Il primato della mistica

Tutte le religioni hanno conosciuto il pericolo di considerarsi assolute, dimenticando così di essere solo una via all’assoluto. Sono cadute nella tentazione di considerarsi l’obiettivo (l’assoluto), identificando il proprio messaggio con “la verità” e pretendendo di dettare le opportune norme alle quali tutti dovrebbero attenersi. In una parola, le religioni hanno posto il “principio religioso” al di sopra del “principio etico”.

Nel vangelo di Marco (3,1-6) troviamo la descrizione di questa trappola, che spiega anche il crescente conflitto tra Gesù ei rappresentanti ufficiali della religione giudaica. Un sabato, nella sinagoga, i farisei stanno alla ricerca per vedere se Gesù guarisce un malato, violando la legge. E quando ciò accade, colludono con gli erodiani per ucciderlo.

I farisei affermano il primato del “principio religioso”. Ciò che va sempre salvaguardato, al di sopra di ogni altra considerazione, è sempre la legge religiosa. Di fronte a questa esigenza, non è importante aiutare o guarire un malato. Il “principio religioso” quando è affermato da solo conduce inevitabilmente al legalismo religioso.

Al contrario, Gesù relativizza quel principio religioso per assecondarlo al “principio etico”. Consapevole della trappola religiosa e “addolorato per la durezza del loro cuore”, Gesù pone questa domanda: “Cosa è permesso di sabato: fare il bene o fare il male; salvare una vita o distruggerla?” Ed è così che Gesù presenta uno dei suoi principi più sovversivi: “Il sabato [la legge, la norma, la religione…] è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”.

Ma non è l’unica volta che Gesù si manifesta in questo modo. Infatti, il “principio etico” – la religione non è al di sopra dell’etica, ma l’etica al di sopra della religione – attraversa e permea il vangelo.

Di fronte a coloro che possono vantarsi di essere suoi seguaci (“Nel tuo nome abbiamo profetizzato, nel tuo nome abbiamo scacciato i demòni, nel tuo nome abbiamo fatto molti miracoli”), Gesù è schietto: “Non chi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21).

Sulla strada da Gerusalemme a Gerico, chi incontra Dio non è il sacerdote o il levita -fedeli aderenti alla legge religiosa-, ma il samaritano “eretico” che non metterebbe mai piede nel Tempio. E rivolgendosi al dottore della legge che gli aveva posto la domanda sul da farsi, Gesù, dopo aver narrato quella parabola, risponde con enfasi: “Va’ e fa’ anche tu lo stesso” (Lc 10,25-37).

Nella parabola del giudizio finale di Matteo 25, il criterio decisivo non è ciò in cui hanno creduto o quale religione hanno avuto, ma ciò che hanno fatto in favore degli altri: “Venite benedetti dal Padre mio, perché avevo fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25,31-46).

Anteponendo l’etica alla religione, Gesù voleva affermare che c’è una via per incontrare Dio che non passa attraverso il tempio o la religione. Il cammino di piena realizzazione della propria vita si ha nell’agire a favore degli altri e non nell’osservanza religiosa. Il principio etico (il bene) “precede” e “informa” il principio religioso (il sacro).

Ma la novità evangelica di Gesù va oltre il principio etico. Nell’incontro di Gesù con il giovane ricco, il principio etico dell’agire è stato osservato: “Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre” (Mc 10,19). Il giovane ricco risponde: “Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Il giovane ricco “ha fatto il bene”, ha seguito il principio etico ma per Gesù c’è qualcosa d’oltre all’etica. “Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: ‘Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi’”. Non si può dire che il giovane non abbia fatto “tutto” il bene che doveva fare, poiché non ha ancora dato “tutto” ai poveri. Ciò che Gesù dischiude al giovane ricco è un “oltre”, un “al di là” del bene che è qualcosa di più. Gesù fissa, guarda dentro al giovane ricco e lo ama.  Così agendo e così amandolo, Gesù distacca il giovane ricco da se stesso, anche dalla sua capacità di fare il bene. Il “va’, vendi, dà” non è un comandamento più esoso ed esigente degli altri che già aveva osservato. Il “va’, vendi, dà” indica una direzione, una prospettiva – una visione – entro cui realizzare la sua vita. Indica un terzo principio in cui vivere in pienezza. Si tratta del “principio mistico”.

Cos’è che impedisce al giovane ricco di procedere oltre nel suo cammino verso la vita eterna cioè in pienezza? L’avere molti beni; l’aver compiuto molte buone azioni. Il principio “etico” dischiude il regno dei cieli se è vissuto e assunto nel principio “mistico”. “Com’è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,24-25). La salvezza è possibile non presso gli uomini ma presso Dio. “Nessuno è buono, se non Dio solo”.

È lo sguardo di Dio e il nostro lasciarci guardare dalla bontà di Dio (principio mistico) che attrae tutto il nostro essere e agire (principio etico) verso il bene. Tale attrazione divina ci fa “uno” con la sorgente del bene (Dio) e con tutti gli altri esseri. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

I tre principi – religioso, etico e mistico – sono tra loro inclusi, ma il primato è dato da quello “mistico”. La sfera del “sacro” (principio religioso) si realizza in quella del “bene” (principio etico), e l’etica evita di diventare “moralismo” se viene assunta nella sfera dell’“amore divino” che è incondizionato e assoluto. Oltre il sacro e criterio del sacro è il bene; ma oltre il bene e criterio di ogni bene è l’amore incondizionato di Dio. L’apostolo Paolo ci presenta in maniera chiara ed esplicita nell’inno alla carità (1Cor 13, 1-13) il primato mistico dell’amore di Dio su quello etico e quello religioso: “Se conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla (principio religioso). Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri (principio etico), e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente”.

Una cosa sola ci manca, dopo tutte le nostre pratiche religiose e le nostre buone azioni, di abbandonarci nell’amore di Dio. “Queste tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di esse è l’amore” (1Cor 13,13).

In Spirito e fuoco

“Se non è passione, e non brucia, non hai vissuto.” (Diana Vreeland)

Diana Vreeland era una giornalista ed editrice di moda franco-americana. Ha lavorato per la rivista di moda Vogue e per il Metropolitan Museum of Art di New York.

Essere umani significa essere consumati dalla fiamma di una passione. Può essere un’attività, una persona o qualcos’altro. I greci lo chiamano “eros” questa fiamma: un amore, un lavoro, una relazione, un abbraccio, qualcosa che brucia e consuma la nostra vita.

In ogni cellula del nostro corpo e nel DNA stesso delle nostre anime soffriamo per qualcuno o qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto. Semplicemente siamo esseri fatti per desiderare.

Sentiamo quel fuoco, il fuoco della passione! Ma è anche un fuoco di dolore, dolore dentro di noi. Desideriamo ardentemente ma soffriamo perché non riusciamo a spegnere quella sete e quella fame d’amore nei nostri piccoli bisogni e quotidiane voglie.

    “Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

     come sigillo sul tuo braccio.

Perché l’amore è forte come la morte,

     e l’ardore è implacabile come l’aldilà.

Le sue fiamme sono lampi di fuoco,

     un bagliore senza fine.

Le acque del diluvio non possono spegnere l’amore,

     né i torrenti possono sommergerlo.

Se uno desse tutte le sue ricchezze per amore,

     sarebbe guardato con disprezzo.

(Cantico dei Cantici, cap. 8)

Il fuoco dell'”amore” e il fuoco del “dolore” sono sempre uniti. Nessun amore senza dolore; nessun eros senza perdita. “Perché l’amore è forte come la morte.”

“La mia convinzione – dice Richard Rohr – è che le due vie universali per la salvezza sono il grande amore e la grande sofferenza”.

Il fuoco dentro di noi viene dal modo in cui Dio ci ha creati e agisce in noi, vale a dire, Dio ci fa desiderare l’infinito per cui siamo di fatto insoddisfatti di tutto il resto. Siamo fatti per quell’ampio abbraccio divino e siamo inquieti finché non siamo consumati dalle fiamme di quel fuoco ardente dell’amore di Dio.

Nelle sue Confessioni sant’Agostino dice: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. Desideriamo appartenere e apparteniamo solo a colui con cui siamo Uno. DIO.

Sì, il fuoco che è dentro di noi non si spegnerà mai quando abbiamo trovato il partner giusto, il lavoro giusto, la città giusta, il gruppo giusto di amici e il giusto riconoscimento, persino – lasciatemelo dire – la religione giusta. Ma saremo sempre in fiamme, finché la fiamma dell’infinito ci consumerà.

Strana figura quella di Giovanni Battista. Suo padre era un sacerdote e lavorava al Tempio di Gerusalemme. Giovanni avrebbe potuto seguire la vocazione del padre, ma invece non l’ha fatto.

Come mai? Sebbene Zaccaria e sua moglie Elisabetta fossero irreprensibili riguardo alle cose di Dio, erano senza figli. Una vita fedele ma infruttuosa. Non avevano figli, né futuro.

A Giovanni non è bastato il focolare di casa.
A Giovanni non è bastato il calore dei suoi amici.
A Giovanni non è bastata la rassicurazione di una religione.

Giovanni non solo lasciò la sua casa, ma abbandonò il Tempio, lasciò le liturgie del Tempio, con i suoi animali macellati, il sangue versato, le carcasse bruciate sull’altare del Signore con il loro odore, e se ne andò solo nel deserto.

Preferì il deserto di una vita austera. Decise di esporsi a quella “fiamma intollerabile ma amorosa” che ardeva dentro e nel profondo del suo cuore.

Quel fuoco, quella fiamma di passione per Dio, non poteva spegnersi semplicemente all’interno di una “famiglia”, di una buona “compagnia”, di una “religione” o di un “tempio”. Giovanni aveva bisogno dell’ampio spazio di un deserto, dove gridare quel desiderio inestinguibile di Dio.

Prestiamo attenzione! Nel testo originale greco non è detto che Giovanni predica, ma “κηρύσσω” che significa annunciare come fa un araldo, cioè gridando come una tromba nel deserto. Dal deserto della sua vita, Giovanni grida: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”.

A tutti, pii o miserabili, Giovanni si rivolgeva con la stessa e unica passione. Prepara il tuo cuore alla fiamma del Signore, fiamma senza fine del Signore.

Giovanni si è lasciato alle spalle le mura del Tempio ed è entrato nell’ampio spazio del suo cuore. Il deserto.

E così, ha cominciato a fare breccia nel cuore di coloro la cui vita era stata portata via da troppe dipendenze e lasciate insoddisfatte. “Perciò ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco”.

Un albero ha bisogno di spazio per attecchire, ha bisogno di terra per vivere.

Qualunque cosa limita e blocca il desiderio di Dio in te, ciò impedirà che il tuo albero possa portare i frutti che ti aspetti dalla tua vita. Una vita forse veritiera e giusta, ma infruttuosa.

Lascia andare tutte le aspettative che rendono il tuo cuore solo più assetato e affamato, e arrendi la tua vita all’eterno Amore di Dio. Il fuoco inestinguibile di Dio consumerà tutto ciò che mette in pericolo la tua vita, impedendoti di crescere radicato nel desiderio divino. Quel desiderio che ti chiama ad appartenere solo a Lui. Tutto Uno con Dio.

“Se non è passione, e non brucia, non hai vissuto.” (Diana Vreeland)

Tra le mura di un austero chiostro, Teresa di Lisieux trascorse gran parte della sua vita. Ma ha vissuto intensamente, consumata dalla fiamma del Divino Amore. Questo è ciò che lei stessa racconta:

“Pochi giorni dopo essermi arresa all’Amore di Dio, mi trovavo nel coro della cappella, quando mi sentii improvvisamente ferita da un dardo di fuoco così ardente che credetti di dover morire. Non so come spiegare questo trasporto; non c’è paragone per descrivere l’intensità di quella fiamma. Sembrava che una forza invisibile mi avesse immerso completamente nel fuoco. . . Ma oh! che fuoco! che dolcezza!”

Monismo relativo e Vito Mancuso

Alcuni giorni fa mi è stato presentato da un frequentatore del mio blog e delle mie pagine FB questo estratto dal libro di Vito Mancuso, Il principio passione. È uno stralcio che credo sintetizzi la posizione di Mancuso e richiama le linee di fondo della teologia del processo e del teismo aperto e relazione. È un libro del 2014… Quindi è uscito molto prima delle mie riflessioni sul Monismo relativo (iniziate intorno al 2020). Vi propongo il brano.

«Il Dio personale, se è davvero personale, cioè libero, creativo e non necessitato, non può essere né onnisciente né onnipotente. Lo era prima della creazione, nella dimensione dell’eternità, senza tempo e senza spazio, quand’era veramente “assoluto”, cioè sciolto (ab-solutus) da ogni relazione, privo di legami e quindi veramente onnipotente, onnisciente, onniveggente… onni-tutto. Ma la decisione di creare ha significato al contempo l’abbandono dell’assolutezza e di tutti gli onni che ne conseguono, la rinuncia alla pienezza del potere a favore dell’autonomia dell’essere creato. L’assoluto ha così cessato di essere tale, per diventare Dio, o meglio il Dio, il Signore di un mondo con cui giungere ad avere un rapporto di comunione, di alleanza, di amore. […] Questo è il Dio in cui credo. Credo in un Dio che prende così sul serio l’alleanza col mondo da essere coinvolto nel processo vitale mediante cui il mondo si fa, un Dio che si pone al servizio del mondo per farne scaturire mediante un ininterrotto processo il “regno di Dio”. Credo in un Dio che, proprio come Gesù quella sera depose le sue vesti e prese a lavare i piedi ai discepoli, al momento della creazione depose la sua assolutezza e istituì quale assoluto non più se stesso, ma se stesso in comunione con il mondo, cioè il regno di Dio.

Il regno è “Dio + mondo” ed è questo, cristianamente parlando, il vero assoluto, cioè la relazionalità totale dell’amore. In seguito all’incarnazione, Dio diviene un pezzo di mondo, e quindi l’assoluto non è più Dio in sé, ma Dio insieme al mondo, Dio “tutto in tutti” (1Corinzi 15,28).

Credo altresì in un Dio che legandosi al mondo rimane al contempo sempre al di là del mondo, e che, con questo suo essere al di là, opera come una specie di attrattore cosmico verso cui il mondo si orienta e orientandosi produce evoluzione, e verso cui la mente umana si orienta e orientandosi produce bene e giustizia, andando a sanare laddove è possibile le ingiustizie che scaturiscono […]”

Vito Mancuso, Il principio passione, Garzanti 2014, 423ss

È un brano molto chiaro e come è nello stile di Mancuso presenta in maniera nitida il punto della questione. In sintesi. Il Dio “assoluto” (cioè senza creazione) quando ha deciso di creare il mondo ha “abbandonato” gli attributi dell’assolutezza (onni-potente, sciente, presente, etc…). Da assoluto è diventato “relativo”. Quindi limitato. Così si è reso capace di coinvolgersi al nostro destino di creature: creatura tra le creature, uomo con gli uomini. In definitiva questo è il centro della fede cristiana. Il regno (= l’evento Gesù, la Buona Notizia, il Vangelo) è appunto: “Dio + mondo”. Questa è l’idea centrale di questo brano. Tuttavia, il brano termina con questa annotazione: “Dio, legandosi al mondo, rimane al contempo sempre al di là del mondo”. In definitiva. “Dio + mondo” non dice tutto di Dio. C’è qualcosa d’oltre-Dio. Per cui si può dire che la posizione di Mancuso è “pan-en-teista” (e non panteista). Ma allora mi chiedo. Così dicendo, non si recupera alla fine quell’assolutezza che si negava all’inizio? Certo, è un’assolutezza precisata. Si tratta dell’assoluto “relativo”. Paradosso questo certo.

Il Monismo relativo tenta di risolvere questa “aporia” di Mancuso (ma non è solo la sua aporia, è anche dei teologi del processo) che è di rimettere in Dio quanto prima era stato negato. In definitiva: tra Dio e mondo non si dà relazione simmetrica e biunivoca. L’equazione con cui presento di solito il Monismo relativo è, x = x + y. In termini mancusiani, il regno (Dio + mondo) è Dio stesso. Dio = Dio + mondo. La creazione del mondo o il regno di Dio (x + y) non aggiunge nulla a Dio (x), per cui non ha senso dire che Dio era assoluto e poi non lo è più! Se Dio è Dio, lo è prima, ora e poi… Anzi parlare così di Dio (prima-ora-poi) è insensato! Infatti, quel Dio dell’inizio (assoluto) “non” sarebbe più il Dio divenuto. Come predicare, invece, il “regno di Dio” senza che questo non abbia nulla a che fare con l’assoluto? Affermando che l’assoluto è strutturalmente “relazione” al creato. L’essenza di Dio è eternamente la sua relazione al mondo (deus suum ipsius et omnium esse). Ciò è possibile in virtù del principio di creazione inteso propriamente come espressione della causa “esemplare” di Dio e non originariamente della causa “efficiente”. Il mondo è – in tal senso sub specie dei – “eterno” poiché non aliud rispetto a Dio. Solamente rispetto alla mente finita, quindi a noi (sub specie hominis), Dio è aliud, oltre-senza-relazione. Assoluto sterile e non fecondo (relativo).

Ritengo, a questo punto, che gli attributi divini (onni-scienza, onni-potenza, onni-presenza, etc…) piuttosto che essere “negati” dell’essenza divina vadano “partecipati” e “distribuiti” alle creature.

  • Affermare che Dio è onni-potente, significa che Dio rende tutte (onni-) le creature potenti di creare se stesse.
  • Affermare che Dio è onni-presente, significa che Dio è presente in tutte (onni-) le creature.
  • Affermare che Dio è onni-sciente, significa che la consapevolezza di Dio o la Mente di Dio (lo Spirito di Dio) pervade di Sé tutte (onni-) le creature.

La dottrina teologica della debolezza, umiltà, ritrarsi (tzim-tzum) di Dio non è altro che un modo di esplicitare la relatività creata dell’essenza divina. La traccia trinitaria di Dio nel creato.

Cos’è la Realtà?

Cosa intendiamo per realtà? È qualcosa che è semplicemente là fuori o è qualcosa che è semplicemente inventato nelle nostre teste?

Tutta la realtà è costituita da relazioni che non sono cose. Le cose sono secondarie rispetto alle relazioni. Come un certo numero di fisici afferma i “relata”, le cose sono successive alle relazioni.

Non ci sono prima le cose e poi – perché ci sono cose – vengono le relazioni tra di loro. Ci sono prima le relazioni e dalla rete delle interconnessioni emergono dei “nodi” dove i fili si incrociano. Questi “nodi” sono le cose. Sono questi nodi che attirano la nostra attenzione e li chiamiamo “cose “. Le vediamo come cose separate ma in realtà fanno parte tutte di una rete.

È l’immagine della rete di Indra che nei Vedanta è l’idea di una rete che copre il cosmo e nella rete in ogni punto c’è un filo che incrocia un altro . Tutto è interconnesso.

Quando diciamo che qualcosa è “reale” ci poniamo la domanda: Quale relazione è così evidente e immediata che se venisse meno tutta la realtà sarebbe negata? Poiché le cose sono “reali” poichė sono relazioni, la relazione essenziale e fondativa senza la quale tutto non sarebbe più esperibile è la consapevolezza. Se smettessi di avere una relazione con essa, ciò invaliderebbe immediatamente il suo essere reale.

La rete di connessioni, pertanto, è rete di consapevolezza.

Il dilemma

  • L’esperienza cosciente negli esseri umani “dipende” dall’attività cerebrale: questo è l’assioma delle neuroscienze per spiegare la coscienza.
  • L’esperienza cosciente negli esseri umani è “oggettivata” e quindi considerata “fenomeno” o “contenuto” di esperienza, compresa a livello “meta-cognitivo” come “attività cerebrale” da cui l’esperienza cosciente dipenderebbe. Questa è l’assioma del monismo relativo per spiegare la coscienza.

La coscienza “precede” la materia (attività cerebrale), e non viceversa.

Mi sembra logico! Il più precede il meno. La realtà eminente “contiene” e “comprende” quella di cui l’altra (materia, etc…) partecipa. Questo è il principio logico che per molti fisicalisti non è più evidente, poiché – così dicono – si fondano sui dati. Ma i dati in quanto tali (!) non hanno alcuna relazione tra loro (causalità, emergenza, etc…). Ogni relazione (logos-légein) è l o g i c a ovvero non ha una realtà in sé, esterna all’osservatore che la misura. Anche nella concezione di Rovelli [Relational Quantum Mechanics (RQM)] ciò che viene indicato come osservatore/sistema di fatti è una costruzione “logica” espressa rigorosamente in equazioni. Ne segue che è importante saper ben distinguere i (cosiddetti) DATI dalla loro INTERPRETAZIONE.

La prospettiva di Federico Faggin sulla coscienza – come quella di altri che possono essere identificati come “monisti” (tra cui il sottoscritto, benché “relativo”) – non fa altro che porre come punto di partenza dell’indagine sulla coscienza

  • l’ESPERIENZA
  • la LOGICA.

L’orizzonte dell’esperienza è intrascendibile. Noi conosciamo non le cose ma “l’esperienza che facciamo con le cose” (FENOMENI) e questa esperienza che “facciamo” è appunto qualcosa che “facciamo”, “costruiamo”, inventiamo, modelliamo nel momento stesso in cui facciamo esperienza (Social constructivism).

La “scienza” è un modo/interpretazione (sociale) della costruzione dell’esperienza che facciamo (METACOGNITIVO).

Pregare…tra Tu e il sé

XXX Domenica – Anno C

Il “fariseo” simboleggia l’ego che vive di confronto, giudizio ed esclusione.

Il confronto permette di affermarsi, separandosi dagli altri.

Il giudizio è uno stato mentale, poiché pensare equivale a giudicare, cioè apporre “etichette” su tutto e tutti.

L’esclusione degli altri implica l’affermazione della propria “superiorità” morale o personale sugli altri.

L’immagine del “pubblicano”, invece, rimanda alla consapevolezza della propria vulnerabilità, con il suo carico di debolezza, errore, menzogna e persino male: ciò che, genericamente, è stato inteso come “peccato”.

Il primo vive di un’ossessione fobica di sé e, da questo punto di vista, condanna tutto e tutti coloro che non può né accettare né poter vedere. “Il fariseo stando in piedi, disse tra sé questa preghiera”.

Si erge senza l’altro/a… fuori di lui e dentro lui. In questo senso vive nella menzogna, perché incapace di riconoscere e accettare la propria ombra, la propria diversità. E, non vedendolo, è costretto a proiettarlo sull’altro, senza accorgersi che, con ogni probabilità, ciò che condanna nell’altro/a è ciò che, nel suo inconscio – cioè nella sua parte d’ombra – vorrebbe vivere e fare!

Così, mentre è orgoglioso di non essere “come tutti gli altri: ladri, ingiusti, adulteri”, è come se dicesse: “Io non sono come gli altri…, ma mi piacerebbe esserlo”. Risultato? È un uomo non riconciliato con se stesso, non “giustificato”, nel senso che la parabola dà alla parola “giusto”.

Il primo “si rifugia” nell’immagine idealizzata di sé; il pubblicano, invece, semplicemente riconosce la sua verità e si accetta così com’è. “Sono un peccatore, abbi misericordia o Dio”.

Non fa paragoni, non giudica e non esclude altri.

Accetta semplicemente la sua unica verità, senza inventarla.

È semplicemente consapevole della sua condizione.

Questa è vera “umiltà”. Sguardo sereno sulla realtà, innanzitutto propria e poi degli altri. Ed è “giustificato” poiché è unificato e pacificato.

“Essere giustificati” non indica tanto una qualità ma uno stato, una condizione di essere.

Il Signore è un Dio di giustizia, che non conosce favori. Non favorisce i buoni e disdegna i cattivi.

Il latino ius, iustitia lex … legein, sono tutte parole che rimandano a: unire, connettere.

L’idea di base è che la GIUSTIZIA è l’atto di unire, la capacità di connettere: lex – légein. La parola sanscrita è Yoga la cui radice yuj significa “collegare, unire”. Il latino ius deriva dal sanscrito yuj; la funzione essenziale della giustizia è ristabilire il legame dell’individuo con gli altri, con la società, con l’ambiente circostante e infine con se stesso.

Dicendo che il pubblicano tornò a casa giustificato, Gesù sta rivelando il segreto dell’essere stesso di Dio. Dio è “giusto” perché giustifica, condivide il suo “stato” di essere-con (di “inter-esse”) con chi è “altro”, quell’“altro” che è l’empio, il peccatore.

Dio è giusto, Dio è santo, perché nessuno è così diverso da Lui, così escluso da Lui, da non poter essere “con-Lui.” Nessuno è così “altro” da essere per sempre “non-altro” in Dio. Non c’è altro che Dio.

È interessante notare che la parabola di Gesù ci dice che sia il fariseo che il pubblicano si trovano nell’area del tempio. All’interno dell’area sacra, il fariseo è al centro, il pubblicano è ai margini, ai margine dello spazio sacro.

Il Tempio rappresenta l’essere di Dio: chi è al centro, nel cuore di Dio? Colui il cui cuore abita in Dio. Colui che è consapevole di sé cioè nello spazio eterno dell’”Essere-con” di Dio.

La parabola non dice che Dio ha parlato all’uno e non all’altro.

Sia il fariseo che il pubblicano danno del “Tu” a Dio:

  • “O Dio, ti ringrazio perché non sono…” (Fariseo)
  • “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Pubblicano)

Ciò che fa la differenza tra i due non è tanto a motivo del “dare del Tu a Dio” (preghiera “teista”?) ma la differente consapevolezza che l’uno e l’altro hanno di “sé” (preghiera “non-duale”).

Il fariseo è-separato-da-altri/o (e il Dio che il fariseo invoca è Colui che è sacro/santo, separato-dal-mondo, così anche lui si comprende “separato” dagli altri ma anche da quel totalmente Altro che è Dio). Il pubblicano, invece, è consapevole di sé, poiché si comprende nell’orizzonte della pietà, misericordia: non separato dagli altri e da Dio, ma nell’amore di Dio, nella sua misericordia. Si sente a casa di Dio.

Chi si rende conto che Dio ha accolto le sue preghiere?

Colui che ha trovato la pace con se stesso, perché non ha nulla da nascondere, nemmeno la sua ombra. “Stando” nella luce, diventa. luce.

Come riconoscere se vivo nascosto nell’ombra o svelato nella luce?

Da questi sintomi lo possiamo riconoscere nella vita quotidiana:

  • nel confronto con gli altri,
  • nella compulsiva smania di giudicare tutto e tutti,
  • nell’escludere altri.

Ogni volta che sentiamo una certa rigidità nei confronti di certe persone, atteggiamenti, comportamenti.

Ovviamente non tutto ciò con cui non sono d’accordo sta lì a rivelare la mia ombra, il mio lato oscuro. Ma ciò che mi rende nervoso a motivo di ciò che altri dicono o sono, tutto questo è qualcosa che non riesco ancora ad accettare in me e voglio negare di me.

2022 – Fisica Quantistica

Prima del 1900 avevamo una perfetta comprensione delle leggi che governano l’universo fisico tramandateci dal grande Isaac Newton. Queste sono le leggi che insegniamo ancora ai ragazzi delle scuole superiori di tutto il mondo, le leggi della cosiddetta fisica classica. Al centro della prospettiva di Newton c’è l’idea che se descrivi come è il mondo in questo momento, indicando la posizione e la velocità di tutti gli elementi e descrivi le forze che agiscono su quegli elementi, avrai delle leggi che predicono con esattezza come sarà il mondo in qualsiasi momento successivo.

La fisica classica procede in modo semplice, deterministico e potente. Ha la capacità di determinare il futuro. Questo modello funziona per fare previsioni del futuro: per esempio, quale posizione avrebbe in un dato momento un pendolo mentre oscilla, oppure dove una palla sarebbe atterrata quando sarebbe stata lanciata, oppure dove la luna sarebbe stata nella sua orbita attorno alla Terra. Tutte queste previsioni e tutte le altre sono state fatte con estrema precisione.

Questa è stata la fisica fino ai primi anni del 20° secolo. A questo punto, però, gli scienziati iniziarono ad acquisire la capacità di esplorare il microcosmo, il mondo degli atomi e delle particelle subatomiche. In questo regno subatomico, le previsioni della matematica di Newton si sono rivelate sbagliate. I dati rivelavano che c’era bisogno di nuove leggi per comprendere il mondo microscopico. Nel giro di pochi decenni, una generazione di scienziati del calibro di Albert Einstein, Max Planck, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Erwin Schrodinger e Max Bohr, e molti altri, hanno inaugurato una nuova comprensione della realtà, chiamata meccanica quantistica.

Ora la meccanica quantistica ha le sue potenti formule matematiche, ma la nuova idea centrale della meccanica quantistica si può cogliere anche senza la matematica. Se Newton descrive il mondo così com’è ora e come sarà domani, la meccanica quantistica ti dice com’è probabile che il mondo sia adesso e la probabilità di come sia il mondo domani. Per la meccanica quantistica, queste probabilità descrivono la realtà più profonda e precisa dell’interazione fisica.

Vien meno così la rigida certezza e determinismo con cui la fisica classica descriveva il mondo. Da parte di Einstein ci fu molta resistenza di Einstein nei confronti della natura probabilistica della meccanica quantistica. È noto il detto di Einstein: Dio non gioca a dadi. Einstein non negava che le probabilità quantistiche descrivevano il mondo microscopico, ma la probabilità si riferiva alla teoria e non alla realtà dell’interazione delle particelle subatomiche. Secondo Einstein, la meccanica quantistica era solo una teoria provvisoria che alla fine sarebbe stata sostituita da una comprensione più profonda che non si sarebbe basata sulle probabilità. Per questo Einstein lavorò instancabilmente per esporre le qualità della meccanica quantistica che lui sperava sarebbe stato così ovviamente inaccettabile e contraria alle aspettative di qualsiasi persona ragionevole. La meccanica quantistica con la sua teoria della probabilità non era la storia finale e non descriveva come funziona il mondo.

Nel 1935 con due colleghi Boris Podolski e Nathan Rosen, Einstein credeva di aver finalmente trovato il tallone d’Achille della meccanica quantistica, scoprendo una proprietà inerente alla Meccanica Quantistica che venne chiamata “entanglement” quantistico. In breve, Einstein e i suoi colleghi scoprirono che secondo la matematica della meccanica quantistica, se due oggetti interagiscono e poi vengono del tutto separati tra loro, nel momento in cui si effettua una successiva misurazione su uno di quegli oggetti, la misurazione su uno dei due oggetti ha immediatamente un’influenza istantanea sull’altro oggetto, indipendentemente dalla distanza tra loro.

Einstein chiamò questa strana connessione quantistica “azione spettrale (spooky) a distanza”. La cosa sconvolse profondamente la sua convinzione che oggetti ampiamente separati sono indipendenti l’uno dall’altro. L’entanglement quantistico era lì a mostragli che c’era una connessione quantistica invisibile in grado di collegare oggetti distanti insieme o come dice il nome impigliandoli Einstein non poteva accettare questa visione quantistica della realtà e quindi concluse che qualcosa non funzionava nella meccanica quantistica, non poteva essere la storia completa e definitiva.

Si tratta del “Paradosso di Einstein – Podolsky – Rosen” (Paradosso EPR) cioè un esperimento mentale da loro proposto con cui si  sosteneva che la descrizione della realtà fisica fornita dalla meccanica quantistica era incompleto. In un articolo del 1935 intitolato “La descrizione quantomeccanica della realtà fisica può essere considerata completa?”, costoro sostenevano che l’esistenza di “elementi della realtà” che non facevano parte della teoria quantistica e ipotizzavano che si doveva costruire una teoria che li contenesse. Per anni nessuno ha prestato molta attenzione al risultato dell’EPR soprattutto perché la meccanica quantistica ha funzionato e inoltre nessuno ha potuto vedere un modo per testare la speculazione di Einstein secondo cui un giorno la meccanica quantistica sarebbe stata sostituita da una comprensione più profonda che non avrebbe bisogno di probabilità. Ma nel 1964 un fisico di nome John Stewart Bell dimostrò matematicamente che c’era un modo per testare la visione più convenzionale della realtà, cioè mettendo alla prova l’opinione di Einstein secondo cui le particelle hanno sempre caratteristiche definite e non ci sono connessioni “spettrali”, quindi, nessun entanglement quantistico.

Il premio Nobel per la fisica di quest’anno 2022nè stato assegnato ad Alain Aspect, John Clauser e Anton Zeilinger, i cui Collective Works hanno messo a test con esiti efficaci la visione convenzionale della realtà di Einstein. L’entanglement quantistico è reale. Inoltre, si è potuto dimostrare che la meccanica quantistica e l’entanglement possono essere sfruttati per varie applicazioni: dal Quantum Computing al teletrasporto quantistico; dalla crittografia quantistica che è un modo per usare l’entanglement e inviare messaggi segreti in un modo che non possa essere intercettato o spiato.

Il premio Nobel per la fisica di quest’anno, quindi, conferma la comprensione che si ha della meccanica quantistica, come di qualcosa molto strano e mistico. Ci sono aspetti strani e quasi mistici nella teoria quantistica. La cosa più divertente della meccanica quantistica è che normalmente pensiamo il mondo costituito di sfere di biliardo di vario colore: rosse o gialle o bianche. Guardiamo una biglia ed è rossa, e un’altra è gialla, e un’altra è bianca. Guardando ciascuna singolarmente, pensiamo che la nostra osservazione non abbia nulla a che fare non le altre biglie. Questo è quanto pensa e fa la fisica classica.

Nella meccanica quantistica funziona in modo diverso, puoi avere stati di meccanica quantistica che sono chiamati entangled. In tale stato, guardando semplicemente questa biglia, dicendo che è gialla, in qualche modo si viene ad influenzare ciò che sta accadendo all’altra biglia. Questa è la spettrale o strana proprietà della meccanica quantistica.

I vincitori del premio Nobel della fisica di quest’anno ci hanno fatto capire cosa succede nella realtà del mondo subatomico.

Un falso dilemma

La coscienza emerge dalla materia o la materia dalla coscienza? Questo è il grande dilemma tra idealismo e fisicalismo, naturalismo e spiritualismo, Oriente e Occidente. Quello che David Chalmers ha chiamato: l’Arduo Problema della Coscienza (Hard Problem of Consciousness).

Ma il dilemma è fondamentalmente un problema di prospettiva sulla Realtà che non è duale ma una sola.

Partiamo dal fisicalismo/naturalismo. Con la scienza evolutiva, si è potuto dimostrare che anche le forme di vita più semplici hanno“ciò che chiamiamo “consapevolezza”. Certo in forma molto embrionale, capacità associativa in forme primordiali, che poi si svilupperanno sempre più attraverso la selezione evolutiva a dar vita a quella che chiamiamo “coscienza” (ovvero: consapevolezza a livello metacognitivo). Propriamente, però, è preferibile dire che gli esseri viventi sono nella consapevolezza e non “hanno” consapevolezza.

La consapevolezza è cosmica ed è la sorgente che “si” riflette nello specchio della Materia/Fisicalità. Lo specchio è la materia in cui la Consapevolezza si riflette. Come lo specchio non ha l’immagine che riflette, così le cose non hanno consapevolezza ma “sono nella consapevolezza”: la riflettono.

Ma “di cosa” è fatta la Materia, nella quale la Consapevolezza si riflette? È fatta di riflessione (della Consapevolezza) che è stata “oggettivata” . In altri termini: la Materia è ciò di cui “noi” (= soggetti) pensiamo sia fatta la realtà: attraverso categorie, formule, spazio/tempo, materia/energia.

La “sostanza” della materia è, quindi, riflessione, prodotta da soggettività consapevoli quali siamo “noi”. Oggettivata da chi? Dai “soggetti” (cioè “noi”) che percepiscono la Consapevolezza cosmica dal loro punto di vista. La Consapevolezza cosmica – vista dal punto di vista dei soggetti – è la Materia, il mondo esterno fisico.

Il cosmo – visto dal punto di vista di soggetti “dissociati” o “separati” dalla Soggettività di cui sono fatti – è puramente materiale e fisico. I soggetti – separati dalla Soggettività trascendentale – percepiscono e pensano se stessi come “individui”, costituiti di “propria” soggettività. Si “appropriano” della Soggettività cosmica e universale.

Il cosmo – visto dal punto di vista di soggetti “identificati” nella soggettività non considerata come “propria” ma “cosmica” e “universale” – è Pura Consapevolezza. I soggetti – identificati nella Soggettività trascendentale – percepiscono e pensano se stessi come “in-dividui”, cioè una realtà “non-divisibile” che non si appropriano di ciò di cui sono fatti – “io” sono “mio” e “io” non sono “tu” – ma “io-sono” (né mio e né non-tu).

La realtà, quindi, è unica (monos) ed è Pura consapevolezza (monismo). Questa può essere vista da due punti di vista differenti (relativo):

  • duale (di soggetti “dissociati” o “separati” dalla Soggettività di cui sono fatti ) ed è vista come “materiale”. La realtà “esterna” è Materia e la consapevolezza emerge da essa.
  • non-duale (di soggetti “identificati” nella soggettività non considerata come “propria” ma “cosmica” e “universale”) ed è vista come Pura Consapevolezza. La realtà (identità ontologica) non è né “esterna”, né “interna”. Tali distinzioni (interno-esterno) sono epistemologiche, cioè riguardano i punti di vista con cui l’unica realtà è vista.

La realtà è Io-Sono

Tutto/parte: mutualità?

È biunivoca la relazione tra le parti che compongono il Tutto e il Tutto?

È biunivoca la relazione parte-Tutto?

Giulio Goggi – autorevole interprete di Emanuele Severino – risponde sì. Leonardo Messinese – autorevole interprete di Tommaso d’Aquino e di Bontandini – risponde di no.

Non mi soffermo ad esaminare il pensiero di Messinese. Preferisco rifarmi all’idea della “relatio non ex aequo” di Tommaso, interpretandola alla luce della dottrina della creatio ex nihilo.  

Il punto è questo. Le parti sono tali solamente in riferimento al Tutto di esse e la relazione delle parti (gen. soggettivo) al Tutto fa parte di questo riferimento al Tutto. Secondo Goggi, anche il Tutto è tale solamente in riferimento alle parti, per cui la relazione del Tutto (gen. soggettivo) alle parti, fa “parte” di questo riferimento. Non si dà il Tutto senza le parti e il suo riferimento ad esse, così come non si danno alle parti senza il Tutto e il loro riferimento ad esse. Il “Tutto”, quindi, è l’identità dell’Infinito concreto. Se togliamo al Tutto il suo riferimento alle parti, riconosciamo al Tutto un’identità formale e non concreta. Il “Tutto-senza-relazione-alle-parti” è identità formale. Il “Tutto-con-relazione-alle-parti” è identità concreta.

Mi chiedo. È così pensato veramente il Tutto senza contradizione? Infatti, se la relazione del Tutto alle parti “fa parte” del Tutto in quanto tale, cioè che questa sua relazione è una parte assieme alle altre parti e inoltre se questa relazione del Tutto alle parti costituisce l’identità concreta del Tutto, significa che il Tutto diventa “parte” del Tutto che però non è più Tutto ma parte. Dunque, ne segue che qualora la relazione del Tutto alle parti fa parte del Tutto, non c’è più il Tutto con le sue parti ma solo le parti. Ma cosa sono le parti senza il Tutto? Le parti non sono più “parti” e quindi “non-sono”. Porre la relazione del Tutto-alle-parti (gen. soggetivo) come “parte” del Tutto significa dissolvere il Tutto e le parti.

Questa è la latente contraddizione della posizione di Goggi che ai nostri giorni è ripresa in campo filosofico e teologico da alcuni rappresentanti del panenteismo processuale di Whitehead. Questi affermano, infatti, che Dio (= Tutto) evolve con le creature; Dio soffre con loro ed è mutato nel lasciarsi coinvolgere e “toccare” dalle creature. La relazione-alle-creature costituisce l’identità di Dio, cioè del Tutto.

Pur condividendo il panenteismo di questa comprensione, non posso far mia il modo (contraddittorio!) con cui questo viene articolato. Sono d’accordo nel ritenere – con il panenteismo – che la relazione-alle-creature costituisce l’identità del Tutto, per cui l’identità di Dio è la Sua relazione-alle-creature. Ciò che manca nei pensatori processuali e nel modo con cui viene da loro articolato il panenteismo un’adeguata assunzione del concetto di creatio ex nihilo. La relazione-alle-creature che identifica Dio è una relazione creatrice. In termini tommasiani: una relatio non ex aequo. Ciò significa che non è una relazione che “aggiunge” qualcosa all’identità di Dio, come sarebbe nel caso si predicasse una relazione “biunivoca” tra parte-Tutto, creatura-Dio.  La relazione reale, infatti, quando viene predicata di qualcosa o qualcuno, aggiunge qualcosa all’identità ontologica del qualcosa/qualcuno. Ma la creazione “non” aggiunge qualcosa a Dio ma è l’espressione o apparizione di Dio.  

Dio (x) è l’apparizione del creato (x + y). Questa è l’equazione fondamentale di ciò che propongo come Monismo relativo (x = x + y). Se si risolve l’equazione, ne segue che il Tutto/Dio (x) si identifica in quanto tale, cioè come Tutto/Dio (x) in questa apparizione del creato (x = x), mentre il creato è “nulla” (y = 0) solo se “astratta-mente” considerato a prescindere dall’apparizione in cui è posto. Si annienta il creato nel momento in cui l’essere del creato viene isolato dall’apparizione (creatrice) in cui “ek-siste” e consiste. Il creato “è” nell’apparire: nel senso che la realtà creata sta “nel” tutto dell’apparire e non è “oltre” l’apparire. Ma di chi è questo apparire? È l’apparire della parte/creatura oppure del Tutto/Dio? È l’apparire del Tutto/Dio (gen. soggettivo). E la parte/creatura “non” appare? Niente affatto! La creatura (y) appare proprio nel momento in cui Dio appare. La creatura appare nel momento in cui Dio ek-siste. L’esistenza di Dio è l’apparire della creatura.

La parte è tale solo nel Tutto, partecipe del Tutto. La parte è l’apparire del Tutto in quanto la parte ne fa riferimento. La creatura è tale solo in Dio, essendone partecipazione. La creatura è teofania in quanto partecipa di Dio stesso. In questo modo – attraverso l’assunzione del concetto di creatio ex nihilo – si può affermare che la relazione del Tutto/Dio alle parti/creature costituisce l’identità e la realtà di Dio. Solo in questo senso specifico, la relazione di Dio alle creature è “reale” come quella della creatura a Dio, proprio perché il creato partecipa della realtà di Dio.

Apparire nella pura consapevolezza

Il punto di partenza è l’esperienza.

Conosciamo solo ciò di cui facciamo esperienza. Ciò di cui non facciamo esperienza non lo conosciamo.

Ciò significa che il punto di partenza è il fenomeno, ciò che appare, e ciò che appare è sempre riferito a un soggetto a cui qualcosa appare. Si parla quindi di coscienza intenzionale del soggetto a cui qualcosa è presente. È presente come fenomeno: percezioni, emozioni, pensieri. Questa coscienza intenzionale può essere oggettuale o non-oggettuale. Oggettuale è l’aspetto meta-cognitivo della coscienza intenzionale. Cioè “so-di-provare-una-emozione”, “so-di-percepire-qualcosa”, “so-di–avere -un-pensiero”. Non-oggettuale è quando la coscienza intenzionale “non-sa” di provare qualcosa, di percepire una sensazione e di avere un pensiero. Non è consapevole “di” qualcosa”. Ciò avviene nel sonno e nel sogno. Solo in un secondo momento si attiva l’intenzionalità della coscienza e la coscienza identifica quanto “vissuto” a livello pre-cognitivo come un sogno: ho sognato “questo” o “quello”.

Non ne ero consapevole “cognitivamente” di questo, cioè la coscienza non ne aveva una esperienza oggettuale, non ne era intenzionalmente consapevole. L’esperienza non-oggettuale, invece, è la coscienza “priva” di qualsiasi “oggetto” quindi a livello “non-cognitivo”. È la coscienza “non” intenzionale: è coscienza non “di qualcosa” (percezione, emozione, pensiero) ma è pura coscienza o – se vogliamo re-introdurre la intenzionalità – è coscienza che intenziona se stessa. Coscienza “di” coscienza. Immediata (cioè senza oggetto, senza contenuto che sia percezione, emozione o pensiero) e diretta.

La pura consapevolezza è coscienza “trans-intenzionale”. È ciò che trascende il fenomeno e quindi non è conoscibile intenzionalmente, se non come pura immediata coscienza di sé. La conoscenza del fenomeno nel suo immediato apparire è la conoscenza del fenomeno così come appare nella pura consapevolezza.

È vedere le cose con gli occhi di Dio.