Non mentire della Risurrezione

Tace la mente davanti alla tomba e al fatto freddo, doloroso e inesorabile della morte.  Come ricorda il racconto simbolico del Quarto Vangelo, davanti alla morte e a una tomba, la mente mente della Verità, poiché intende “spiegare” sia la morte che la tomba, ma così facendo viene a “prescindere” e “separare” la morte dalla vita.

L’unico atteggiamento ragionevole – davanti alla morte/tomba – è il silenzio. L’etimologia della parola silenzio ci riporta a un’antica radice indoeuropea: si- = legare, che ritroviamo in alcune parole del sanscrito (ad esempio, si-nâmi = io lego). Solo il silenzio, dunque, ci permette di cogliere il legame tra morte e vita.

La fede cristiana confessa che Gesù è risorto dai morti e che questa è la speranza che attende tutti noi.  Tuttavia, il Gesù del Quarto Vangelo proclama la risurrezione al presente: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25).  Il che significa che, già adesso, siamo risurrezione e vita.

La realtà a cui fa riferimento la metafora della resurrezione sfugge alle coordinate spaziotemporali, cioè non è qualcosa che può accadere nel tempo e nello spazio.  “Spazio” e “Tempo” sono rappresentazioni mentali, adatte a comprendere ciò che la mente “com-prende”, controlla, organizza e interpreta… dal suo punto di vista.

Ma l’essenza di tutte le cose, di tutto ciò che è compreso tra il nascere e il morire, cioè la finitezza, è la vita, la consapevolezza, la dimensione profonda di ciò che è realmente reale, ciò che permane quando tutto cambia, la pienezza della presenza che sostiene e costituisce il mondo dell’apparire impermanente.  

La nostra identità profonda non si identifica con questo transeunte apparire ma con quella pienezza di presenza – “risurrezione e vita”, nelle parole del Vangelo – che trascende lo spazio-tempo, senza inizio e senza fine. Ciò significa che tutto è già risorto nell’eternamente presente. Tutto è già eternamente risorto. Ma ciò appare alla mente individuale – che opera con le categorie spaziotemporali – nella finita sequenza di “nascita-e-morte”, di “inizio-e-fine”. Non solo. Alla mente individuale “appare” la risurrezione e vita dell’Eterno come “individualizzata”, “corporizzata”. Per questo l’ “io” mentale/individuale che si rappresenta attraverso tale interfaccia spaziotemporale si pone a “soggetto” della risurrezione, fino a dire: “Risorgerò”.  

La parola “soggetto” rimanda al latino “sub-iectum”, cioè a ciò che è posto sotto (hypo-stasis, in greco: ciò che sta (stasis) sotto (hypó). Ma che cosa è la permanenza, il rimanere di tutte le cose? Non è altro che l’eterna e immutabile Pura Consapevolezza. In inglese il senso della parola “soggetto”, cioè lo “stare-sotto” è detto attraverso la parola “under-stand” che significa comprendere, capire, intendere (dove “under” significa “sotto” e “stand” significa “stare”).  Ciò che chiamiamo “me” o “io” è l’apparire transeunte del “soggetto” che è l’Io-Sono.  Nella nostra ignoranza, sogniamo un sé che vorrebbe perpetuarsi in quanto “ego” ed eternalizzarsi come “ego”. Non ci si rende conto, invece, che questo è qualcosa di per sé contraddittorio. L’egoità è una forma transeunte che tale appare alla mente individuale. Come tale – cioè in quanto “transeunte” – la forma finita non può apparire allo stesso tempo non-transeunte, eterna. Ciò che permane dopo la morte o nel morire non è l’apparire transeunte della forma finita (genitivo soggettivo) ma l’eterno apparire di questa forma finita (genitivo oggettivo). E dove e a chi appare il finito? In Dio e a Dio. Risorgendo, siamo visti da Dio e siamo in Dio ovvero sappiamo chi siamo e conosciamo la nostra sostanza.

Diverse tradizioni sapienziali invitano a imparare a “morire prima di morire”.  Prendiamo come esempio il numero “10”. Con tale numero indichiamo “Dio”. Ogni finitezza è manifestazione particolare dell’infinito, così come il 5×2 è manifestazione singolare del 10. Nella condizione da risorti e quindi “in Dio”, la manifestazione “individuale” con cui siamo apparsi nello spaziotempo non permane in questa sua forma singolare e particolare, per cui io “non-sono” tu e viceversa, oppure io “non-sono” Dio, ma permane nella sua forma infinita come “in-divisum”, non separata dall’infinito. Così come nel 10 la moltiplicazione (5×2) non permane in quanto moltiplicazione ma in quanto manifestazione del 10. Il 10, infatti, è una cosa sola con gli infiniti modi con cui appare. Nelle sue manifestazioni particolari e singolari l’infinito si rispecchia. E queste sono manifestazioni eterne dell’infinito. Ma ciò non significa che l’apparire di questa moltiplicazione (genitivo soggettivo), particolare e singolare, sia l’apparire eterno dell’infinito stesso.

Ne segue, quindi, che non permane l’apparire transeunte della finitezza.  Questo apparire transeunte di ciò che siamo (il corpo mortale) è ciò che muore. Ciò che vive è la consapevolezza, la vita, ciò che siamo.  Dice San Paolo parlando della risurrezione dei morti: “si semina corruttibile e risorge incorruttibile” (1Cor 15,43). “I morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario, infatti, che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (1Cor 15, 52-53).

A margine di tale considerazione si può aggiungere dicendo che l’apparire (eterno) del finito (genitivo oggettivo) e l’apparire (transeunte) del finito (genitivo soggettivo) non si identificano. Il secondo, infatti, indica l’appropriazione dell’apparire sotto forma di egoità, cioè propria. Il primo, invece, indica il rispecchiarsi/esprimersi di Dio nella sua immagine. Per questo San Paolo associa il destino del corpo mortale a quello della carne (cf. peccato) “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio; né i corpi che si decompongono possono ereditare l’incorruttibilità” (1Cor 15,50). Il testo dell’Apocalisse di San Giovanni parla della “morte seconda” (20,14). Direi che la morte “seconda” è costituito da tutto ciò che non può risorgere, perché è “separato”, senza connessione, etimologicamente “ab(s)-tractum”, tolto-via e buttato-via. È il peccato, il male, la tendenza centripeta e divoratrice di tutto. Questo non risorge per definizione. Ma ogni singolo granellino di bene seminato nella terra giungerà a maturazione.

Physicalism and belief

What is meant by scientific “physicalism”? We mean the scientific conception that “posits” an external world by defining it as “material” as the source and origin of experience. Matter, in this sense, is at the origin of the spirit. Spirit evolves from matter. More precisely, the brain is the ultimate explanation for the emergence of awareness. This is the premise of scientific physicalism (also called “materialism”). From brain to mind

What does physicalism imply? Physicalism implies that scientific experience has a material origin. Matter, the external material world, “causes” the experience, which is instead a “mental” reality, that is, “non-material”. What experience is it? It is the experience of “measuring” or “observing” external material reality. What the scientist knows about the so-called “external” world are his “measurements”, and “observations”. Both measurements and observations are experiences, that is, mental phenomena. This reality (i.e., experience) is non-material, and it is this that is at the origin of scientific measurement and observation. This means that awareness—an indispensable condition for there to be experience—is the epistemological (that is, cognitive) primum of scientific knowledge.

“That” there is a material external world is a subsequent inference and a presupposition of scientific knowledge. This inference is “undue”, that is, it is “presumed”, “believed” and not by virtue of “what” I observe and measure, since what I observe and measure are not “things” but “experiences” of observation and measurement. These experiences are “events” dependent on observation or measurement, i.e., they “happen” in experience. It follows, therefore, that the “external world” and “material world” are occurrences, events, and phenomena of consciousness. “Beyond” these happenings — or phenomena; “phainomenon” in Greek means “what appears” — there is “nothing”. In other words, there is nothing but awareness. It is in awareness that events (of measurement or observation) take place. The material world is, therefore, a measurement event.

What I predict about this (material) world are not “ontological” properties of the world but epistemological aspects of measurement. What I preach about matter, therefore, are the properties of awareness. Instead of properties,” we can speak of “modulations” or “radiations” of consciousness. It should be specified that it is not a question of “my” consciousness or of the individual and particular consciousness of the observer (from which the observer inevitably must always ignore, i.e., detach from “his” individual awareness), but of the cosmic consciousness, which is, so to speak, “external” to “my” or “your” awareness. Cosmic awareness can be said to be “objective” and “independent” of the “mine” and “thine” character of individual consciousness. In this sense, cosmic consciousness is absolute, in the etymological sense of the term “released from” ab-solutum, from mental individualization. Scientific taxation, therefore, is that undue conception that “believes” in an external material world from which the mind and spirit derive, considered “epiphenomena” or “emergencies” of matter. 

Between material reality (the brain) and non-material reality (the mind), there is pure continuity. There is no ontological leap from matter to spirit, therefore, from the brain to the mind. Natura non facit saltus (Leibniz) The “novelty” of the mind and spirit is organization (more complexity and more unification), not “ontological”. Physicalism is reductionist since it “reduces” the origin of complexity (and therefore of “novelty”) to the material elements that compose it. We will see that reductionism should not be rejected as a cognitive methodology; indeed, theoretically, it is essential. Reality is explained by bringing the multiples back to unity, not vice versa. 

After analyzing scientific physicalism, let’s move on to “religious consciousness”. Religious consciousness emerges as the experience of an “external” God who created the world and therefore also created me as a creature. Religious consciousness implies the belief that God created the world (and therefore also me). God “causes” matter, the external material world, since he created the world. To create the world is to believe that a God has placed a reality outside of and beyond Himself. God “causes” the existence of the world and therefore places my existence “outside” Godself.

But who is that I that I Am? By I, “I” mean the phenomenon of my subjectivity as it appears as the content of Pure Awareness. By “I Am,” I mean pure awareness. Even for religious consciousness, as it is for scientific experience, everything that is outside of experience is “believed” to exist. There is no difference between believing that there is an external material world and believing that a god exists. Both are believed to be “outside” awareness and known to be contents of experience. The difference between the two contents is that God is understood as that “entity without which nothing is or exists”. But if by “awareness” is meant “that without which nothing exists”, not even the experience of believing, it means that awareness is that “entity without which nothing is and exists”. In fact, believing is a way of observing the world that presupposes awareness. The religious consciousness of believing therefore implies awareness of the I Am.

Awareness—a necessary condition for there to be experience—is the epistemological (that is, cognitive) primum. “That” an external God exists, outside of “my” believing experience, is a subsequent inference, posited as a presupposition of believing. This inference is “believed”, that is, presumed,” not by virtue of “what” I immediately experience as “that without which nothing is”: the pure awareness of the I Am.

While religious consciousness is something created and separated from God, pure awareness is an appearance, a phenomenon, or an event within God. Theophany. In other words, if there is nothing but pure awareness, the identity of being and awareness, if there is nothing but God, it is in divine awareness that divine appearance is given, and this “appearance” is understood from the perspective of religious consciousness as “creation”. For the religious consciousness of believing,” it is “my” consciousness or the individual consciousness of believing. From the point of view of belief, cosmic consciousness, i.e., the mind of God, is experienced and experienced as “outside” of “my” awareness, while from the point of view of cosmic awareness (improperly said since it is not a point of view seen but is simply seeing), the mind of God is the deepest identity of “my” awareness: not as “my” individual awareness (individual property), but as the identity of awareness and being that constitutes me in the deepest depths.

In this sense, awareness constitutes the “objective” and “independent” nature of my mind. In this sense, cosmic consciousness is absolute, in the etymological sense of the term “loosened from” ab-solutum, from mental individualization. Belief in a personal and transcendent God on whom to “depend” as a creature does nothing but “separate” oneself from the self (I am), projecting “outside” of oneself that reality with which we are originally identified in the identity of awareness and being.

Fisicalismo e coscienza religiosa

         Cosa si intende con “fisicalismo” scientifico? Si intende quella concezione scientifica che “pone” un mondo esterno definendolo “materiale” fonte e origine dell’esperienza. La materia, in tal senso, è all’origine dello spirito. Dalla materia evolve lo spirito. In termini più precisi, il cervello è la spiegazione ultima del sorgere della consapevolezza. Questo è il presupposto del fisicalismo (detto anche “materialismo”) scientifico. Dal cervello alla mente.

         Cosa implica il fisicalismo? Il fisicalismo implica che l’esperienza scientifica abbia un’origine materiale. La materia, il mondo esterno materiale, “causa” l’esperienza che è invece una realtà “mentale”, cioè “non-materiale”.  Di che esperienza si tratta? Si tratta dell’esperienza di “misurazione” o “osservazione” della realtà materiale esterna. Ciò che lo scienziato conosce del mondo cosiddetto “esterno” sono le sue “misurazioni”, le sue “osservazioni”. Entrambe, misurazioni e osservazioni, sono esperienze cioè fenomeni mentali. Tale realtà (cioè l’esperienza) è non materiale ed è questa che è all’origine della misurazione/osservazione scientifica. Ciò significa che la consapevolezza – condizione indispensabile perché ci sia esperienza – è il primum epistemologico (cioè, conoscitivo) della conoscenza scientifica.

         “Che” un mondo esterno materiale ci sia, è un’inferenza successiva e posta a presupposto della conoscenza scientifica. Tale inferenza è “indebita”, cioè è “presunta”, “creduta”, non in virtù di “ciò” che osservo – in quanto ciò che osservo e misuro non sono “cose” ma “esperienze” di osservazione e misurazione. Queste esperienze sono degli “eventi” dipendenti dall’osservazione/misurazione, cioè “accadono” nell’esperienza. Ne segue, pertanto, che “mondo esterno”, “mondo materiale” sono accadimenti, eventi e fenomeni coscienziali. “Oltre” a questi accadimenti – o fenomeni, e “phainomenon” in greco significa “ciò-che-appare” – non c’è “nulla”. Detto in altre parole, non c’è nient’altro che consapevolezza. È nella consapevolezza che si danno eventi (di misurazione/osservazione). Il mondo materiale è quindi un evento di misurazione.

         Ciò che predico di questo mondo (materiale) non sono proprietà “ontologiche” del mondo, ma aspetti epistemologici della misurazione. Ciò che predico della materia, quindi, sono proprietà della consapevolezza. Invece di “proprietà” possiamo parlare di “modulazioni” o “irradiazioni” di coscienza. Va precisato che non si tratta della “mia” coscienza o della coscienza individuale e particolare dell’osservatore (da cui l’osservatore inevitabilmente lo scienziato deve sempre prescindere, cioè distaccarsi dalla “sua” consapevolezza individuale), ma della coscienza cosmica che in quanto tale è per così dire “esterna” alla “mia” o “tua” consapevolezza. Si può dire che la consapevolezza cosmica è “oggettiva” e “indipendente” dal carattere di “mio” e “tuo” della coscienza individuale. In questo senso la coscienza cosmica è assoluta, nel senso etimologico del termine “sciolto-da” ab-solutum, dalla individualizzazione mentale. Il fiscalismo scientifico, quindi, è quella concezione indebita che “crede” in un mondo esterno materiale dal quale deriverebbe la mente e lo spirito, considerati questi come “epifenomeni” ovvero “emergenze” della materia. 

         Tra realtà materiale (cervello) e realtà non-materiale (mente) c’è pura continuità. Non c’è alcun salto ontologico dalla materia allo spirito, quindi dal cervello alla mente. Natura non facit saltus (Leibniz). La “novità” della mente/spirito è di organizzazione (più complessità e più unificazione) ma non “ontologica”. Il fisicalismo è riduzionista poiché “riduce” l’origine della complessità (e quindi della “novità”) agli elementi materiali che la compongono. Vedremo che il riduzionismo non va rifiutato come metodologia conoscitiva, anzi teoreticamente è essenziale. La realtà si spiega riconducendo il molteplice all’unità e non viceversa.

         Dopo aver analizzato il fisicalismo scientifico, passiamo alla “coscienza religiosa”. La coscienza religiosa si delinea come esperienza di un Dio “esterno” che ha creato il mondo e dunque ha creato anche me in quanto creatura. La coscienza religiosa implica la credenza che Dio abbia creato il mondo (e dunque anche me). Dio “causa” la materia, il mondo esterno materiale, poiché ha creato il mondo. Creare il mondo significa credere che un Dio abbia posto una realtà fuori e oltre Sé. Dio “causa” l’esistenza del mondo e quindi pone la mia esistenza “fuori” di Sé.

         Ma chi è quell’io che Io Sono? Con “io” intendo il fenomeno della mia soggettività così come appare in quanto contenuto della Pura Consapevolezza. Con “Io Sono” intendo questa Pura Consapevolezza”.  Anche per la coscienza religiosa – così come è per l’esperienza scientifica – tutto ciò che è fuori dell’esperienza è “creduto” che ci sia ed esista. Non c’è alcuna differenza tra il credere che ci sia un mondo esterno materiale e un dio. Entrambi sono creduti “fuori” della consapevolezza ma saputi come contenuti di esperienza. La differenza tra i due contenuti è che Dio è inteso come quell’ “ente senza del quale nulla è” ovvero il contenuto di questo ente che è Dio è di una realtà senza la quale nulla è ed esiste. Ma se la consapevolezza è “ciò senza di cui nulla si si dà” nemmeno l’esperienza del credere, vuol dire che la consapevolezza è quell’ “ente senza del quale nulla è”. Il credere, infatti, è una modalità di osservare il mondo che presuppone la consapevolezza. La coscienza religiosa del credere, pertanto, implica la consapevolezza dell’Io Sono ovvero il credere presuppone Dio che è Pura Consapevolezza.

         La consapevolezza – condizione indispensabile perché ci sia esperienza – è il primum epistemologico (cioè, conoscitivo) del credere. “Che” un dio esterno e fuori della “mia” esperienza di credere esista, è un’inferenza successiva e posta a presupposto del credere. Tale inferenza è “indebita”, cioè è “presunta”, non in virtù di “ciò” che immediatamente esperimento come “ciò-senza-del-quale-nulla-è” ovvero la Pura Consapevolezza dell’Io Sono, ma “creduta”.  Nel credere, dunque, si scinde l’identità di Essere e Consapevolezza che è Dio.

         Ciò che per la coscienza religiosa è qualcosa di creato e separato da Dio, per la pura consapevolezza è apparenza, fenomeno, accadimento di Dio. Teofania. Detto in altre parole, se non c’è nient’altro che Pura Consapevolezza, identità di Essere e Consapevolezza, se non c’è nient’altro che Dio, è nella consapevolezza divina che si dà apparenza divina e questa “apparizione” è compresa dalla coscienza religiosa come “creazione”. Per la coscienza religiosa del “credere” si tratta della “mia” coscienza o della coscienza individuale del credere. Dal punto di vista del credere, la Coscienza cosmica, ovvero la mente di Dio, viene esperimentata e vissuta come “fuori” della “mia” consapevolezza, mentre dal punto di vista della consapevolezza cosmica (detto in maniera improprio poiché non è un punto di vista ma è semplicemente vedere), la Mente di Dio è l’identità più profonda della “mia” consapevolezza: non in quanto “mia” individuale consapevolezza (proprietà individuale) ma in quanto identità di Consapevolezza ed Essere che mi costituisce nel più profondo.

         In tal senso la consapevolezza costituisce la natura “oggettiva” e “indipendente” della mia mente. In questo senso la coscienza cosmica è assoluta, nel senso etimologico del termine “sciolto-da” ab-solutum, dalla individualizzazione mentale. Il credere in un Dio personale e trascendente dal quale “dipendere” come creatura non fa che “separare” se stessi dal Sé (Io Sono), proiettando “fuori” di sé quella realtà con cui siamo originariamente in identità di Consapevolezza ed Essere.

Salvezza e miti affini

La dottrina cristiana della salvezza e la dottrina del peccato originale si richiamano a vicenda. Per questo si parla di “salvezza dal peccato”.

Questa connessione spiega la difficoltà che la teologia trova nel considerare come mito ciò che è relativo al cosiddetto “peccato originale” o “caduta dei progenitori”. Se questo viene messo in discussione, si vanifica anche la dottrina della salvezza. Vale a dire, l’intera costruzione teologica attorno alla salvezza mediante la croce e la stessa figura di Gesù come “Salvatore”.

Ma come si può sostenere oggi, in modo letterale, la realtà del peccato originale così come narrato nel racconto biblico? Anche la teologia riconosce che Adamo (= “fatto di terra”) ed Eva (= “vitalità, madre dei viventi”) non sono state figure storiche, ma rappresentano semplicemente l’umanità.  

Sia il “peccato originale” che la “salvezza” sono miti, cioè racconti che hanno una verità ma che va compresa simbolicamente. Qual è il suo significato?

Il peccato originale afferma che l’umanità vive nell’ignoranza della sua vera identità. L’ignoranza che nasce con la nostra specie – in particolare, con l’emergere della mente che separa – e che riduce la nostra identità al “proprio io”, chiudendoci in una consapevolezza di separazione e, di conseguenza, solitudine, ansia, paura e colpa.

Se il peccato originale afferma l’ignoranza, la salvezza afferma invece la comprensione di ciò che siamo: la nostra vera identità è già salvata, lo è sempre stata. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è rendercene conto, capirlo.

Non si tratta di auto-salvezza. Non si tratta di garantire e salvare la sopravvivenza dell’io (ego) come propongono le religioni. L’ego non è l’originario, ma è il risultato della identificazione dell’incognita che noi siamo con le cose (percezioni, emozioni e pensieri). Infatti, noi ci riconosciamo nelle cose che sentiamo, percepiamo e pensiamo, e in base a tutto questo ci costruiamo come “io”. Ma la salvezza non avviene nel puntellare questa costruzione. La salvezza consiste nel distaccarci da tutto questo, riconoscendo che la verità dell’incognita che noi siamo sta nell’abbandonarci al Sé. Questo “Sé” costituisce la nostra vera identità. “Allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto” (1Cor 13,12).

È la comprensione di questo, non un “sacrificio espiatorio”, che ci salva. Gesù ci salva? Sì, nel senso che illumina il nostro cammino di comprensione, come tanti altri saggi della storia umana che ci mostrano come vivere correttamente o con saggezza. Gesù è come l’interruttore. Non è l’interruttore che genera e causa la Luce. Gesù ha reso solo presente la Luce (cioè Dio, deus/dies), vivendo in estrema fedeltà e perfetto abbandono l’identificazione con il Fondo di se stesso (“Abba”, Padre), amando fino alla fine gli altri.

Contento è Dio

“Lazzaro è morto e io sono contento” (Gv 11,15). In queste parole di Gesù riportate dal Vangelo di Giovanni è racchiusa tutta la teologia: cristologia, teodicea, escatologia e dottrina trinitaria. Sì, propria tutta. Perché?

L’amico di Lazzaro è morto, e Gesù è contento. È racchiuso qui tutto ciò che si è detto a proposito dell’onniscienza e onnipotenza di Dio. Come può un Dio permettere il male? Qui abbiamo il volto “umano” di Dio, il “buon Gesù” (come si dice devotamente), che dice: è bene che sia morto, sono contento che sia così. È Gesù che dice questo. Il Dio “evangelico”: quello buono, non quello cattivo. Ciò ci costringe a dire che anche Gesù è dalla parte di chi afferma che “tutto” concorre al bene, anche il male. Sia quello fisico che quello morale. Sia quello “naturale” (sofferenza, ignoranza e morte) che quello “voluto” dall’uomo (il peccato!). Tutto concorre al bene. E la bontà, assieme alla conoscenza, è beatitudine. Sat-cit-ananda. Realtà-Consapevolezza-Beatitudine.

Gesù è contento della morte di Lazzaro poiché questa morte, questa perdita, manifesta la gloria di Dio. “Gesù disse: ‘Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio’” (Gv 11,4).  Anche il male è nella gloria di Dio. Perché? Il male manifesta la gloria ( = pienezza e splendore dell’Infinito) poiché Deus semper maior. Dio è sempre il maggiore. Dio è infinito, eccedenza, s-misurato. C’è più Dio (e quindi Bene) quando Dio non solo contiene il bene ma anche ogni bene, cioè anche il bene “redento”, cioè quel bene che il male nega e Dio redime, salva, e trasforma. C’è “più” bene nel male vinto che semplicemente nel bene. Per questo il “buon” Gesù è contento. La gloria di Dio non conosce limiti, è smisurata!

Se trasferiamo questo discorso sul piano ontologico e teologico, possiamo e dobbiamo dire che c’è molto più Dio nell’infinito che contiene il finito (cioè, infinito concreto reale) che nell’infinito “astratto”, separato (ab-straho) dal finito. La gloria di Dio, che è l’Infinito, non è “astratta”, pura idea vuota, ma è “concreta”, “attualizzata”, “reale”. Il Dio infinito è “contento”, poiché “contiene” ogni finito non come “separato” ma “in se stesso”. È interessante che la parola “contento” deriva etimologicamente dal verbo latino “continere” che significa “tenere in sé”, contenersi, essere soddisfatti di ciò che si ha. Dio “tiene in sé” la totalità dei finiti, che è la manifestazione della gloria di Dio.

Ma allora anche il male manifesta Dio? “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11,4-5). Il Male non è per il male, ma per la gloria del Bene. Tutto ciò che “è” e “accade”, manifesta Dio e lo manifesta non tanto nel “non” bene  – che, in quanto “non”, non-è –  ma nella “potenza” (dynamis) e “possibilità” di bene, che, anche nel “non-bene”, è presente. “Gesù disse a Marta: ‘Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?’” (Gv 11,40). La fede  – infatti –  è vedere tutto ciò che “è” e “accade” con gli stessi occhi di Dio, e Dio vede le cose/eventi come potenza-di-bene. “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio” (Rom 8,28).

Vedere la realtà tutta – nella sua determinatezza e finitezza – come “gloria” di Dio significa che la realtà (la totalità degli enti creati) è riflesso di Dio, del “figlio di Dio” che viene glorificato.  Noi siamo – e tutto il creato è – una cosa sola nell’unico “Figlio di Dio” che è l’espressione, l’immagine di Dio. “Chi vede me (= Gesù), vede il Padre” (Gv 12,45). Ma chi vede ogni uomo, vede Gesù (Mt 25, 31-46).  

Trasfigurazione della libertà

“Chi ha esperienza lo capirà, e vedrà che sono riuscita a dire qualcosa; Chi non ce l’ha, non mi stupirei se sembrasse una totale assurdità”

Teresa di Gesù, Il Libro della Vita 26,6.

Le cose non sono come sembrano, la scienza moderna – fisica quantistica e neuroscienze – ce lo ricorda ad ogni istante. E questo vale anche per noi: non siamo ciò che sembriamo.

Sembriamo essere -la nostra mente lo vede così- un sé particolare che ha coscienza, autonomia, libero arbitrio… E tendiamo ad essere così identificati con quel modo di vedere noi stessi che, in generale, è estremamente difficile aprirsi fino ad un altro modo.

È uno stato di ipnosi. La persona ipnotizzata non può vedere oltre ciò che lo stato stesso consente. Identifica il suo mondo ipnotico con la verità e descriverebbe le parole di qualcuno che gli parlasse di un’altra realtà, al di là di quella che percepisce entro i suoi stretti limiti, come “sciocchezze” – per usare l’espressione di Teresa de Jesús – o allucinazione.

L’allegoria della caverna di Platone viene ripetuta più e più volte. Come quei personaggi, chiusi nel buio di una mente chiusa in se stessa, non ci rendiamo conto di vedere solo “ombre” ed etichettiamo come “follia” ogni altra realtà che trascenda i limiti mentali.

Le “ombre” sono tutti oggetti che possiamo percepire. E l’oggetto è anche il sé, poiché possiamo osservarlo. La domanda che può interrogare la nostra ipnosi è questa: Cos’è Quello che è consapevole degli oggetti e del sé? Perché solo Quello sarà l’unico soggetto, l’unica cosa veramente reale, l’unica cosa che non sia solo un’ombra passeggera.

Ciò che è cosciente -la prima realtà- è consapevolezza (vita, totalità…). E posso scoprirlo da solo grazie silenziando la mente.

E quello che vengo a scoprire è che, propriamente parlando e senza negare il livello di “personalità”, non sono una persona che ha consapevolezza, ma consapevolezza “rivestita” con una “maschera” cioè una “persona”.

Oltre la persona (ego) c’è la consapevolezza che è la Mente di Dio o Cosmica che si esprime nella finitezza delle sue manifestazioni. Quando comprendo questa manifestazione o apparenza della consapevolezza dal punto di vista della finitezza, cioè la mia mente, questa manifestazione diventa la mia persona o impersonificazione della Consapevolezza Assoluta. La nostra persona è la rappresentazione mentale della Pura Consapevolezza che si esprime nei suoi molteplici modi. In noi ri-suona (per-sona) la voce o suono di Dio o Assoluto. Noi siamo questo “ri-” cioè “ri-ad-presentatio” della realtà Originaria

Ma allora la nostra libertà è un’illusione? È un’illusione il mondo che ti si presenta nel sogno? Fintanto che sei nel sogno è vero; nel momento che ti svegli riconosci che quel mondo è un’illusione. Il libero arbitrio, la libertà di scelta, è libertà imperfetta! Poiché crediamo di poter scegliere il bene e il male, ma se il male è mancanza di bene, la capacità di scegliere il bene e il male diventa capacità di scegliere il bene e il meno-bene o non-bene. Ma il “non” bene – se scelto – è scelto per il bene e non per il nulla (il “non” – del bene).

Il libero arbitrio è una illusione. Se scegliamo, scegliamo comunque sempre e solo il bene! C’è solo la libertà determinata al bene – non “in-“determinata – … ma questa libertà determinata “al” bene è resa possibile “dal” bene, ovvero, è libertà determinata dal bene. Il bene “mi” determina a sceglier”lo”. La fede cristiana parla di “grazia” cioè che la GRAZIA (= BENE) determina la mia libertà.

Dunque, è una illusione considerare la libertà come libertà di scelta tra il bene e il male. Se così fosse, di Dio non si potrebbe dire che è “libero”. Essendo perfetto non sceglie l’imperfetto bene ma solo ed esclusivamente il Bene. Poiché Dio è il Bene, Dio sceglie solo ed esclusivamente se stesso. Ma la perfezione di Dio si dà in infiniti modi perché il Bene è per sua natura DIFFUSIVO e COMUNICAZIONE di SÈ.

Dio sceglie se stesso (= BENE) e tutti i modi con cui si manifesta. Le manifestazioni del BENE sono dette “imperfette” quando la mente paragona Dio con le sue molteplici manifestazioni, confronta il Bene “perfetto o compiuto” con le manifestazioni infinite del Bene. Ma ogni singola manifestazione del Bene è detta “impropriamente” imperfetta. E ciò accade quando “ASTRAIAMO” ovvero “SEPARIAMO” questa o quella manifestazione dal BENE che è DIO, confrontando questa manifestazione con quell’altra oppure con il BENE stesso. Ma dal punto di vista del BENE cioè di Dio (sub specie dei) ogni singola manifestazione di Bene è “perfetta” e “unica” nel senso che è “relazione-al-Bene”, raggio dello Splendore del Bene.

Ciascuno di noi, ogni creatura, è una TEOFANIA eterna, perfetta, gloriosa e splendente. Il lavoro spirituale consiste semplicemente (!) nell’adeguare la mente con la visione, passando così dall’illusione alla verità.

Libertà di scelta e Spontaneità


È libero Dio di fare qualunque cosa? No. Perché? Perché Dio non può scegliere tra bene e male, tra vero e falso, tra giusto e ingiusto. La libertà non è poter “scegliere”. Poter scegliere è non essere ancora sicuri, è ignoranza. Se una mamma prende per mano il bambino per traversare una strada piena di traffico, gli sta togliendo “la libertà” o gliela sta dando? A prima vista può sembrare che gliela toglie, ma è evidente che gliela sta trasmettendo, la sta condividendo con lui; il piccolo sarebbe schiavo della sua incapacità e dalla sua ignoranza dei pericoli.

Occorre distinguere il comune concetto di libertà e il suo vero concetto, cioè: che cosa è la libertà secondo Dio. Di solito si considera che libertà sia poter fare qualunque cosa vogliamo: in questo concetto appare protagonista il proprio volere umano. E questo è già l’errore. Invece il vero concetto di libertà si trova in Dio. Ma per averne un’idea chiara occorre domandare: È libero Dio di fare ciò che vuole? Può fare ciò che vuole? Sì, non vi è dubbio!

Pertanto, il contrario di “libertà” non è propriamente “servitù” o “schiavitù” in senso materiale, ma è “ignoranza” di che cosa sia quella vera, buona o giusta. Una volta che so, che sono in possesso della verità rispetto ad una cosa, non scelgo, ma vado dritto, senza alcun dubbio decido. Così fa Dio. «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Ma quei Giudei equivocarono il concetto di libertà –come tanti di noi adesso– in senso materiale, dicendo: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno –in che non era vero–. Come puoi Tu dire: diventerete liberi?» (v. 33) In questo modo si considera che libertà sia “fare ognuno ciò che vuole”. Ma Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (vv. 34-36).

Perciò, anche per noi, libertà non è poter “fare qualunque cosa”. Libertà è aderire alla Volontà di Dio che coincide con il suo Essere. L’essere “di Dio” è SUO e di tutte le cose. La libertà “radicale” è vivere secondo natura, secondo la natura divina. Schiavitù è svincolarsi da essa per fare la “propria” volontà: il peccato. Chi è “in Dio” non pensa più, non agisce più, non fa più la “propria” volontà ma è UNO-CON ( = UNICUM) Dio. Dice il Signore: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a Lui» (Deuteronomio 30,19-20). Non ha detto “puoi scegliere qualunque cosa”. Libertà coincide con Verità, e la Verità è l’essere-uno-in/con-Dio.

Poiché la dualità è ciò che specifica la condizione della finitezza … la libertà della finitezza è la libertà di scelta o libero arbitrio. Scelgo questo o quello. Ma la libertà “divina” dell’infinito non è libertà di scelta ma libertà-da-costrizioni . Pura libertà per il bene. Spontaneità. Dio non ha la libertà di scelta del bene o del male, di scegliere questi o quello! Dio non sceglie il bene! In questo mi trovo all’opposto rispetto a Pareyson & Company. Dio non ha o non aveva la possibilità di creare o non creare il mondo. Dio è spontaneità originaria per il bene e tale spontaneità è creatività.

Dio non può non creare il mondo non perché costretto ma perché irradia se stesso o esprime se stesso in modi finiti, appunto le creature. La nostra libertà è partecipazione di questa spontaneità divina ma nella condizione o stato della finitezza si dà la libertà originaria come libertà di scelta (o questo o quello). Quando la nostra finitezza si dà nella condizione dell’infinità divina ovvero trasformati nell’infinito di cui siamo partecipazione allora non avremo più la libertà di scelta ma questa sarà trasformata anch’essa nella pura ed originaria libertà della spontaneità divina. Dopo la morte – questa è la mia risposta alla tua domanda – NON manteniamo la nostra libertà che sperimentiamo qui, cioè il libero arbitrio, ma  emergerà definitivamente la libertà divina che già sperimentavamo in maniera offuscata o nascosta già qui.

Il Sosia di Dio

Carnevale e Quaresima… cosa hanno in comune? La maschera…. Ovvero giocare la parte di qualcun altro. Fare il sosia di, la controfigura di.

Infatti, mettendoci una maschera impersonifichiamo qualcun altro. Facciamo finta di essere quell’altro.

Se questo vale per il Carnevale, la Quaresima non è altro che un lasciar andare la maschera, togliersi il volto del “falso sé”. Il racconto delle tentazioni ci parlano di un Sosia, di una controfigura: il Diavolo (dia-bolos), il Sosia di Dio. Infatti, qual è il ruolo del serpente in Genesi 3, qual è la strategia di Satana? Privare l’uomo di essere come Dio! È troppo invidioso di questo.

Satana oppone Dio all’uomo, laddove invece Dio è con l’uomo, è l’uomo come Dio. Essere-come-Dio è la realtà divina; essere-separati-da-Dio è la realtà anti-divina.

Il Sosia di Dio ci vuol far credere che tra Dio e l’uomo ci sia un abisso di trascendenza, c’è una separazione, una radicale lontananza.

Questo Sosia è l’Anti-Cristo, cioè il Satana, l’Ombra di Dio! La Maschera di Dio. L’alter-ego di Dio. Religiosamente… mascherata.

Il Cristo, invece, è il “volto” di Dio, la vera immagine di Colui-che-è-con-noi e noi-come-Dio! Eritis sicut dei! Sì, siamo “Dio”! Non è diabolico dirlo e crederlo! Anzi, è l’opposto – non esserlo – satanico e diabolico…

I racconti evangelici delle tentazioni ci narrano proprio questo. Il Diavolo tenta Gesù nell’originaria fiducia che c’è tra Dio e uomo, facendogli credere che deve “provare” e mettere a verifica tale fiducia e dimostrare la realtà di fatto che l’uomo è Figlio-di-Dio.

L’uomo Gesù non crede che Dio e uomo siano in opposizione e in contrasto, e che deve “guadagnarsi” il titolo di Figlio o di Cristo! Lo è già e lo è in modo beato, semplice, direi innocente.

Anche noi… non lasciamoci ingannare da chi ci dice: sei peccatore! Sei dannato! Dio è lassù e tu quaggiù. Non crederti Dio! Il Dio in cui crediamo di essere e un Dio-con-noi e come-noi. Una cosa sola, né uno “da solo”, né due separati. Ma non-due… ovvero. Unici… “uni-cum”.

Amore radicale

6ª domenica – anno A

Matteo scrive il suo Vangelo a una comunità proveniente dal giudaismo. L’evangelista si vede costretto a bilanciarsi tra la continuità con l’ebraismo e la rottura che comporta il messaggio di Gesù. Le due parole chiave sono: non abolire ma adempiere.

Gesù rispetta tutta la legge ebraica, la Torah, ma, nello stesso tempo, la trascende radicalmente. “Io vi dico, se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.

Adempiere la Legge significa superare la Legge, sovrabbondare, andare continuamente oltre la lettera della Legge, quindi trasgredire la Legge, per raggiungere il nucleo della Legge, la radice, il centro e l’essenza della Legge.

L’interpretazione radicale che Gesù dà ai comandamenti di Dio non lo rende un fondamentalista religioso, un letteralista della Torah e ancor più un moralista ossessivo!

A volte, la nostra mente associa la “radicalità” al rigore, al volontarismo, al perfezionismo, alla mortificazione… È probabile che lo stesso Matteo sia caduto in questa stessa trappola quando parla di “strapparsi un occhio” o “tagliarsi una mano”. Il Gesù di Matteo era una specie di talebano del I secolo d.C.?

La parola “radicalità” fa riferimento a “radice”. Con ciò, l’enfasi si sposta da “cosa faccio”, quale azione radicale devo fare, a “da dove”, “da cosa” agisco. Perché è proprio il tipo di origine o principio, a partire dal quale agisco come persona religiosa, che definisce la mia radicalità religiosa. È una radicalità che allude a una radice, a una profondità di Vita: una sorgente di Fiducia.

L’apostolo Paolo definisce così questo grembo sottostante e avvolgente dal quale entriamo in contatto con la vita e nasciamo: “Parliamo della sapienza di Dio, misteriosa, nascosta, predeterminata prima di tutti i secoli per la nostra gloria”.

Questa stessa Divina Sapienza è il fondamento della Legge, il seno dal quale siamo generati come figli e figlie di Dio. “Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra; hai rivelato ai piccoli i misteri del regno».

La radicalità non consiste, quindi, nel cambiare il “contenuto” della norma – il cosa – e aggiungere un sovrappiù di tanti altri comandamenti. Radicalità significa vivere e dimorare in quel “luogo”, in quel “grembo”, in quel “seno”, – il dove – in cui si trova la nostra vera identità.

Matteo ha un altro nome per questo luogo dove siamo nati. Matteo lo chiama il “segreto” in cui il Dio invisibile “vede”. È un luogo dove gli occhi di Dio sono spalancati, come ci dice la prima lettura del libro del Siracide: “Grande è la sapienza del Signore; è potente e tutto vede. Gli occhi di Dio sono su quelli che lo temono; comprende ogni azione dell’uomo.

Nel capitolo 6, Matteo parla di preghiera-digiuno-elemosina. “Ma quando preghi/digiuni/fai l’elemosina, entra nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è invisibile. Allora il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. (Mt 6:6) Siamo visti dal Dio invisibile, e quella vista divina ci genera come figli di Dio.

“Gesù rispose: ‘Non è scritto nella vostra Legge: ‘Ho detto che siete dei’?” La Legge – dice Gesù – chiama dèi coloro “ai quali è stata rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere infranta”. (Gv 10:34-35)

Questa è la “radicalità” di cui parla Gesù. È questa la “radicalità” di cui parla l’apostolo Paolo, additando lo Spirito che “scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio”. In questa profondità di radicalità, nasciamo come figli e figlie di Dio.

Quando l’occhio vede “ciò che occhio non ha visto” e l’orecchio ode, “ciò che orecchio non ha udito” e il cuore sperimenta ciò che non è entrato mai nel cuore dell’uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano e che Dio ci ha rivelato attraverso lo Spirito, allora si dà compimento della Legge.

Gesù è stato la primizia di questo compimento, realizzando così ciò che il profeta Geremia (31,33) promette:
“Questa è l’alleanza che stipulerò con il popolo d’Israele. Metterò la mia legge nella loro mente e la scriverò nei loro cuori. Io sarò il loro Dio e loro saranno il mio popolo”.

Perciò, dice il Vangelo di Giovanni riguardo a Gesù: “Tu, che sei uomo, ti fai Dio” (Gv 10,33). E Gesù risponde: “Perché mi accusi di bestemmia quando ho detto: ‘Sono Figlio di Dio’?”. (Gv 10:36).

La radicalità che Gesù sta indicando è l’eco di quell’eccesso di amore e gioia di cui fa esperienza e che scaturiscono da quella fonte che Gesù chiama “Abba – Padre”.

È l’esperienza dello Spirito che ci spinge continuamente oltre la lettera della Legge, per raggiungere il nucleo della Legge, la radicalità di quell’Amore in cui siamo generati continuamente.

“Questo è il suo comandamento, che ci amiamo gli uni gli altri”. (1Gv 3:23). “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri; perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio». (1Giovanni 4:7)

Radical & Divine

6th Sunday – Year A

Matthew writes his Gospel to a community of Jewish origin. The evangelist is forced to balance between the continuity with Judaism and the break that Jesus’ message entails. The two keywords are: not abolish but fulfill.

Jesus complies with all Jewish law, with the Torah, but, at the same time, radically transcends it. “I tell you, unless your righteousness surpasses that of the scribes and Pharisees, you will not enter the kingdom of heaven.”

Fulfilling the Law means to exceed the Law, superabound, continuously moving beyond the letter of the Law, therefore transgressing the Law, in order to reach out the core of the Law, the root, the center, and the essence of the Law.

Jesus’ radical interpretation of God’s commandments does not make him a religious fundamentalist, a literalist of the Torah and even more an obsessive moralist!

Sometimes, our mind associates “radicality” with demand, voluntarism, perfectionism, mortification… It is probable that Matthew himself fell into this same trap when he talks about “tearing out an eye” or “cutting off a hand.” Was Matthew’s Jesus a kind of Taliban of 1st century AD?   

Radicality refers to the word “root.” With that, the emphasis shifts from “what I do”, what radical action I need to do, to “from where,” “out of what” I do act. Because it is precisely the kind of source, out of which I act out as a religious person, that defines my religious radicality. It is a radicality that hints to a root, a depth of Life: a wellspring of Trust.

The apostle Paul so defines this underlying and encompassing womb out of which we contact life and are born: “We speak of God’s wisdom, mysterious, hidden, predetermined before all ages for our glory.”

This very Divine Wisdom is the foundation of the Law, the bosom out of which we are begotten as sons and daughters of God. “Blessed are you, Father, Lord of heaven and earth; you have revealed to little ones the mysteries of the kingdom.”

Radicality does not consist, therefore, in changing the “content” of the norm—the what— and adding a surplus of many other commandments.” Radicality means to live and abide in that “place,” in that “womb,” in that “bosom,” —the where—in which our true identity is.

Matthew has another name for this place where we are born. Matthew calls it the “secret” where the unseen God “sees.” It is a place where God’s eyes are open wide as the first reading from the book of Sirach is telling us: “Immense is the wisdom of the Lord; he is mighty in power, and all-seeing. The eyes of God are on those who fear him; he understands man’s every deed.”

In his chapter 6, Matthew speaks about prayer-fasting-almsgiving. “But when you pray/fast/give alms, go into your room, close the door and pray to your Father, who is unseen. Then your Father, who sees what is done in secret, will reward you.” (Mt 6:6) We are seen by the unseen God, and that Divine sight generates us as children of God.

“Jesus replied, ‘Is it not written in your Law: ‘I have said you are gods’?” The Law – says Jesus – calls gods those “to whom the word of God came – and the Scripture cannot be broken.” (Joh 10:34-35)

This is the “radicality” Jesus is talking about. This is the “radicality” the apostle Paul is talking about, by pointing to the Spirit who “scrutinizes everything, even the depths of God.”  In this depth of radicality, we are born as sons and daughters of God.

When eye sees “what eye has not seen” and ear hears, “what ear has not heard” and heart experiences that what has not entered the human heart, what God has prepared for those who love him, this God has revealed to us through the Spirit,” then the Law has been fulfilled.

Jesus has been the first fruit of this fulfillment, thus fulfilling what the prophet Jeremiah (31:33) had promised:

“This is the covenant I will make with the people of Israel. I will put my law in their minds and write it on their hearts. I will be their God, and they will be my people.”

Therefore, says the Gospel of John about Jesus: “You, who are a man, declare Yourself to be God” (Joh 10:33). And Jesus answers: “Why do you accuse me of blasphemy because I said, ‘I am God’s Son’?” (Joh 10:36).

The radicality Jesus is pointing to resonates from the excess of love and joy of his experience with the source and he calls it “Abba – Father.”

It’s the experience of the Spirit that continuously moves us beyond the letter of the Law, in order to reach out the core of the Law, the radicality of that Love in which we are born.

“This is His commandment, that we love one another.” (1Joh 3:23). “Beloved, let’s love one another; for love is from God, and everyone who loves has been born of God and knows God.” (1John 4:7)