
Tace la mente davanti alla tomba e al fatto freddo, doloroso e inesorabile della morte. Come ricorda il racconto simbolico del Quarto Vangelo, davanti alla morte e a una tomba, la mente mente della Verità, poiché intende “spiegare” sia la morte che la tomba, ma così facendo viene a “prescindere” e “separare” la morte dalla vita.
L’unico atteggiamento ragionevole – davanti alla morte/tomba – è il silenzio. L’etimologia della parola silenzio ci riporta a un’antica radice indoeuropea: si- = legare, che ritroviamo in alcune parole del sanscrito (ad esempio, si-nâmi = io lego). Solo il silenzio, dunque, ci permette di cogliere il legame tra morte e vita.
La fede cristiana confessa che Gesù è risorto dai morti e che questa è la speranza che attende tutti noi. Tuttavia, il Gesù del Quarto Vangelo proclama la risurrezione al presente: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Il che significa che, già adesso, siamo risurrezione e vita.
La realtà a cui fa riferimento la metafora della resurrezione sfugge alle coordinate spaziotemporali, cioè non è qualcosa che può accadere nel tempo e nello spazio. “Spazio” e “Tempo” sono rappresentazioni mentali, adatte a comprendere ciò che la mente “com-prende”, controlla, organizza e interpreta… dal suo punto di vista.
Ma l’essenza di tutte le cose, di tutto ciò che è compreso tra il nascere e il morire, cioè la finitezza, è la vita, la consapevolezza, la dimensione profonda di ciò che è realmente reale, ciò che permane quando tutto cambia, la pienezza della presenza che sostiene e costituisce il mondo dell’apparire impermanente.
La nostra identità profonda non si identifica con questo transeunte apparire ma con quella pienezza di presenza – “risurrezione e vita”, nelle parole del Vangelo – che trascende lo spazio-tempo, senza inizio e senza fine. Ciò significa che tutto è già risorto nell’eternamente presente. Tutto è già eternamente risorto. Ma ciò appare alla mente individuale – che opera con le categorie spaziotemporali – nella finita sequenza di “nascita-e-morte”, di “inizio-e-fine”. Non solo. Alla mente individuale “appare” la risurrezione e vita dell’Eterno come “individualizzata”, “corporizzata”. Per questo l’ “io” mentale/individuale che si rappresenta attraverso tale interfaccia spaziotemporale si pone a “soggetto” della risurrezione, fino a dire: “Risorgerò”.
La parola “soggetto” rimanda al latino “sub-iectum”, cioè a ciò che è posto sotto (hypo-stasis, in greco: ciò che sta (stasis) sotto (hypó). Ma che cosa è la permanenza, il rimanere di tutte le cose? Non è altro che l’eterna e immutabile Pura Consapevolezza. In inglese il senso della parola “soggetto”, cioè lo “stare-sotto” è detto attraverso la parola “under-stand” che significa comprendere, capire, intendere (dove “under” significa “sotto” e “stand” significa “stare”). Ciò che chiamiamo “me” o “io” è l’apparire transeunte del “soggetto” che è l’Io-Sono. Nella nostra ignoranza, sogniamo un sé che vorrebbe perpetuarsi in quanto “ego” ed eternalizzarsi come “ego”. Non ci si rende conto, invece, che questo è qualcosa di per sé contraddittorio. L’egoità è una forma transeunte che tale appare alla mente individuale. Come tale – cioè in quanto “transeunte” – la forma finita non può apparire allo stesso tempo non-transeunte, eterna. Ciò che permane dopo la morte o nel morire non è l’apparire transeunte della forma finita (genitivo soggettivo) ma l’eterno apparire di questa forma finita (genitivo oggettivo). E dove e a chi appare il finito? In Dio e a Dio. Risorgendo, siamo visti da Dio e siamo in Dio ovvero sappiamo chi siamo e conosciamo la nostra sostanza.
Diverse tradizioni sapienziali invitano a imparare a “morire prima di morire”. Prendiamo come esempio il numero “10”. Con tale numero indichiamo “Dio”. Ogni finitezza è manifestazione particolare dell’infinito, così come il 5×2 è manifestazione singolare del 10. Nella condizione da risorti e quindi “in Dio”, la manifestazione “individuale” con cui siamo apparsi nello spaziotempo non permane in questa sua forma singolare e particolare, per cui io “non-sono” tu e viceversa, oppure io “non-sono” Dio, ma permane nella sua forma infinita come “in-divisum”, non separata dall’infinito. Così come nel 10 la moltiplicazione (5×2) non permane in quanto moltiplicazione ma in quanto manifestazione del 10. Il 10, infatti, è una cosa sola con gli infiniti modi con cui appare. Nelle sue manifestazioni particolari e singolari l’infinito si rispecchia. E queste sono manifestazioni eterne dell’infinito. Ma ciò non significa che l’apparire di questa moltiplicazione (genitivo soggettivo), particolare e singolare, sia l’apparire eterno dell’infinito stesso.
Ne segue, quindi, che non permane l’apparire transeunte della finitezza. Questo apparire transeunte di ciò che siamo (il corpo mortale) è ciò che muore. Ciò che vive è la consapevolezza, la vita, ciò che siamo. Dice San Paolo parlando della risurrezione dei morti: “si semina corruttibile e risorge incorruttibile” (1Cor 15,43). “I morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario, infatti, che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (1Cor 15, 52-53).
A margine di tale considerazione si può aggiungere dicendo che l’apparire (eterno) del finito (genitivo oggettivo) e l’apparire (transeunte) del finito (genitivo soggettivo) non si identificano. Il secondo, infatti, indica l’appropriazione dell’apparire sotto forma di egoità, cioè propria. Il primo, invece, indica il rispecchiarsi/esprimersi di Dio nella sua immagine. Per questo San Paolo associa il destino del corpo mortale a quello della carne (cf. peccato) “Carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio; né i corpi che si decompongono possono ereditare l’incorruttibilità” (1Cor 15,50). Il testo dell’Apocalisse di San Giovanni parla della “morte seconda” (20,14). Direi che la morte “seconda” è costituito da tutto ciò che non può risorgere, perché è “separato”, senza connessione, etimologicamente “ab(s)-tractum”, tolto-via e buttato-via. È il peccato, il male, la tendenza centripeta e divoratrice di tutto. Questo non risorge per definizione. Ma ogni singolo granellino di bene seminato nella terra giungerà a maturazione.