Il termine usato da Karl Rahner è in tedesco “Ämtlich” e significa “ufficiale”: si vuole indicare tutto ciò che è forma, credenza, dogma, rito, norma morale concreta, etc…. e dunque religione.
Qualcosa è “ufficiale” quando si riconosce qualcosa come “pubblico” , vincolato da un consenso pubblico, dunque non privato/individuale/di parte.
Quando la rivelazione di Dio – che si dà a tutti – viene riconosciuta come “divina” significa che qualcosa è confermato “pubblicamente” cioè ad una determinata espressione di essa viene riconosciuta “validità”.
Per fare un esempio. Ciascuno di noi ha accesso al mazzo di carte ( = rivelazione divina) ma perché possiamo interagire tra di noi che abbiamo accesso al mazzo di carne, abbiamo bisogno di decidere a quale gioco ( = DOGMA, CREDENZA, RITUALE) giochiamo. A questo punto giocando, non possiamo cambiare il significato che le carte hanno nel gioco che i partecipanti hanno deciso di attenersi.
Il problema attuale della Chiesa cattolica è che i giocatori non vogliono più giocare al gioco che altri hanno deciso. Possiamo cambiare gioco? Io dico…sì.
Rispondo al quesito distinguendo subito il metodo scientifico dallo scientismo o il riduzionismo scientifico. Mi spiego. Io sto con la scienza come metodo, ma non con gli “scientisti” che speculano o fanno atti di fede su quello che Kant chiamerebbe la materia “noumenica” della realtà.
Il metodo scientifico si basa sull’esperimento. “sperimentare” significa fare esperienza di qualcosa. Il “qualcosa” è il contenuto dell’esperienza. Il qualcosa è “quantificabile” e “oggettivabile”. L’esperienza in quanto tale – condizione perché ci sia contenuto di esperienza – non è quantificabile.
Se si viene ad affermare che “a tutt’oggi resta irrisolto il quesito fondamentale: è il Sé collocabile nel cervello o, addirittura, identificabile con le sue funzioni?” non si fa altro che confermare il carattere irrisolvibile di ciò il metodo scientifico – per sua definizione – non conosce, cioè la condizione per cui si diano contenuti di esperienza. La scienza osserva questi contenuti e li conosce, quantificandoli e classificandoli, ma non può osservare l’esperienza in quanto tale o pura consapevolezza.
La confusione sta nel non saper distinguere tre livelli della questione:
esperienza/pura consapevolezza (livello della consapevolezza ontologica);
contenuti di esperienza (dati esperienziali (livello della consapevolezza fenomenologica);
conoscenza, classificazione dei dati esperienziali, loro formalizzazione e conoscenza scientifica (livello metacognitivo).
Ciò che la fisica quantistica osserva nel microcosmo e la relatività generale nel macrocosmo è “contenuto” di esperienza ma non l’esperienza stessa o pura consapevolezza di questi.
Se è vero che “senza esperienza/consapevolezza” non si danno contenuti di esperienza (cfr. 2° e 3° livello), senza “contenuti” si dà – tuttavia – esperienza/consapevolezza non-oggettuale (1° livello ontologico).
Questa è la dimensione epistemologica del Monismo relativo, il suo momento “riduzionista” poiché tutto è “esperienza” e l’esperienza è essere percepiti (esse est percepi), pura consapevolezza.
Il principio fondamentale è che solo il simile conosce il simile.
Ne segue che l’infinito conosce l’infinito e che l’infinito possa conoscere solamente l’infinito. L’infinito non può conoscere il finito in quanto finito. L’infinito può conoscere il finito solamente in quanto infinito.
Perché l’infinito conosca il finito come finito, è necessario che l’infinito diventi finito. Solo a questa condizione, dunque, è possibile che l’infinito conosca se stesso come finito. Ciò implica che l’infinito possa conoscere se stesso come finito, se diventa finito. Il divenire finito dell’infinito è condizione necessaria perché l’infinito conosca se stesso come finito.
Una volta che l’infinito sia divenuto finito, l’infinito può conoscere se stesso come finito e il finito conoscersi.
Il finito può conoscersi in quanto finito, solo se è data già una previa conoscenza dell’infinito. Originariamente è data previa conoscenza di Qualcosa che non è né finito, né infinito. Dire anche “Qualcosa” è improprio e inesatto. Si tratta dell’originaria realtà non-duale, per cui ogni determinazione o definizione di essa, la trasgredisce, cioè l’oltrepassa.
Se il finito non è “altro-che” (non aliud) l’infinito divenuto tale, definendosi come finito, ne segue che “il finito” – che si conosce come finito – non è altro-che l’infinito che è divenuto finito e come finito si ri-conosce.
Infatti, perché il finito conosca se stesso come finito, è necessario che vi sia una pre-conoscenza ovvero una conoscenza “previa” dell’infinito. Solo così il finito conosce se stesso “come finito”. Il finito riconosce se stesso come “finito” se già gli è data una “pre”-conoscenza dell’infinito, in cui il finito si conosca finito ma nell’infinito. Senza questa previa conoscenza dell’infinito, il finito non riconoscerebbe se stesso come finito ma non si riconoscerebbe affatto come tale.
Ripetiamo. L’infinito conosce se stesso come finito, solo se l’infinito diventa finito. Divenuto finito l’infinito, cioè definendosi, l’infinito conosce se stesso come finito. Ma perché a sua volta il finito possa ri-conoscersi come finito, è necessaria una previa conoscenza di sé dell’infinito, cioè una conoscenza di sé (finito) nell’infinito. Tale preconoscenza dell’infinito che permette al finito di ri-conoscersi come finito si presenta come una condizione di apertura del finito all’infinito. Questa apertura del finito all’infinito rende presente in modo implicito e incoativo la conoscenza che l’infinito ha del finito in quanto infinito.
La conoscenza che l’infinito ha del finito in quanto infinito è conoscenza del “proprio” simile, ovvero la condizione di possibilità perché il finito sia conosciuto come infinito è che il finito non sia altro-che (non aliud) l’infinito.
Parlare di “somiglianza” implica indicare tra due realtà un’identità e una differenza. La somiglianza tra infinito e finito implica una differenza che non è “ontologica” ma “epistemologica”, mentre un’identità ontologica tra infinito e finito.
“How long, O LORD? I cry for help, but you do not listen! I cry out to you, “Violence!” but you do not intervene. Why do you let me see ruin; why must I look at misery?” (Habakkuk)
Why does God not intervene?
A ferocious storm swept through one of the towns there, and in the aftermath, a man clambered onto his roof to escape the floodwaters. As he sat there, someone in a canoe came by and offered to carry him to safety. “No, thanks,” the man replied. “God will save me.” The man paddled off, and the waters continued to rise.
Shortly afterward, someone in a boat pulled up to offer help. “No, thank you,” the man said again. “God will deliver me.” The waters rose higher. Finally, a Coast Guard helicopter appeared; someone with a megaphone offered to drop a ladder. “No, thank you,” the man said for a final time. “I prayed for God to save me.”
The helicopter flew off, the waters engulfed the roof, and the man drowned. When the man arrived in heaven, he asked in confusion, “What happened, God? Why didn’t you rescue me?”
God replied, “I sent you a canoe, a boat, and a helicopter. What more did you want?”
Did God intervene?
Another story, a Sufi story, goes like this:
“A man was overwhelmed by all the pain and suffering he saw around him. And so, he raised his cry to God. “Look at all this suffering and violence. Look at all these murders and these tragedies. Oh my God, why didn’t you intervene?”. Then God said to him: “But I sent you!”
In both stories we deal with people, very religious, but disintegrated in their life. “The rash one has no integrity; but the just one, because of his faith, shall live”.
The Hebrew word for “rash” עפל (‘aphal) refers to the verb “to swell”, “to inflate”. Who is the “rash” one? Someone who boasts himself, inflates himself.
The person in both stories is someone whose ego is so inflated that he wants everything to revolve around him. He thinks and acts as the Big “actor” of reality. And God must be at his service.
In today’s Gospel, we are told that the apostles said to the Lord, “Increase our faith.” It is a request of being inflated. And Jesus does not delay answering, but immediately says: “If you had faith the size of a mustard seed.”
The contrast between “increase, boost, amplify, inflate” and Jesus’ answer is unbelievable! Think of yourself as a mustard seed; and then imagine yourself as a holy person.
Today we remember Thérèse of Lisieux. She writes in her diary that “it has ever been my desire to become a Saint, but I have always felt, in comparing myself with the Saints, that I am as far removed from them as the grain of sand, which the passer-by tramples underfoot, is remote from the mountain whose summit is lost in the clouds.” This attitude of faith she called it the “Little Way,” a simple approach to the spiritual life that seeks to do ordinary things from within the overflowing love of God.
The faith by which we shall live is like a mustard seed, a grain of sand. Jesus’ words do not suggest any kind of false humility.
After you have done all that you have been commanded to do, we are not glad to hear: “you are an unprofitable servant”. Any time we help someone, any time we do an act of Christian charity, or serve in the parish, what do we expect to hear? We wait for a compliment, a public recognition. We expect to be thanked for what we’ve done.
And Jesus tells his apostles: “You have done what you had to do.” Is not Jesus unkind, in behaving like that? Ungrateful. Does he want to humiliate us?
Jesus is simply shrinking our ego, by telling us: “Prepare something for me to eat. Put on your apron and wait on me while I eat and drink. You may eat and drink when I am finished.” That means:
Do not serve your ego first, but let your ego go…. And serve a bigger Self. “Seek first his kingdom and his righteousness, and all these things will be given to you as well.” (Mat 6:33) All things will be given, even your “own” self!
In our mind and from our standpoint of view, we consider ourselves “doers” (more or less) in the situations of life. We claim to be able to control circumstances, other people, ourselves and even God.
We tend to get things work out for “our” good. And when we pray, we want God at our disposal and be effective. Everything must go, revolving around our ego. The only real “actor” in this game, it’s me.
Jesus is asking his apostles to do the impossible, that is to let go of their inflated ego. “Be uprooted and planted in the sea.” In his Christmas Homily, Saint Gregory of Nazianzus speaks of God as some great Sea of Being, limitless and unbounded, transcending all contents and limitations.
Jesus is pointing to the apostles and to us to be focused on that great Sea of Divine Love, to be planted, to dwell in the Spirit who is the power working in us and in all things: a creative energy that empowers us to live any circumstance and situation of life with the same power of God. “We know that in all things God works for the good of those who love him.” (Rom 8:28)
The Spirit dwells in us and has kept us “alive”, especially in the time of Covid-19.
The Spirit is active in us and shakes the ground of our standpoint. Jesus let the stinking air out of our comfort-zone and breathes into us the freshness of His Spirit.
It is not enough to “believe in God” (increase our faith!) We are called to “live in God”. And live in a lighter way, a Little Way. “When you give to the needy, do not let your left hand know what your right hand is doing, so that your giving may be in secret. Then your father, who sees what is done in secret, will reward you.” (Matthew 6:3-4)
A vibrant young Jewish woman who lived in Nazi-occupied Amsterdam in the early 1940s and died in Auschwitz in 1943, Etty Hillesum, wrote in her diaries her religious awakening. In one of her lines, Etty expresses the spiritual transformation she underwent.
“There is a really deep well inside me. And in it dwells God. Often stones and grit block the well, and God is buried beneath. Then He must be dug out again.
“Dear God – she continues – these are anxious times. I shall promise You one thing: I shall never burden my today with cares about my tomorrow, although that takes some practice. Each day is sufficient unto itself. I shall try to help You, God. All that really matters is that we safeguard that little piece of You, God, in ourselves. And perhaps in others as well.
(Etty Hillesum, An Interrupted Life and Letters from Westerbork (New York: Henry Holt & Company, 1996), 178-179.)
“Quanto tempo ancora, o Signore? Chiedo aiuto, ma tu non mi ascolti! Ti grido: ‘Violenza!’ ma tu non intervieni. Perché mi fai vedere la rovina; perché devo guardare alla miseria? (Abacuc)
Perché Dio non interviene? Dove sei Dio?
“Una feroce tempesta aveva colpito una delle città lì e, in seguito, un uomo si era arrampicato sul suo tetto per sfuggire alle inondazioni. Mentre era seduto lì, qualcuno su una canoa passò e si offrì di portarlo in salvo. ‘No, grazie’, rispose l’uomo. ‘Dio mi salverà’. L’uomo si allontanò e le acque continuarono a salire.
Poco dopo, qualcuno su una barca si fermò per offrire aiuto. ‘No, grazie’, disse di nuovo l’uomo. ‘Dio mi libererà’. Le acque si alzarono più in alto. Alla fine, arrivò un elicottero della Guardia Costiera; qualcuno con un megafono si offrì di far cadere una scala. ‘No, grazie’, disse l’uomo per l’ultima volta. “Ho pregato Dio di salvarmi”.
L’elicottero andò via, le acque inghiottirono il tetto della casa e l’uomo morì annegato. Quando l’uomo arrivò in cielo, chiese confuso: ‘Che cosa è successo, Dio? Perché non mi hai salvato?’
Dio rispose: ‘Ti ho mandato una canoa, una barca e un elicottero. Cosa volevi di più?’”
Dio è intervenuto?
Un’altra storia, una storia sufi, recita così:
“Un uomo fu sopraffatto da tutto il dolore e la sofferenza che vedeva intorno a sé. E così, innalzò il suo grido a Dio. ‘Guarda tutta questa sofferenza e violenza. Guarda tutti questi omicidi e queste tragedie. O mio Dio, perché non sei intervenuto?’. Allora Dio gli disse: ‘Ma io avevo mandato te!’”
In entrambe le storie abbiamo a che fare con persone, molto religiose, ma disintegrate nella loro vita. “Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”.
Il verbo ebraico che identifica “colui che non ha l’animo retto” עפל (‘aphal) significa “gonfiarsi”. Chi è il temerario, l’ingiusto? Qualcuno che si vanta, si gonfia.
In entrambe le storie c’è qualcuno, il cui ego è così gonfio di sé che vuole che tutto ruoti attorno a sé. Pensa e agisce come il grande “attore” della realtà. E Dio deve essere al suo servizio.
Nel vangelo di oggi, ci viene detto che gli apostoli chiesero al Signore: “Aumenta la nostra fede”. È la richiesta di essere “gonfiati”. E Gesù non tarda a rispondere, ma subito dice: “Se aveste fede grande quanto un granello di senape”.
Il contrasto tra “aumentare, potenziare, amplificare, gonfiare” e la risposta di Gesù è incredibile! Pensa a te stesso come a un seme di senape, e poi immaginati come un santo.
Oggi ricordiamo Teresa di Lisieux. Scrive nel suo diario: “è sempre stato un mio desiderio farmi santa, ma ho sempre sentito, confrontandomi con i santi, che sono lontana da loro come il granello di sabbia che chi passa calpesta”. Questa è la “Piccola Via”, un approccio semplice alla vita spirituale che cerca di fare le cose ordinarie piantati nell’amore traboccante e infinito di Dio.
La fede – per la quale viviamo – è come un granello di senape o di sabbia. Le parole di Gesù non suggeriscono alcun tipo di falsa umiltà. Dopo che abbiamo fatto tutto ciò che ci è stato comandato, non siamo affatto contenti di sentirci dire “sei un servo inutile”. Ogni volta che aiutiamo qualcuno, ogni volta che facciamo un atto di carità cristiana, o serviamo in parrocchia, cosa ci aspettiamo di sentirci dire? Aspettiamo un complimento, un riconoscimento pubblico. Ci aspettiamo di essere ringraziati per quello che abbiamo fatto.
E Gesù dice ai suoi apostoli: “Avete fatto quello che dovevate fare”. Gesù non è scortese comportandosi così? Sembrerebbe ingrato. Ci vuole forse umiliare?
Gesù sta semplicemente rimpicciolendo il nostro ego e lo fa dicendoci: “Preparatemi qualcosa da mangiare. Mettiti il grembiule e aspetta prima che mangio e bevo io e poi mangia e bevi tu, quando avrò finito”. Questo significa: Non servire prima il tuo ego, ma lascia andare il tuo ego… E mettiti al servizio di un Sé più grande. “Cerca prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose saranno date anche a te”. (Mt 6:33) Tutto sarà dato a te, anche il “tuo” ego!
Nella nostra mente e dal nostro punto di vista, ci consideriamo “attori” (più o meno) nelle situazioni della vita. Pensiamo di essere in grado di controllare le circostanze, le altre persone, noi stessi e persino Dio.
Tendiamo a far funzionare le cose per il “nostro” bene. E quando preghiamo, vogliamo che Dio sia a nostra disposizione e sia efficace. Tutto deve andare, ruotando attorno al nostro ego. L’unico vero “attore” in questo gioco, sono io e sempre “io”.
Gesù chiede ai suoi apostoli di fare l’impossibile, cioè di lasciar andare il loro ego gonfiato. “Sii sradicato e piantato nel mare”. Nella sua Omelia di Natale, san Gregorio di Nazianzo parla di Dio come di un grande mare dell’essere, illimitato e sconfinato, che trascende ogni contenuto e limite.
Gesù sta indicando agli apostoli e a noi di porre la nostra attenzione a quel grande oceano dell’amore divino e di lasciarci radicare, immergerci in questo infinito abbraccio di Dio, per dimorare così nello Spirito che è la forza che opera in noi e in tutte le cose: un’energia creativa che ci fa vivere in qualsiasi circostanza e situazione di vita con la stessa potenza di Dio. “Sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. (Rom 8,28)
Lo Spirito è attivo in noi e scuote il terreno sotto ai nostri piedi. Gesù fa uscire l’aria puzzolente dalla nostra zona di comfort e inspira in noi la freschezza del suo Spirito.
Non basta “credere in Dio” (aumenta la nostra fede!). Siamo chiamati a “vivere in Dio”. E vivere in modo più leggero, una Piccola Via. “Quando dai al bisognoso, non far sapere alla tua sinistra quello che fa la tua destra, perché il tuo dare rimanga in segreto. Allora il padre tuo, che vedenel segreto, ti ricompenserà». (Mt 6,3-4)
Una giovane donna ebrea che visse ad Amsterdam quando era stata occupata dai nazisti all’inizio degli anni ’40, venne deportata e morì ad Auschwitz nel 1943. Si chiamava Etty Hillesum. Scrisse così nei suoi diari il granellino di senape, la sua Piccola via. “C’è un pozzo davvero profondo dentro di me. E in essa abita Dio. Spesso pietre e massi bloccano il pozzo, e Dio è sepolto sotto. Ma deve essere di nuovo disseppellito”.
“Caro Dio – continua – questi sono tempi ansiosi. Ti prometto una cosa: non appesantirò mai il mio oggi con preoccupazioni per il mio domani, anche se questo richiede un po’ di pratica. Ogni giorno basta a se stesso. Cercherò di aiutarti, Dio. L’unica cosa che conta davvero è custodire quel piccolo pezzo di Te, o Dio, in noi stessi. E forse anche in altri”.
Così mi ha chiesto una cara persona che da un po’ di tempo ha ripreso a credere, ma con grosse difficoltà.
Le ho risposto: Tradito da Dio? Sì… ma dall’immagine che di Dio mi ero e mi son fatto. La mia esperienza è che passo fasi della mia crescita spirituale, in cui mi sento “dis-integrare” e dico: “Signore, perché mi stai facendo questo?”…
Ma questo è “un modo” di rapportarmi a ciò/colui che è Mistero che sempre meno mi appartiene. In questa fase della mia vita spirituale, mi accorgo che non desidero più attribuire a Dio “tradimenti” o “interventi” divini, ma preferisco attribuire alla mia crescita umana dinamiche di passaggio dall’ego (San Paolo direbbe “carne”) al “trans-ego” (San Paolo direbbe “spirito”). Questo dover “passare” ( = PASQUA), questo sì mi disintegra nel “mio io”… tuttavia, mi trans-forma in “Dio”…
Tradimento? Forse sì, ma nel suo senso etimologico di “tradere”, cioè consegnare, abbandonar-si. Mi consegno al mistero. Il Mistero “mi tradisce” nel senso che mi rende capace di abbandonarmi: essere consegnato, cioè “tradito” al flusso vitale delle cose.
Noi siamo l’immagine di Dio. La nostra umanità riflette la divinità di Dio. Dio si fa conoscere nella umanità di chi noi siamo. Pertanto, conoscere noi stessi, la nostra umanità vuol dire conoscere Dio, chi è Dio. Tuttavia, è conoscerlo nella sua riflessione in noi. Come la luce (divinità) del sole (Dio) non può essere “direttamente” osservata ma solo la sua riflessione in un oggetto, per esempio la luna (l’umanità creata), così Dio può essere conosciuto solo “attraverso/nella” nostra creaturalità.
Come ti comprendi, così comprendi Dio; come comprendi Dio, così ti comprendi. L’immagine che abbiamo di Dio dipende dal come ci comprendiamo, poiché noi siamo “immagine” di Dio, la sua riflessione che “attraverso/in” noi si dà a conoscere. Ovvero, io sono già da sempre “immagine-di-Dio” (genitivo soggettivo), la “Sua” immagine, luce da luce, Dio vero da Dio vero, che “si” comprende attraverso/in la creaturalità umana di cui siamo nel corso della mia vita e della storia dell’umanità.
In questa successiva comprensione della immagine di Dio (gen. sogg.) cioè comprendendo – per mezzo della nostra creaturalità – la riflessione divina, vengo a conoscere “Dio” nella immagine che di Dio si fa la creatura: conosco così l’immagine di Dio (gen. ogg.), cioè la riflessione divina riflessa nella mia comprensione di essa.
È a questa successiva fase della riflessione – chiamerei secondaria – che entra in gioco la possibilità di distorsione, confusione, tradimento, perversione della immagine originaria di Dio. Ciò che comunemente nella Bibbia viene indicato come “peccato”. Ovvero, l’uomo può comprendersi in modo distorto e confuso, perfino perverso, e di conseguenza anche Dio viene in tal modo compreso. Nella Bibbia, quindi, sono presenti rappresentazioni e comprensioni di Dio che sono “peccaminose”, distorte e false. Tuttavia, sono immagini queste che gli scrittori sacri della Bibbia hanno utilizzato per comprendere se stessi e la propria storia. Un esempio: il Dio vendicativo che premia i buoni e condanna i cattivi corrisponde perfettamente all’immagine che l’uomo biblico ha di sé determinato dalla legge del “do ut des”. Se fai il bene sei premiato, se fai il male sei punito. Così in terra e così in cielo.
La Bibbia è la memoria di questa storia dell’auto-comprensione del popolo come “immagine-di-Dio” (gen. sogg.), attraverso varie fasi del cammino alla piena umanità di sé. La crescita nella comprensione della umanità propria e universale ha influito nella comprensione della “rivelazione-di/Dio”. Non è Dio che si è rivelato “a tappe” nella storia di Israele, rivelandosi con volti diversi e sempre più umani, ma è il popolo di Israele – e Gesù di Nazareth è membro di questo popolo- che attraverso le tappe della propria crescita è giunto a conoscere sé e il Suo Dio come una cosa sola. La comprensione che Gesù aveva della sua umanità, “figlio-di-Dio”, riflessione nitida e trasparente della riflessione divina, ha fatto sì che il volto di Dio venisse rischiarato e purificato dalle immagini perverse e peccaminose – propagate in nome della religione e della tradizione – l’originaria benedizione del creato.
“Filippo disse a Gesù: ‘Signore, mostraci il Padre e ci basta’. Gli rispose Gesù: ‘Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse’” (Gv 14, 8-11).
La dottrina trinitaria, quindi, è la metaforica espressione – attraverso immagini come Padre, Figlio e Spirito Santo – di questa radicale ed essenziale realtà di Dio. Dio è la Sua immagine e noi siamo questa Sua immagine con tutte le creature. Dio vero da Dio vero, luce da luce.
Non possiamo conoscere il mondo come è in se stesso. Ciò che noi conosciamo è l’aspetto fenomenico.
La fisicalità del mondo è ciò che noi conosciamo della nostra esperienza del mondo attraverso delle rappresentazioni percettive.
Questi fenomeni rappresentano le interazioni del mondo.
I fenomeni del mondo o contenuti (rappresentazioni) di esperienza – non hanno esistenza indipendente.
I contenuti di esperienza “sono” perché esperiti e rappresentati. Non esistono fenomeni al di fuori dell’esperienza. Così come non ci sono colori al di fuori della luce.
Massa, energia, moto non sono proprietà indipendenti della materia ma rappresentazioni delle qinter-azioni tra i fenomeni o contenuti di esperienza.
Non si dà esperienza di un mondo “esterno” indipendente dall’esperienza che ne abbiamo. Ciò sarebbe incoerente. La distinzione “interno” (mente che conosce) ed “esterno” (mondo che la mente conosce) è una astrazione dall’immediata esperienza che si dà un mondo. Io sono mondo.
La fisicalità del mondo rinvia all’apparire e all’esperienza del mondo ma non alla natura del mondo.
La realtà ultima del mondo per sua definizione non può essere fisica, poiché ciò che è fisico è rappresentazione dell’esperienza e questa è condizionata dalla consapevolezza che sperimentiamo qualcosa.
L’immediata consapevolezza che sperimentiamo qualcosa è il riflesso della pura consapevolezza che avvolge e permea ogni cosa e rende possibile l’apparire di un mondo.
Il mondo non è consapevole ma sussiste nella pura consapevolezza. La consapevolezza cosmica – dunque – è il riflesso della consapevolezza assoluta, detta in altri termini Mente di Dio o Pura Consapevolezza.
La Mente di Dio (metafora) è come il sole, mentre il cosmo (dall’inorganico al senziente, al cosciente e all’autocosciente) è come la luna che riflette la luce (consapevolezza, spirito di Dio). La luce delle cose non è “propria” ma “donata” o “creata”. Per questo Genesi (1,3) dice che la prima cosa creata fu la Luce.
Le cose non sono lucenti o consapevoli in se stesse ma “sono” nella Mente di Dio, nello Spirito di Dio. Il loro essere è “ek-sistere”. Essenza partecipata.
La luce che il mondo riflette e la consapevolezza che la mente avverte e percepisce anche nella meditazione sono il riflesso della Pura Consapevolezza.
“Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto” (1Cor 13,12). “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Nel compimento escatologico (risurrezione o risveglio) passeremo dalla riflessione speculare alla visione “faccia a faccia”, anzi – come dice il discepolo amato – diventeremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è. Lui e noi una cosa sola.
Carlo Rovelli ha riconosciuto ormai da trenta anni che le cose fisiche, le entità fisiche non hanno un’esistenza autonoma non sono assoluti, ma sono create dalla misurazione.
Le cose non c’erano prima che vengono misurate. Tuttavia, il fisico teorico Rovelli non accetta l’idea che vi sia uno strato “non fisico” di realtà sottostante quello fisico, perché per lui la fisicità è tutto ciò che c’è. Quindi se la fisicità è tutta relativa, allora non ci può essere qualcosa oltre la relatività fisica delle interazioni. Non c’è “qualcosa” a cui si riferisce la relatività, non c’è una sostanza. Seguendo il filosofo buddista Nagarjuna, Rovelli afferma che dietro alla relatività delle interazioni c’è … nulla. È il principio dell’anatta, impermanenza della sostanza, del soggetto. L’intera realtà è relativa e processualità, in movimento, senza che ci sia “qualcosa-che” si muova.
Secondo Bernardo Kastrup questo assunto di Rovelli è “incoerente”. Come può muoversi qualcosa se non c’è ciò/chi si muove? Come si può dire che c’è interazione senza che ci siano soggetti che inter-agiscono? Queste sono le due obiezioni fondamentali che Kastrup presenta alla teoria relazionale della Fisica Quantistica di Rovelli. Questa visione “rovelliana” trova nel pensiero di Nagarjuna – monaco buddista del III d.C. – un punto di appoggio fondamentale. Il nulla alla base della relatività. Teniamo ben presente che non è il nulla inteso come “vuoto” (grembo delle potenzialità). È il nulla nel senso radicale. Se la realtà, le cose sono nodi di inter-azioni, nel momento che “sciogli” il nodo dalle interazioni, non c’è più nulla.
Nel pensiero di Rovelli, quindi, ci sarebbe una commistione di fisica (quantistica), filosofia e spiritualità. Secondo Kastrup, Rovelli usa indebitamente e male la filosofia (cfr. le incoerenze filosofiche della sua teoria) e la spiritualità “di Nagarjuna per giustificare il fisicalismo della sua teoria relazionale. Tale commistione indebolisce la posizione di Rovelli nel punto centrale: Qual è la natura della realtà?
I tre approcci – scienza, filosofia e spiritualità – servono a Rovelli per confermare il proprio pregiudizio fisicalista, saltando da una barca all’altra. Mi sembra condivisile la critica di Kastrup su questo punto. Anch’io confermo questo quando dialogo con i cosiddetti scienziati che noncuranti dei loro pregiudizi “metafisici” accusano i filosofi di essere “astratti” e “pregiudiziali”. Almeno i metafisici giocano allo scoperto; questi scienziati nascondono i loro pregiudizi. Il metodo della scienza è sperimentale; della filosofia è teorica; della spiritualità è introspettiva. I tre metodi vanno distinti, benché intendano un’unica e medesima realtà.
A Bernardo Kastrup direi che la realtà assoluta “meta-fisica” non è sostanza (soggetto), ma relatività assoluta, mentre l’“inter-azione” ne è l’espressione “fisica”. I soggetti (relata) emergono dalla connettività relativa che è consapevolezza. La Mente ovvero Logos è legein, connessione, pura relazionalità. La relatività assoluta (accessibile all’indagine e ricerca filosofica e metafisica) si esprime nell’interazione (accessibile all’esperienza “esterna” e “quantificabile” della ricerca scientifica) e nella conoscenza di sé (accessibile all’introspezione) e del Sé cosmico o Mente divina (accessibile nella meditazione e contemplazione).
What is the Will of God? What does it mean that something or event is the Will of God?
First of all, it is good to affirm that the Will of God does not imply a passive or reactive attitude on our side but a pro-active one.
What “happens” is always ambiguous, I would say “neutral” in the determination of God’s will. Whether this or that is God’s will, whether this event or that event is God’s will, is not decided regardless of the subject that relates to this or that, this event or that event.
If my mom dies or I win a competition, it is not the event “in itself” – whether it be positive or negative – “God’s will”. I repeat: it is not the objectivity of something that has in itself the qualification of “God’s will”. Not even the a priori affirmation that all that is positive (the Good) is the Will of God while the negative is not. For example: saying that death was not and is not God’s will has no sense. What happens, is. It is neither good nor bad.
Something or event is good or bad always referring-to and “in-relation-to” something else, that is, to a knowing and willing subject with its intentionality.
An event or something is good, because it is assumed in an act of intentionality towards the good, within a benevolent project. Whether raining is a good event depends on my intentional project for that day, but it is not good in itself. It’s good-for-me-now.
The same is true when we affirm that something or event is the Will of God. It is not the event which in itself is the Will of God but the “relationship” between “me” and that “something”. I repeat: between “my” subjectivity and something objective (in general: the world). Therefore, the relationship between “God” and “something / event” is not “immediately” given. The relationship between God and the world (this or that event, this or that thing) is “known” or “revealed” always and in any case through the mediation of “my / our” subjectivity.
It is I (or we) who “discover” the Will of God in something or event when I assume what I live or happens around me into the intentionality of the Good, the Gospel or the Kingdom of God. To put more clearly. If my mother dies or I win a competition, these events are not already in themselves “God’s will” but they become “God’s Will” when I discover in them the possibilities of Good (indeed, of a greater good “Magis”) and an opportunity for loving more. How can I love more here and now, in this current situation? Is it God’s Will that I marry or become a priest, religious, or remain single? When I ask myself these questions it is not a question of guessing what God ever wanted when he created me. Instead, it is a question of becoming aware of one’s life-in-the-world and looking at it as a possibility towards a greater good than the actual reality, so that what is revealed as a simple matter of “fact” becomes “the act of giving oneself”. To discover the will of God means to become co-creator of God in the various situations of life.
Is my mom dead? Is it God’s will that she died? Such question makes no sense, since my mother’s death “becomes” God’s Will only when I discover in this event a possibility to act according to my intentionality towards the Good. I know what good means – for example – by reading the Gospel, studying the world, researching with reason and relying on the Good that sustains everything, that is, trusting God.
The will of God, therefore, is a pro-active (non-reactive) response of my subjectivity in which I become “co-creator” with God, transforming events, situations and things into God’s original Project.