La verità ariana dell’homo”i”ousia

Battistero degli Ariani (Ravenna)

Come si distingue l’esistenza del Verbo eterno in Dio dall’esistenza delle cose “pensate” da Dio dall’eternità?

Una prima ed immediata risposta sarebbe che il Verbo esiste dall’eternità, mentre le idee di Dio sono dall’eternità solo nel pensiero ma non nella realtà. Senza l’atto creativo non sarebbero queste idee divine “reali” ma solo “ideali”. Dunque, sembrerebbe che si tratti di un passaggio dall’esistenza “ideale” a quella “reale” che avviene per causa efficiente divina, mentre il Figlio Unigenito esiste “realmente” in Dio dall’eternità. Il Figlio, infatti, è “generato” non creato.

A tale immediata risposta vorrei offrire delle considerazioni. Innanzitutto, non si può dire che ci sia un passaggio dall’esistenza “ideale” delle cose in Dio all’esistenza “reale” delle cose “fuori di Dio”. Non si tratta di un passaggio di Dio, del suo atto creativo, per cui “ad un certo punto” nell’eternità Dio dà all’esistenza “ideale” delle cose in Dio anche l’esistenza “reale” in virtù della causa efficiente. No! Ciò vorrebbe dire che in Dio ci sarebbe un prima e un dopo. Dio è immutabile. L’atto di creare è la sua stessa essenza.

L’esistenza “ideale” delle cose è la condizione in cui le cose esistono “secondo Dio”, dalla sua prospettiva. Ciò che è “esistenza ideale” per Dio è “secondo la creatura”, dalla nostra prospettiva, “esistenza reale”.  Affermare che le cose esistono in Dio in modo ideale non significa che sono delle pure idee senza consistenza. Che esistano idealmente significa che sono “in Dio” e lo sono realmente in quanto una cosa sola con l’essenza divina che è la Somma realtà.

Benché siano ideali, le cose sono ben reali per Dio ma non in quanto lo siano “in se stesse”. Lo sono “reali” in quanto “in Dio”. Per Dio, le cose ideali “in se stesse” sono un puro “nulla”, cioè non aggiungono “nulla” all’essere di Dio.

Al Verbo divino, quindi, si attribuisce un’esistenza “ideale”, e questa è “reale” per Dio in quanto è “in Dio” stesso. Anche del Verbo bisogna dire che “in se stesso” è un puro nulla, cioè non aggiunge “nulla” all’essere di Dio. Non abbiamo, infatti, due Dio: ciò sarebbe un assurdo (non ci sono due assoluti!), e sarebbe contro la fede cristiana. Il Verbo è “immagine” del Padre e l’essere dell’immagine è di totale dipendenza dal Padre (fons totius divinitatis). Tale affermazione non contraddice il canone di Nicea (325) che afferma:

“A riguardo di quelli che dicono che c’era un tempo quando Egli non c’era, e prima di essere generato non c’era, e che affermano che è stato fatto dal nulla o da un’altra sostanza o essenza, o che il Figlio di Dio è una creatura, o alterabile o mutevole, la santa cattolica e apostolica Chiesa li anatematizza”.

Il nulla di cui parla il canone in questione è quello legato al tempo e quindi alla creaturalità. Si fa riferimento al nulla da cui le cose create provengono, a differenza del Figlio che proviene dalla sostanza del Padre. Ora il “nulla” da cui proverrebbe il Figlio (se inteso come creato) non è “qualcosa” da cui il creato proviene. Si fa, quindi, riferimento sempre alla sostanza del Padre da cui proviene il Figlio. Il Figlio è “immagine” del Padre ed è “dal nulla” solo per dire che l’immagine – che è il Figlio – non è un altro “dio” ma lo stesso Dio. L’immagine, cioè, dipende totalmente e radicalmente dal Padre. In se stessa l’immagine non ha e non è “nulla”. Come il raggio di luce non è “nulla” senza la sua sorgente. In questo, mi sento molto più vicino ad Acacio di Cesarea, vescovo ariano di lingua greca,  e alla sua formula dell’homoiusia piuttosto che della homousia del Concilio di Nicea, cioè che il Figlio è l’immagine del Padre. Il Figlio è Dio secondo l’immagine (katà eikóna)

Solo dalla prospettiva dell’immagine (genitivo soggettivo), possiamo dire che c’è “idealmente” un prima (che non c’era) e un dopo (che non ci sarà più). Dal nulla verso il nulla. Poiché l’immagine è “generata” significa che essa è “diveniente”. Astrattamente (cioè separata da “Dio”) l’immagine è qualcosa che è scaturita dal nulla (un tempo in cui il Figlio non c’era). Ma questo è la “mente” che astrae, cioè separa, l’ente dall’Essere, l’Immagine dall’Assoluto.

In conclusione. “Generato” e “creato” non si predicano del Figlio Unigenito (in Dio) e del Figlio incarnato (fuori di Dio). Nulla è “fuori di Dio” né le cose create e nemmeno l’immagine di Dio. “Generato” e “creato” non sono due modi d’essere ma di conoscere. “Quidquid in Deo, est Deus” (Alano di Lilla, Regulae theologicae). Tutto è divino, poiché tutto è “in Dio”. Noi siamo “consustanziali al Padre” nel Figlio, e lo siamo realmente. In quanto creato e vero uomo, Gesù è veramente Dio. Così anche noi.

Post-teismo e il figlio assente

Vorrei rileggere la parabola di Luca 15,11-32. Chiamerei questa parabola: la parabola del “terzo” figlio o del figlio “assente”. Conosciamo bene la parabola.

Ci sono due figli: il minore e il maggiore. Nel contesto lucano, questi due figli rappresentano l’uno “i pagani” e il Maggiore “il popolo eletto”. Tutte e due sono “figli” del Padre. Tutti e due sono già “nella casa” del Padre. Ma non ne sono “consapevoli”. Ci sono nella casa, ma non lo sanno. Il figlio più giovane lascia la casa del Padre, perché vuole avere per sé ciò che la sua eredità. Il Padre divide le sue sostanze. È la sostanza (τὴν οὐσίαν) del Padre che viene divisa in parte eque.

Questo momento di “appropriazione” della sostanza del Padre – da parte del figlio “minore” – è paragonabile alla fase di “uscita” dal ventre materno/paterno della casa. È l’ateismo: il rifiuto di Dio (Padre); mentre il “teismo” è paragonabile al modo con cui il figlio “maggiore” della parabola vede e comprende “(Dio) Padre”.

Il figlio minore comprende nella lontananza che gli manca il “(Dio) Padre” e ritorna a casa, potremmo dire: accetta di ritornare al “teismo” che aveva abbandonato da giovane. Riconosce di aver sbagliato, e non è degno di essere chiamato “figlio”. È interessante che il figlio minore “scopre” di essere “figlio” nella condizione di “non-figlio” (cioè servo di un padrone che lo manda a pascolare i porci).

Con questa idea di Dio, il figlio minore ritorna a “suo” Padre: un Dio Padre-padrone, forse più buono, perché con lui si sta meglio rispetto allo stare con in Dio padrone. Ma il Padre della parabola, “suo” Padre non si lascia definire secondo l’esperienza che il figlio minore ha fatto di Dio. Il Padre della parabola non è teista! Perché? Il Padre della Parabola è interessato solo ad una cosa: alla “vita” di suo figlio. Il Padre è amante della vita e fa fare al figlio minore l’esperienza che lui è “suo” Padre perché è amante della “vita” del figlio, non geloso delle sue sostanze o dei suoi diritti, come se il Padre dicesse: “io ho i miei diritti di Padre che tu, figlio, hai violato: ora devi espiare il tuo peccato”. Nulla di tutto questo.

Ora il figlio minore è divenuto consapevole ormai di ciò che il Padre della parabola dirà a lì a poco al figlio maggiore: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15,31). Tanto al figlio “maggiore” quanto al figlio “minore” il Padre riconosce che “tutto” è di colui che è figlio.  πάντα τὰ ἐμὰ σά.

Identifico questo “tutto” non solo con il dono della figliolanza, ma con la stessa sostanza del Padre: i due figli sono “consustanziali” al Padre.  Tutto ciò che è del Padre, è del Figlio. Cosa è mai questo tutto? È la “vita”.

Il “terzo” figlio della parabola, o il figlio “assente” non è altro che un modo per indicare l’esperienza che Gesù ha fatto di Dio come “Padre” ed espressa nel suo “Inno di lode” (Lc 10,21-22):

“Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. Gesù, quindi, è colui che è “consapevole” di ciò che è: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15,31).

Gesù è il figlio “assente” nella parabola di Luca 15, nel senso che ciascuno di noi è chiamato a divenire la “presenza consapevole” di questo figlio, come Gesù, perché facciamo l’esperienza della divinità che siamo. Per divenire consapevoli della “nostra” divinità siamo chiamati a dis-appropriarci del “mio”, “tuo”, e del “nostro”. Diventare “piccoli”, “umili” e “semplici” così come è la divinità del Padre.

La semplicità nello stare nella divinità è fonte di vita.