsiasi momento successivo.

La fisica classica procede in modo semplice, deterministico e potente. Ha la capacità di determinare il futuro. Questo modello funziona per fare previsioni del futuro: per esempio, quale posizione avrebbe in un dato momento un pendolo mentre oscilla, oppure dove una palla sarebbe atterrata quando sarebbe stata lanciata, oppure dove la luna sarebbe stata nella sua orbita attorno alla Terra. Tutte queste previsioni e tutte le altre sono state fatte con estrema precisione.

Questa è stata la fisica fino ai primi anni del 20° secolo. A questo punto, però, gli scienziati iniziarono ad acquisire la capacità di esplorare il microcosmo, il mondo degli atomi e delle particelle subatomiche. In questo regno subatomico, le previsioni della matematica di Newton si sono rivelate sbagliate. I dati rivelavano che c’era bisogno di nuove leggi per comprendere il mondo microscopico. Nel giro di pochi decenni, una generazione di scienziati del calibro di Albert Einstein, Max Planck, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Erwin Schrodinger e Max Bohr, e molti altri, hanno inaugurato una nuova comprensione della realtà, chiamata meccanica quantistica.

Ora la meccanica quantistica ha le sue potenti formule matematiche, ma la nuova idea centrale della meccanica quantistica si può cogliere anche senza la matematica. Se Newton descrive il mondo così com’è ora e come sarà domani, la meccanica quantistica ti dice com’è probabile che il mondo sia adesso e la probabilità di come sia il mondo domani. Per la meccanica quantistica, queste probabilità descrivono la realtà più profonda e precisa dell’interazione fisica.

Vien meno così la rigida certezza e determinismo con cui la fisica classica descriveva il mondo. Da parte di Einstein ci fu molta resistenza di Einstein nei confronti della natura probabilistica della meccanica quantistica. È noto il detto di Einstein: Dio non gioca a dadi. Einstein non negava che le probabilità quantistiche descrivevano il mondo microscopico, ma la probabilità si riferiva alla teoria e non alla realtà dell’interazione delle particelle subatomiche. Secondo Einstein, la meccanica quantistica era solo una teoria provvisoria che alla fine sarebbe stata sostituita da una comprensione più profonda che non si sarebbe basata sulle probabilità. Per questo Einstein lavorò instancabilmente per esporre le qualità della meccanica quantistica che lui sperava sarebbe stato così ovviamente inaccettabile e contraria alle aspettative di qualsiasi persona ragionevole. La meccanica quantistica con la sua teoria della probabilità non era la storia finale e non descriveva come funziona il mondo.

Nel 1935 con due colleghi Boris Podolski e Nathan Rosen, Einstein credeva di aver finalmente trovato il tallone d’Achille della meccanica quantistica, scoprendo una proprietà inerente alla Meccanica Quantistica che venne chiamata “entanglement” quantistico. In breve, Einstein e i suoi colleghi scoprirono che secondo la matematica della meccanica quantistica, se due oggetti interagiscono e poi vengono del tutto separati tra loro, nel momento in cui si effettua una successiva misurazione su uno di quegli oggetti, la misurazione su uno dei due oggetti ha immediatamente un’influenza istantanea sull’altro oggetto, indipendentemente dalla distanza tra loro.

Einstein chiamò questa strana connessione quantistica “azione spettrale (spooky) a distanza”. La cosa sconvolse profondamente la sua convinzione che oggetti ampiamente separati sono indipendenti l’uno dall’altro. L’entanglement quantistico era lì a mostragli che c’era una connessione quantistica invisibile in grado di collegare oggetti distanti insieme o come dice il nome impigliandoli Einstein non poteva accettare questa visione quantistica della realtà e quindi concluse che qualcosa non funzionava nella meccanica quantistica, non poteva essere la storia completa e definitiva.

Si tratta del “Paradosso di Einstein – Podolsky – Rosen” (Paradosso EPR) cioè un esperimento mentale da loro proposto con cui si  sosteneva che la descrizione della realtà fisica fornita dalla meccanica quantistica era incompleto. In un articolo del 1935 intitolato “La descrizione quantomeccanica della realtà fisica può essere considerata completa?”, costoro sostenevano che l’esistenza di “elementi della realtà” che non facevano parte della teoria quantistica e ipotizzavano che si doveva costruire una teoria che li contenesse. Per anni nessuno ha prestato molta attenzione al risultato dell’EPR soprattutto perché la meccanica quantistica ha funzionato e inoltre nessuno ha potuto vedere un modo per testare la speculazione di Einstein secondo cui un giorno la meccanica quantistica sarebbe stata sostituita da una comprensione più profonda che non avrebbe bisogno di probabilità. Ma nel 1964 un fisico di nome John Stewart Bell dimostrò matematicamente che c’era un modo per testare la visione più convenzionale della realtà, cioè mettendo alla prova l’opinione di Einstein secondo cui le particelle hanno sempre caratteristiche definite e non ci sono connessioni “spettrali”, quindi, nessun entanglement quantistico.

Il premio Nobel per la fisica di quest’anno 2022nè stato assegnato ad Alain Aspect, John Clauser e Anton Zeilinger, i cui Collective Works hanno messo a test con esiti efficaci la visione convenzionale della realtà di Einstein. L’entanglement quantistico è reale. Inoltre, si è potuto dimostrare che la meccanica quantistica e l’entanglement possono essere sfruttati per varie applicazioni: dal Quantum Computing al teletrasporto quantistico; dalla crittografia quantistica che è un modo per usare l’entanglement e inviare messaggi segreti in un modo che non possa essere intercettato o spiato.

Il premio Nobel per la fisica di quest’anno, quindi, conferma la comprensione che si ha della meccanica quantistica, come di qualcosa molto strano e mistico. Ci sono aspetti strani e quasi mistici nella teoria quantistica. La cosa più divertente della meccanica quantistica è che normalmente pensiamo il mondo costituito di sfere di biliardo di vario colore: rosse o gialle o bianche. Guardiamo una biglia ed è rossa, e un’altra è gialla, e un’altra è bianca. Guardando ciascuna singolarmente, pensiamo che la nostra osservazione non abbia nulla a che fare non le altre biglie. Questo è quanto pensa e fa la fisica classica.

Nella meccanica quantistica funziona in modo diverso, puoi avere stati di meccanica quantistica che sono chiamati entangled. In tale stato, guardando semplicemente questa biglia, dicendo che è gialla, in qualche modo si viene ad influenzare ciò che sta accadendo all’altra biglia. Questa è la spettrale o strana proprietà della meccanica quantistica.

I vincitori del premio Nobel della fisica di quest’anno ci hanno fatto capire cosa succede nella realtà del mondo subatomico.

Un falso dilemma

La coscienza emerge dalla materia o la materia dalla coscienza? Questo è il grande dilemma tra idealismo e fisicalismo, naturalismo e spiritualismo, Oriente e Occidente. Quello che David Chalmers ha chiamato: l’Arduo Problema della Coscienza (Hard Problem of Consciousness).

Ma il dilemma è fondamentalmente un problema di prospettiva sulla Realtà che non è duale ma una sola.

Partiamo dal fisicalismo/naturalismo. Con la scienza evolutiva, si è potuto dimostrare che anche le forme di vita più semplici hanno“ciò che chiamiamo “consapevolezza”. Certo in forma molto embrionale, capacità associativa in forme primordiali, che poi si svilupperanno sempre più attraverso la selezione evolutiva a dar vita a quella che chiamiamo “coscienza” (ovvero: consapevolezza a livello metacognitivo). Propriamente, però, è preferibile dire che gli esseri viventi sono nella consapevolezza e non “hanno” consapevolezza.

La consapevolezza è cosmica ed è la sorgente che “si” riflette nello specchio della Materia/Fisicalità. Lo specchio è la materia in cui la Consapevolezza si riflette. Come lo specchio non ha l’immagine che riflette, così le cose non hanno consapevolezza ma “sono nella consapevolezza”: la riflettono.

Ma “di cosa” è fatta la Materia, nella quale la Consapevolezza si riflette? È fatta di riflessione (della Consapevolezza) che è stata “oggettivata” . In altri termini: la Materia è ciò di cui “noi” (= soggetti) pensiamo sia fatta la realtà: attraverso categorie, formule, spazio/tempo, materia/energia.

La “sostanza” della materia è, quindi, riflessione, prodotta da soggettività consapevoli quali siamo “noi”. Oggettivata da chi? Dai “soggetti” (cioè “noi”) che percepiscono la Consapevolezza cosmica dal loro punto di vista. La Consapevolezza cosmica – vista dal punto di vista dei soggetti – è la Materia, il mondo esterno fisico.

Il cosmo – visto dal punto di vista di soggetti “dissociati” o “separati” dalla Soggettività di cui sono fatti – è puramente materiale e fisico. I soggetti – separati dalla Soggettività trascendentale – percepiscono e pensano se stessi come “individui”, costituiti di “propria” soggettività. Si “appropriano” della Soggettività cosmica e universale.

Il cosmo – visto dal punto di vista di soggetti “identificati” nella soggettività non considerata come “propria” ma “cosmica” e “universale” – è Pura Consapevolezza. I soggetti – identificati nella Soggettività trascendentale – percepiscono e pensano se stessi come “in-dividui”, cioè una realtà “non-divisibile” che non si appropriano di ciò di cui sono fatti – “io” sono “mio” e “io” non sono “tu” – ma “io-sono” (né mio e né non-tu).

La realtà, quindi, è unica (monos) ed è Pura consapevolezza (monismo). Questa può essere vista da due punti di vista differenti (relativo):

  • duale (di soggetti “dissociati” o “separati” dalla Soggettività di cui sono fatti ) ed è vista come “materiale”. La realtà “esterna” è Materia e la consapevolezza emerge da essa.
  • non-duale (di soggetti “identificati” nella soggettività non considerata come “propria” ma “cosmica” e “universale”) ed è vista come Pura Consapevolezza. La realtà (identità ontologica) non è né “esterna”, né “interna”. Tali distinzioni (interno-esterno) sono epistemologiche, cioè riguardano i punti di vista con cui l’unica realtà è vista.

La realtà è Io-Sono

Tutto/parte: mutualità?

È biunivoca la relazione tra le parti che compongono il Tutto e il Tutto?

È biunivoca la relazione parte-Tutto?

Giulio Goggi – autorevole interprete di Emanuele Severino – risponde sì. Leonardo Messinese – autorevole interprete di Tommaso d’Aquino e di Bontandini – risponde di no.

Non mi soffermo ad esaminare il pensiero di Messinese. Preferisco rifarmi all’idea della “relatio non ex aequo” di Tommaso, interpretandola alla luce della dottrina della creatio ex nihilo.  

Il punto è questo. Le parti sono tali solamente in riferimento al Tutto di esse e la relazione delle parti (gen. soggettivo) al Tutto fa parte di questo riferimento al Tutto. Secondo Goggi, anche il Tutto è tale solamente in riferimento alle parti, per cui la relazione del Tutto (gen. soggettivo) alle parti, fa “parte” di questo riferimento. Non si dà il Tutto senza le parti e il suo riferimento ad esse, così come non si danno alle parti senza il Tutto e il loro riferimento ad esse. Il “Tutto”, quindi, è l’identità dell’Infinito concreto. Se togliamo al Tutto il suo riferimento alle parti, riconosciamo al Tutto un’identità formale e non concreta. Il “Tutto-senza-relazione-alle-parti” è identità formale. Il “Tutto-con-relazione-alle-parti” è identità concreta.

Mi chiedo. È così pensato veramente il Tutto senza contradizione? Infatti, se la relazione del Tutto alle parti “fa parte” del Tutto in quanto tale, cioè che questa sua relazione è una parte assieme alle altre parti e inoltre se questa relazione del Tutto alle parti costituisce l’identità concreta del Tutto, significa che il Tutto diventa “parte” del Tutto che però non è più Tutto ma parte. Dunque, ne segue che qualora la relazione del Tutto alle parti fa parte del Tutto, non c’è più il Tutto con le sue parti ma solo le parti. Ma cosa sono le parti senza il Tutto? Le parti non sono più “parti” e quindi “non-sono”. Porre la relazione del Tutto-alle-parti (gen. soggetivo) come “parte” del Tutto significa dissolvere il Tutto e le parti.

Questa è la latente contraddizione della posizione di Goggi che ai nostri giorni è ripresa in campo filosofico e teologico da alcuni rappresentanti del panenteismo processuale di Whitehead. Questi affermano, infatti, che Dio (= Tutto) evolve con le creature; Dio soffre con loro ed è mutato nel lasciarsi coinvolgere e “toccare” dalle creature. La relazione-alle-creature costituisce l’identità di Dio, cioè del Tutto.

Pur condividendo il panenteismo di questa comprensione, non posso far mia il modo (contraddittorio!) con cui questo viene articolato. Sono d’accordo nel ritenere – con il panenteismo – che la relazione-alle-creature costituisce l’identità del Tutto, per cui l’identità di Dio è la Sua relazione-alle-creature. Ciò che manca nei pensatori processuali e nel modo con cui viene da loro articolato il panenteismo un’adeguata assunzione del concetto di creatio ex nihilo. La relazione-alle-creature che identifica Dio è una relazione creatrice. In termini tommasiani: una relatio non ex aequo. Ciò significa che non è una relazione che “aggiunge” qualcosa all’identità di Dio, come sarebbe nel caso si predicasse una relazione “biunivoca” tra parte-Tutto, creatura-Dio.  La relazione reale, infatti, quando viene predicata di qualcosa o qualcuno, aggiunge qualcosa all’identità ontologica del qualcosa/qualcuno. Ma la creazione “non” aggiunge qualcosa a Dio ma è l’espressione o apparizione di Dio.  

Dio (x) è l’apparizione del creato (x + y). Questa è l’equazione fondamentale di ciò che propongo come Monismo relativo (x = x + y). Se si risolve l’equazione, ne segue che il Tutto/Dio (x) si identifica in quanto tale, cioè come Tutto/Dio (x) in questa apparizione del creato (x = x), mentre il creato è “nulla” (y = 0) solo se “astratta-mente” considerato a prescindere dall’apparizione in cui è posto. Si annienta il creato nel momento in cui l’essere del creato viene isolato dall’apparizione (creatrice) in cui “ek-siste” e consiste. Il creato “è” nell’apparire: nel senso che la realtà creata sta “nel” tutto dell’apparire e non è “oltre” l’apparire. Ma di chi è questo apparire? È l’apparire della parte/creatura oppure del Tutto/Dio? È l’apparire del Tutto/Dio (gen. soggettivo). E la parte/creatura “non” appare? Niente affatto! La creatura (y) appare proprio nel momento in cui Dio appare. La creatura appare nel momento in cui Dio ek-siste. L’esistenza di Dio è l’apparire della creatura.

La parte è tale solo nel Tutto, partecipe del Tutto. La parte è l’apparire del Tutto in quanto la parte ne fa riferimento. La creatura è tale solo in Dio, essendone partecipazione. La creatura è teofania in quanto partecipa di Dio stesso. In questo modo – attraverso l’assunzione del concetto di creatio ex nihilo – si può affermare che la relazione del Tutto/Dio alle parti/creature costituisce l’identità e la realtà di Dio. Solo in questo senso specifico, la relazione di Dio alle creature è “reale” come quella della creatura a Dio, proprio perché il creato partecipa della realtà di Dio.

Apparire nella pura consapevolezza

Il punto di partenza è l’esperienza.

Conosciamo solo ciò di cui facciamo esperienza. Ciò di cui non facciamo esperienza non lo conosciamo.

Ciò significa che il punto di partenza è il fenomeno, ciò che appare, e ciò che appare è sempre riferito a un soggetto a cui qualcosa appare. Si parla quindi di coscienza intenzionale del soggetto a cui qualcosa è presente. È presente come fenomeno: percezioni, emozioni, pensieri. Questa coscienza intenzionale può essere oggettuale o non-oggettuale. Oggettuale è l’aspetto meta-cognitivo della coscienza intenzionale. Cioè “so-di-provare-una-emozione”, “so-di-percepire-qualcosa”, “so-di–avere -un-pensiero”. Non-oggettuale è quando la coscienza intenzionale “non-sa” di provare qualcosa, di percepire una sensazione e di avere un pensiero. Non è consapevole “di” qualcosa”. Ciò avviene nel sonno e nel sogno. Solo in un secondo momento si attiva l’intenzionalità della coscienza e la coscienza identifica quanto “vissuto” a livello pre-cognitivo come un sogno: ho sognato “questo” o “quello”.

Non ne ero consapevole “cognitivamente” di questo, cioè la coscienza non ne aveva una esperienza oggettuale, non ne era intenzionalmente consapevole. L’esperienza non-oggettuale, invece, è la coscienza “priva” di qualsiasi “oggetto” quindi a livello “non-cognitivo”. È la coscienza “non” intenzionale: è coscienza non “di qualcosa” (percezione, emozione, pensiero) ma è pura coscienza o – se vogliamo re-introdurre la intenzionalità – è coscienza che intenziona se stessa. Coscienza “di” coscienza. Immediata (cioè senza oggetto, senza contenuto che sia percezione, emozione o pensiero) e diretta.

La pura consapevolezza è coscienza “trans-intenzionale”. È ciò che trascende il fenomeno e quindi non è conoscibile intenzionalmente, se non come pura immediata coscienza di sé. La conoscenza del fenomeno nel suo immediato apparire è la conoscenza del fenomeno così come appare nella pura consapevolezza.

È vedere le cose con gli occhi di Dio.

Il gioco della Ri-forma

Il termine usato da Karl Rahner è in tedesco “Ämtlich” e significa “ufficiale”: si vuole indicare tutto ciò che è forma, credenza, dogma, rito, norma morale concreta, etc…. e dunque religione.

Qualcosa è “ufficiale” quando si riconosce qualcosa come “pubblico” , vincolato da un consenso pubblico, dunque non privato/individuale/di parte.

Quando la rivelazione di Dio – che si dà a tutti – viene riconosciuta come “divina” significa che qualcosa è confermato “pubblicamente” cioè ad una determinata espressione di essa viene riconosciuta “validità”.

Per fare un esempio. Ciascuno di noi ha accesso al mazzo di carte ( = rivelazione divina) ma perché possiamo interagire tra di noi che abbiamo accesso al mazzo di carne, abbiamo bisogno di decidere a quale gioco ( = DOGMA, CREDENZA, RITUALE) giochiamo. A questo punto giocando, non possiamo cambiare il significato che le carte hanno nel gioco che i partecipanti hanno deciso di attenersi.

Il problema attuale della Chiesa cattolica è che i giocatori non vogliono più giocare al gioco che altri hanno deciso. Possiamo cambiare gioco? Io dico…sì.

Il cambio del gioco si chiama RI-FORMA.

Scienza o Coscienza?

Rispondo al quesito distinguendo subito il metodo scientifico dallo scientismo o il riduzionismo scientifico. Mi spiego. Io sto con la scienza come metodo, ma non con gli “scientisti” che speculano o fanno atti di fede su quello che Kant chiamerebbe la materia “noumenica” della realtà.

Il metodo scientifico si basa sull’esperimento. “sperimentare” significa fare esperienza di qualcosa. Il “qualcosa” è il contenuto dell’esperienza. Il qualcosa è “quantificabile” e “oggettivabile”. L’esperienza in quanto tale – condizione perché ci sia contenuto di esperienza – non è quantificabile.

Se si viene ad affermare che “a tutt’oggi resta irrisolto il quesito fondamentale: è il Sé collocabile nel cervello o, addirittura, identificabile con le sue funzioni?” non si fa altro che confermare il carattere irrisolvibile di ciò il metodo scientifico – per sua definizione – non conosce, cioè la condizione per cui si diano contenuti di esperienza. La scienza osserva questi contenuti e li conosce, quantificandoli e classificandoli, ma non può osservare l’esperienza in quanto tale o pura consapevolezza.

La confusione sta nel non saper distinguere tre livelli della questione:

  1. esperienza/pura consapevolezza (livello della consapevolezza ontologica);
  2. contenuti di esperienza (dati esperienziali (livello della consapevolezza fenomenologica);
  3. conoscenza, classificazione dei dati esperienziali, loro formalizzazione e conoscenza scientifica (livello metacognitivo).

Ciò che la fisica quantistica osserva nel microcosmo e la relatività generale nel macrocosmo è “contenuto” di esperienza ma non l’esperienza stessa o pura consapevolezza di questi.

Se è vero che “senza esperienza/consapevolezza” non si danno contenuti di esperienza (cfr. 2° e 3° livello), senza “contenuti” si dà – tuttavia – esperienza/consapevolezza non-oggettuale (1° livello ontologico).

Questa è la dimensione epistemologica del Monismo relativo, il suo momento “riduzionista” poiché tutto è “esperienza” e l’esperienza è essere percepiti (esse est percepi), pura consapevolezza.

L’Oracolo (fila)delfico.

Dieci tesi del Monismo relativo

L’aspetto epistemologico del Monismo relativo

  1. Il principio fondamentale è che solo il simile conosce il simile.
  2. Ne segue che l’infinito conosce l’infinito e che l’infinito possa conoscere solamente l’infinito. L’infinito non può conoscere il finito in quanto finito. L’infinito può conoscere il finito solamente in quanto infinito.
  3. Perché l’infinito conosca il finito come finito, è necessario che l’infinito diventi finito. Solo a questa condizione, dunque, è possibile che l’infinito conosca se stesso come finito. Ciò implica che l’infinito possa conoscere se stesso come finito, se diventa finito. Il divenire finito dell’infinito è condizione necessaria perché l’infinito conosca se stesso come finito.  
  4. Una volta che l’infinito sia divenuto finito, l’infinito può conoscere se stesso come finito e il finito conoscersi.
  5. Il finito può conoscersi in quanto finito, solo se è data già una previa conoscenza dell’infinito. Originariamente è data previa conoscenza di Qualcosa che non è né finito, né infinito. Dire anche “Qualcosa” è improprio e inesatto. Si tratta dell’originaria realtà non-duale, per cui ogni determinazione o definizione di essa, la trasgredisce, cioè l’oltrepassa.  
  6. Se il finito non è “altro-che” (non aliud) l’infinito divenuto tale, definendosi come finito, ne segue che “il finito” – che si conosce come finito – non è altro-che l’infinito che è divenuto finito e come finito si ri-conosce.
  7. Infatti, perché il finito conosca se stesso come finito, è necessario che vi sia una pre-conoscenza ovvero una conoscenza “previa” dell’infinito.  Solo così il finito conosce se stesso “come finito”. Il finito riconosce se stesso come “finito” se già gli è data una “pre”-conoscenza dell’infinito, in cui il finito si conosca finito ma nell’infinito. Senza questa previa conoscenza dell’infinito, il finito non riconoscerebbe se stesso come finito ma non si riconoscerebbe affatto come tale.
  8. Ripetiamo. L’infinito conosce se stesso come finito, solo se l’infinito diventa finito. Divenuto finito l’infinito, cioè definendosi, l’infinito conosce se stesso come finito. Ma perché a sua volta il finito possa ri-conoscersi come finito, è   necessaria una previa conoscenza di sé dell’infinito, cioè una conoscenza di sé (finito) nell’infinito.  Tale preconoscenza dell’infinito che permette al finito di ri-conoscersi come finito si presenta come una condizione di apertura del finito all’infinito. Questa apertura del finito all’infinito rende presente in modo implicito e incoativo la conoscenza che l’infinito ha del finito in quanto infinito.
  9. La conoscenza che l’infinito ha del finito in quanto infinito è conoscenza del “proprio” simile, ovvero la condizione di possibilità perché il finito sia conosciuto come infinito è che il finito non sia altro-che (non aliud) l’infinito.
  10. Parlare di “somiglianza” implica indicare tra due realtà un’identità e una differenza. La somiglianza tra infinito e finito implica una differenza che non è “ontologica” ma “epistemologica”, mentre un’identità ontologica tra infinito e finito.

Planted in the Divine Ocean

“How long, O LORD?  I cry for help, but you do not listen!  I cry out to you, “Violence!”  but you do not intervene. Why do you let me see ruin; why must I look at misery?” (Habakkuk)

Why does God not intervene?

A ferocious storm swept through one of the towns there, and in the aftermath, a man clambered onto his roof to escape the floodwaters. As he sat there, someone in a canoe came by and offered to carry him to safety. “No, thanks,” the man replied. “God will save me.” The man paddled off, and the waters continued to rise.

Shortly afterward, someone in a boat pulled up to offer help. “No, thank you,” the man said again. “God will deliver me.” The waters rose higher. Finally, a Coast Guard helicopter appeared; someone with a megaphone offered to drop a ladder. “No, thank you,” the man said for a final time. “I prayed for God to save me.”

The helicopter flew off, the waters engulfed the roof, and the man drowned. When the man arrived in heaven, he asked in confusion, “What happened, God? Why didn’t you rescue me?”

God replied, “I sent you a canoe, a boat, and a helicopter. What more did you want?”

Did God intervene?

Another story, a Sufi story, goes like this:

“A man was overwhelmed by all the pain and suffering he saw around him. And so, he raised his cry to God. “Look at all this suffering and violence. Look at all these murders and these tragedies. Oh my God, why didn’t you intervene?”. Then God said to him: “But I sent you!”

In both stories we deal with people, very religious, but disintegrated in their life. “The rash one has no integrity; but the just one, because of his faith, shall live”.

The Hebrew word for “rash” עפל (‘aphal) refers to the verb “to swell”, “to inflate”. Who is the “rash” one? Someone who boasts himself, inflates himself.

The person in both stories is someone whose ego is so inflated that he wants everything to revolve around him. He thinks and acts as the Big “actor” of reality. And God must be at his service.

In today’s Gospel, we are told that the apostles said to the Lord, “Increase our faith.” It is a request of being inflated. And Jesus does not delay answering, but immediately says: “If you had faith the size of a mustard seed.”

The contrast between “increase, boost, amplify, inflate” and Jesus’ answer is unbelievable! Think of yourself as a mustard seed; and then imagine yourself as a holy person.

Today we remember Thérèse of Lisieux. She writes in her diary that “it has ever been my desire to become a Saint, but I have always felt, in comparing myself with the Saints, that I am as far removed from them as the grain of sand, which the passer-by tramples underfoot, is remote from the mountain whose summit is lost in the clouds.” This attitude of faith she called it the “Little Way,” a simple approach to the spiritual life that seeks to do ordinary things from within the overflowing love of God.

The faith by which we shall live is like a mustard seed, a grain of sand. Jesus’ words do not suggest any kind of false humility.

After you have done all that you have been commanded to do, we are not glad to hear: “you are an unprofitable servant”. Any time we help someone, any time we do an act of Christian charity, or serve in the parish, what do we expect to hear? We wait for a compliment, a public recognition. We expect to be thanked for what we’ve done.

And Jesus tells his apostles: “You have done what you had to do.” Is not Jesus unkind, in behaving like that? Ungrateful. Does he want to humiliate us? 

Jesus is simply shrinking our ego, by telling us: “Prepare something for me to eat. Put on your apron and wait on me while I eat and drink. You may eat and drink when I am finished.” That means:

Do not serve your ego first, but let your ego go…. And serve a bigger Self. “Seek first his kingdom and his righteousness, and all these things will be given to you as well.” (Mat 6:33) All things will be given, even your “own” self!

In our mind and from our standpoint of view, we consider ourselves “doers” (more or less) in the situations of life.  We claim to be able to control circumstances, other people, ourselves and even God.

We tend to get things work out for “our” good. And when we pray, we want God at our disposal and be effective. Everything must go, revolving around our ego. The only real “actor” in this game, it’s me.

Jesus is asking his apostles to do the impossible, that is to let go of their inflated ego. “Be uprooted and planted in the sea.” In his Christmas Homily, Saint Gregory of Nazianzus speaks of God as some great Sea of Being, limitless and unbounded, transcending all contents and limitations.

Jesus is pointing to the apostles and to us to be focused on that great Sea of Divine Love, to be planted, to dwell in the Spirit who is the power working in us and in all things: a creative energy that empowers us to live any circumstance and situation of life with the same power of God. “We know that in all things God works for the good of those who love him.” (Rom 8:28)

The Spirit dwells in us and has kept us “alive”, especially in the time of Covid-19.

The Spirit is active in us and shakes the ground of our standpoint.  Jesus let the stinking air out of our comfort-zone and breathes into us the freshness of His Spirit.

It is not enough to “believe in God” (increase our faith!) We are called to “live in God”. And live in a lighter way, a Little Way. “When you give to the needy, do not let your left hand know what your right hand is doing, so that your giving may be in secret. Then your father, who sees what is done in secret, will reward you.” (Matthew 6:3-4)

A vibrant young Jewish woman who lived in Nazi-occupied Amsterdam in the early 1940s and died in Auschwitz in 1943, Etty Hillesum, wrote in her diaries her religious awakening. In one of her lines, Etty expresses the spiritual transformation she underwent.

“There is a really deep well inside me. And in it dwells God. Often stones and grit block the well, and God is buried beneath. Then He must be dug out again.

“Dear God – she continues – these are anxious times. I shall promise You one thing: I shall never burden my today with cares about my tomorrow, although that takes some practice.  Each day is sufficient unto itself. I shall try to help You, God. All that really matters is that we safeguard that little piece of You, God, in ourselves. And perhaps in others as well.

(Etty Hillesum, An Interrupted Life and Letters from Westerbork (New York: Henry Holt & Company, 1996), 178-179.)