Generato e creato

La proposta di un Monismo relativo nasce dall’esigenza di pensare insieme l’unicità assoluta di Cristo e il rapporto ontologico del Logos con l’intera realtà, senza cadere né in un dualismo creatore-creatura rigido né in un panteismo livellante. In questa prospettiva il Logos non è semplicemente un principio esterno che crea il mondo e poi, in un secondo momento, entra in esso attraverso l’incarnazione, ma è il principio stesso dell’essere di tutto ciò che esiste. Nulla è fuori dal Logos, perché tutto ciò che è, è tale solo in quanto partecipa del Logos. Tuttavia, questa partecipazione non è uniforme né esclusiva: essa si dà secondo gradi reali di ricezione, intensità e trasparenza.

Il punto decisivo di questa impostazione è la distinzione tra partecipazione e identità personale. Tutto il creato è Logos per partecipazione, nel senso che riceve l’essere, la forma e la verità dal Logos e in esso sussiste. Da qui deriva il principio dell’unicità della pienezza. La pienezza dell’identificazione non può darsi che una sola volta, perché due pienezze sarebbero una contraddizione ontologica. La pienezza non è moltiplicabile: o è totale, o non lo è. Per questo Gesù è l’unico luogo in cui il Logos si dà pienamente, mentre ogni altra forma di presenza del Logos non è totale, vera ma non definitiva. In Gesù di Nazareth la pienezza della partecipazione è tale che si può dire che Gesù è Logos per identità personale. Gesù è il punto in cui il Logos è pienamente realizzato e raggiunge il suo massimo possibile.

La materia riceve il Logos in modo minimo, la vita in modo più articolato, la coscienza in modo riflessivo, l’umanità in modo simbolico e libero. In Gesù questo processo giunge alla sua saturazione: la ricezione diventa identità, la partecipazione diventa coincidenza personale. In questo senso tutto è cristologico. Va però affermato che l’identità di Gesù come Cristo è realizzata personalmente, non lo è ancora a livello di personalizzazione cosmica.  L’affermazione del Cristo cosmico esige di comprendere Gesù con tutto il creato, in cammino verso la definitiva ed escatologica risurrezione finale: ciò che la fede cristiana chiama la Seconda Venuta di Cristo e che consiste nel compimento creaturale della ricezione del Verbo.

L’incarnazione, letta da questa prospettiva, non è un intervento isolato o una rottura ontologica nella storia del mondo, ma l’evento in cui ciò che è sempre stato vero in modo diffuso e incompiuto giunge a concentrazione e chiarezza assoluta. Gesù non introduce il Logos nel mondo, perché il mondo è già da sempre nel Logos; Gesù rende manifesto, personale e visibile ciò che nel mondo era reale ma non pienamente espresso. L’evento cristologico è quindi unico non perché arbitrario, ma perché strutturalmente necessario.

Da qui segue una concezione della salvezza come intensificazione ontologica più che come intervento esterno. Essere salvati significa partecipare in modo crescente alla forma del Logos, lasciarsi attrarre verso la pienezza che si è data una sola volta ma che irradia su tutto il reale. Nessuna creatura può diventare Cristo in senso personale, perché la pienezza non è duplicabile; ma ogni creatura può diventare più conforme al Logos, più trasparente alla sua verità, più vicina alla forma piena che in Gesù si è realizzata senza residui.

Questo Monismo è relativo perché non elimina le differenze e il divenire storico.  È Monismo perché afferma un solo principio ultimo dell’essere; è cristologico perché quel principio ha un volto personale e storico; è trans-personale perché riconosce che l’identificazione piena è singolarmente unica in Gesù di Nazareth ma ancora incompiuta a livello della personalità corporativa di Cristo.

L’Orazione di Quiete e la Pratica della Presenza

La preghiera è un po’ come il nuotare. Posso descrivere l’acqua, spiegare da cosa è composta, ma la sensazione dell’acqua la si conosce solo entrando in acqua e nuotando. Allo stesso modo, la preghiera non si comprende davvero finché non la si pratica.

Durante un ritiro che ho vissuto in un’abbazia benedettina nel nord Italia, mi ha colpito l’immagine di un piccolo ruscello. L’acqua era sempre la stessa, eppure cambiava continuamente forma, adattandosi al terreno su cui scorre. Questa immagine ci aiuta a comprendere la preghiera: ciò che è essenziale resta, ma assume forme diverse a seconda del cammino, delle stagioni della vita, delle persone.

“Ho abbandonato tutte le forme di devozione e le preghiere stabilite, tranne quelle a cui mi obbliga il mio stato. Mi occupo solo di perseverare nella Sua santa presenza, nella quale mi mantengo con una semplice attenzione e un affetto generale per DIO, che posso chiamare una vera e propria presenza di DIO; o, per meglio dire, una conversazione abituale, silenziosa e segreta dell’anima con DIO” (Fratello Lorenzo. La pratica della presenza di Dio, 29).

Che cosa intende per “presenza di Dio”? Egli stesso lo spiega: è una semplice attenzione, un affetto generale per Dio, una conversazione abituale, silenziosa e segreta dell’anima con Lui. La presenza di Dio non è qualcosa da cercare altrove: Dio è presente là dove io sono presente. La mia attenzione è già il luogo della sua presenza.

Quante volte, nella vita, ciascuno di noi ha vissuto momenti di dialogo silenzioso con Dio: nella gioia, nel dolore, nella delusione, nella crisi. Non servono molte parole. È una conversazione che nasce dal volgersi verso Dio, dall’essere attenti, dal restare.

L’orazione di quiete, di cui parlano i grandi maestri spirituali, non è una fuga dal mondo, ma un modo di abitare il presente. Non dipende dal silenzio esterno, perché spesso anche nei luoghi più ideali arrivano le distrazioni. Ho sperimentato anch’io come il cercare condizioni perfette – silenzio, natura, isolamento – non garantisca affatto la pace interiore. La vera pace nasce dal perseverare nella presenza, qualunque cosa accada.

La tradizione spirituale, sia cristiana sia orientale, converge su questo punto essenziale: attenzione, silenzio, presenza. Non si tratta di moltiplicare parole o immagini, ma di semplificare la propria pratica di preghiera. L’anima, come diceva sant’Agostino, desidera la quiete. L’orazione di quiete non crea qualcosa di nuovo: ci riporta allo stato originario, a ciò per cui siamo stati creati.

Essere presenti è difficile. La nostra mente è spesso divisa tra passato e futuro. Eppure, l’unico tempo reale è il presente. Anche nella preghiera non si tratta di “riuscire”, ma di tornare continuamente al respiro, alle sensazioni del corpo, all’attenzione. Ogni volta che mi distraggo e ritorno al respiro, alle sensazioni del corpo e all’attenzione, approfondisco la preghiera.

Vorrei allora suggerire una pratica molto semplice: fermarsi cinque minuti, sedersi, respirare lentamente. Inspirare ed espirare con consapevolezza. Senza bisogno di parole, senza spiegare a Dio ciò che già Egli conosce. Restare. Dire interiormente: “Eccomi”. Questo è pregare.

A questo punto nasce una domanda decisiva: c’è più di Dio nel tabernacolo o nella tua anima? La tradizione cristiana è chiara: Dio abita nell’anima, totalmente. Il problema è il velo della mente che ci impedisce di accorgercene. Ciò che sentiamo andare e venire non è Dio, ma il nostro sentire, il nostro pensare. La presenza, invece, resta.

La vita spirituale cresce come cresce la vita umana. Passiamo attraverso fasi: dipendenza dagli altri, relazione riuscite, crisi, maturità. Anche l’immagine di Dio cambia. Ogni immagine di Dio che perdiamo, è segno di trasformazione. Le crisi non sono segni di fallimento, ma passaggi verso la crescita, la maturità: il venire alla luce. Nascere. Non tutto ciò che accade è voluto da Dio nel senso banale del termine, ma tutto accade dentro la sua provvidenza. Nulla è fuori dal suo sguardo e dal suo seno di amore.

La preghiera, allora, non serve a controllare Dio, ma a lasciarsi trasformare dall’attenzione. Passiamo da una preghiera di richiesta a una preghiera di relazione, fino a una preghiera di semplice presenza. La pratica della presenza di Dio non è qualcosa da aggiungere alla vita, ma un modo nuovo di vivere tutto. È imparare a stare, ad ascoltare, a respirare. È scoprire che Dio non è lontano, ma più intimo a noi di noi stessi (intimior intimo meo), come dice Sant’Agostino.

Rahner e la seconda venuta di Cristo

L’inizio e la fine della fede cristiana, l’Alpha e l’Omega del Credo cristiano, sono finestre sul Mistero di Dio. Come afferma il Monismo relativo nella sua equazione “x = x + y” , è il Mistero di chi siamo in quanto siamo Dio (10) come creature (5×2). Il Mistero trova parole e immagini per essere detto. La fede matura è il venire del Mistero alla luce dell’intelligenza (lumen fidei), per cui il Mistero non è più velato dalle immagini ma incarnato nell’essere di chi siamo.

In questo testo del teologo gesuita Karl Rahner ci rendiamo conto come le parole della fede devono lasciare la notte venire alla luce, lasciare il credere “che” per raggiungere il diventare “chi” sono. I racconti delle origini di Gesù – narrati secondo l’immaginazione dei Vangeli dell’Infanzia – richiamano le parole del Nuovo testamento sulla Seconda Venuta. Anche queste parole sono piene di immagini cosmiche.

Come per la nascita di Gesù non si tratta di un viaggio da Nazareth a Betlemme, o viceversa, così la Seconda Venuta non è un viaggio di Cristo da un luogo all’altro, né un ritorno spettacolare nel tempo come lo conosciamo. È il momento in cui tutto ciò che Cristo ha iniziato raggiunge il suo compimento in Dio: la sua storia, la storia dell’umanità e quella del mondo intero. Quando la realtà sarà pienamente trasfigurata, ciascuno avrà raggiunto il proprio esito definitivo, nella salvezza o nel rifiuto, e diventerà evidente che il Crocifisso Risorto è sempre stato il centro e il fondamento della storia della salvezza. Il suo “ritorno” non consiste nell’apparire di nuovo nello spazio, ma nel fatto che tutti si trovano davanti a lui, rivelati nella verità del loro compimento.

Per comprendere questo mistero occorre distinguere ciò che è essenziale da ciò che è immaginativo. Le immagini bibliche che parlano di un Cristo che scende dalle nubi non sono cronache giornalistiche del futuro, ma simboli offerti alla nostra immaginazione. La realtà profonda è che l’incontro finale dell’umanità con Cristo glorioso è opera di Dio stesso: è Dio che porta ogni persona, e l’intera creazione, al confronto con la verità dell’Amore crocifisso e risorto.

Per questo la Parusia non può essere pensata come un ingresso “fisico” di Gesù nel tempo, ma come l’elevazione del tempo, dello spazio e della storia nella gloria di Dio. È la rivelazione ultima di ciò che Dio ha sempre operato: nessun ritorno indietro è più possibile, perché la salvezza ha raggiunto il suo vertice. Nella Seconda Venuta si compie la nostra identità.

Per scrutare la fine dei tempi, sia la tradizione rabbinica che il Nuovo testamento attingono a Isaia 60, 20-22, dove Dio dichiara:

20Il tuo sole non tramonterà più
né la tua luna si dileguerà,
perché il Signore sarà per te luce eterna;
saranno finiti i giorni del tuo lutto.
21Il tuo popolo sarà tutto di giusti,
per sempre avranno in eredità la terra,
germogli delle piantagioni del Signore,
lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria.
22Il più piccolo diventerà un migliaio,
il più insignificante un’immensa nazione;
io sono il Signore:
a suo tempo, lo farò rapidamente.

L’affermazione è apparentemente contraddittoria: da un lato “nel suo tempo” suggerisce una data prestabilita; dall’altro “lo affretterò” lascia intuire la possibilità di anticipazione. Questa tensione consente una forma di pensiero teologico che unisce sovranità divina e responsabilità umana.

Nel passo talmudico di Sanhedrin 98a, Rabbi Yehoshua ben Levi interpreta la promessa di Isaia sostenendo che la redenzione può essere accelerata se il popolo è meritevole, mentre in assenza di merito essa giungerà comunque nel tempo fissato.

Il rabbi Alexandri dice: Il rabbi Yehoshua ben Levi solleva una contraddizione in un versetto che affronta l’impegno di Dio a redimere il popolo ebraico. Nel versetto: “Io, il Signore, nel suo tempo lo affretterò” (Isaia 60:22), è scritto: “Nel suo tempo,” indicando che c’è un tempo designato per la redenzione, ed è scritto: “Lo affretterò”, indicando che non c’è un tempo stabilito per la redenzione. Il rabbino Alexandri spiega: Se meritano redenzione attraverso il pentimento e le buone azioni, accelererò la venuta del Messia. Se non meritano la redenzione, la venuta del Messia avverrà nel tempo che ha prescritto.

L’assunto è che Dio ha stabilito un momento minimo garantito per la salvezza, ma il comportamento umano può anticipare l’intervento. Il pentimento e le buone azioni diventano così strumenti reali attraverso cui si “affretta” la venuta del Messia. Questa visione ha uno scopo preciso: evitare fatalismo e inazione, responsabilizzare l’individuo e legare l’escatologia non alla speculazione cronologica bensì alla giustizia etica.

L’agire di Dio (grazia) e l’agire umano non vanno paralleli. L’uno condiziona l’altro. Come ricorda la lettera ai Filippesi (2,13): “Dio produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo”. Ed è un volere il bene. Come afferma San Tommaso d’Aquino:  “Amare è volere il bene di qualcuno” (Summa theologiae, I-II, q. 26, a. 4). Quando più Dio vuole il bene della Sua creatura, tanto più questa vuole il bene delle altre creature di Dio: , l’umanità e il cosmo intero.

Il testo cristiano più vicino a questa visione della fine del mondo è 2 Pietro 3,9–12, dove l’autore respinge l’idea che il ritardo della Seconda Venuta sia un fallimento.

«Il Signore non è lento riguardo alla sua promessa, come alcuni considerano la lentezza, ma è paziente nei tuoi confronti perché non vuole che nessuno perisca, ma che tutti vengano al pentimento. Ma il giorno del Signore verrà come un ladro; Quando arriverà, i cieli scompariranno con un rumore orribile, e i corpi celesti si scioglieranno in un incendio, e la terra e ogni azione compiuta su di essa saranno messi a nudo. Poiché tutte queste cose devono svanire in questo modo, che tipo di persone dovete essere, conducendo la vostra vita in santità e santità, mentre aspettate e accelerate la venuta del giorno di Dio? Per questo giorno, i cieli saranno bruciati e si dissolveranno, e i corpi celesti si scioglieranno in un incendio!»

Il ritardo è spiegato come pazienza: Dio non è lento, ma concede tempo perché gli uomini giungano al pentimento. Poi compare un’affermazione sorprendente: i credenti non devono solo attendere il Giorno di Dio ma “affrettarlo”. Il linguaggio greco impiegato implica un’azione reale e intenzionale: l’integrità morale dei credenti, il pentimento, la condotta santa possono influire sul ritmo con cui Dio porta a compimento la storia. A differenza del Talmud, però, il soggetto non è solamente Israele come collettività, bensì la comunità dei credenti, e l’obiettivo non è la restaurazione politica o nazionale ma la trasformazione cosmica: cieli dissolti, terra rinnovata, giudizio universale.

Pur restando diversi, i due testi condividono alcuni elementi strutturali: affermano che Dio è sovrano e ha fissato un termine; riconoscono che la condotta umana può anticipare questo termine; leggono Isaia 60 come autorizzazione a una partecipazione attiva dell’uomo. Questo dato sorprende sia il cristiano fatalista, che vorrebbe limitarsi ad attendere, sia l’ebreo che immagina il Nuovo Testamento come ultraterreno e disinteressato alle opere. In realtà, entrambi i testi mettono in gioco il comportamento etico come fattore storico, non ornamentale.

Nel Talmud il Messia non è figura divina; in Pietro, la venuta riguarda Cristo glorificato come giudice cosmico. Nel Talmud si affretta la redenzione di Israele; in Pietro si accelera il giudizio finale e la nuova creazione. L’ebraismo tradizionale insiste sulle opere e sulla fedeltà dell’alleanza; Pietro situa l’etica nel quadro della grazia e del pentimento. Il Talmud non entra in scenari catastrofici; Pietro parla esplicitamente di dissoluzione cosmica. Tuttavia, il punto che avvicina queste prospettive è la convinzione che Dio, nel condurre la storia, “aspetti” l’uomo: nel Talmud attende la maturità spirituale di Israele, in Pietro prolunga il tempo affinché più persone si salvino. L’escatologia, per entrambe le tradizioni, diventa così una chiamata etica immediata: non interessa speculare sul quando, ma chiedere che tipo di persone siamo oggi.

Un commentatore ebreo messianico ha notato che se l’uomo accelera la fine, allo stesso tempo la fine accelera l’uomo: l’attesa genera urgenza, l’urgenza produce condotta morale e questa condotta diventa a sua volta leva escatologica. Il futuro modella il presente, mentre il presente contribuisce a spingere avanti il futuro. Non si tratta di stabilire date, ma di coltivare un carattere capace di vivere davanti a Dio.

Alla luce di questi testi, la conclusione è che la fine del tempo non è pura decisione sovrana né conquista umana: è uno spazio di cooperazione, nel quale Dio guida e l’uomo risponde. Per l’ebraismo si tratta di pentimento e buone opere, per il cristianesimo di pentimento e vita santa. Entrambi leggono Isaia 60 non come licenza di manipolare il futuro, ma come invito a un’assunzione di responsabilità. In questa prospettiva, la Seconda Venuta non autorizza la passività religiosa e non giustifica fanatismi cronologici: chiama invece a maturità morale, responsabilità quotidiana e speranza attiva. Se Dio attende, non è perché esiti, ma perché chiede all’uomo di muoversi. L’escatologia diventa quindi non una dottrina sul calendario, ma una dottrina sul carattere, sulla libertà e sulla trasformazione.

La lettura di Karl Rahner sulla Seconda Venuta ci permette di fare un ulteiore passo in avanti nella demitologizzazione della visione apocalittica che sia Gesù che i suoi discepoli fino agli apostoli avevano del futuro. Per Rahner, la Seconda Venuta è il compimento ultimo di ciò che è già iniziato con la risurrezione di Cristo. La venuta finale non introduce una nuova fase scollegata dal presente: è la manifestazione definitiva della salvezza che già opera nella storia. La Parusia non è l’arrivo di qualcosa di estraneo, ma l’esplicitazione di ciò che nel tempo rimane nascosto. Con una immagine biblica si può dire che la Seconda Venuta è la riconsegna del Rotolo della storia (dis-piegamento della vita divina) nella mani dell’eterno (semplificazione nell’Unum).

Rahner pensa l’uomo come essere aperto all’Assoluto, strutturalmente orientato a Dio. L’escatologia non è evasione dalla vita terrena ma pienezza del suo senso più profondo. La pienezza è ciò che Tommaso d’Aquino afferma a proposito del voler il bene dell’altro. L’escatologia è il senso più profondo dell’amore: volere-il-bene-dell’altro. L’ingresso nella pienezza dell’Amore si manifesta già nella morte personale: la persona entra nella decisione definitiva della propria libertà davanti a Dio. Saremo giudicati sull’amore. Quando Gesù interroga Pietro (Gv 21, 1-19), ogni creatura viene interrogata: “Mi ami tu?”. L’Amore perfeziona ogni cosa e non viceversa. Non è la perfezione che Dio cerca in me, ma l’autenticità dell’amor, cioè l’amore che posso “qui ed ora” offrire e ancor più ricevere. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (San Giovanni della Croce). Se anche avrò tradito Dio per mille volte, lui per mille volte mi chiederà: mi vuoi bene? E non dovrò fare altro che rispondere, per mille volte: sì, ti voglio bene.

Ciò non elimina una dimensione collettiva e cosmica della fine, ma la radica nell’esperienza personale. La Parusia è così correlata alla morte individuale e al compimento dell’umanità intera: la storia giunge al momento in cui la libertà si rivela senza più ambiguità e la grazia di Dio può comunicarsi senza resistenze.

Le immagini bibliche di distruzione, fuoco e catastrofe hanno un significato simbolico. A Rahner non interessa un teatro della rovina, ma la trasformazione del mondo in pienezza. Il giudizio non è un tribunale esteriore: è la rivelazione definitiva di ciò che la persona è diventata tramite le sue scelte. Cristo allora non torna come figura spettacolare che irrompe nello spazio, ma come la verità ultima che si manifesta. La consumazione finale coincide con la trasparenza del mondo alla presenza divina. Il mondo diventa sacramento di Dio, non maceria.

In questa prospettiva, l’attesa cristiana non giustifica immobilismo o fuga dal mondo. Se Cristo è già presente, ogni decisione storica partecipa al suo compimento. La Parusia è motivo di impegno, non di disimpegno: missione, responsabilità, solidarietà e trasformazione sociale diventano forme concrete di collaborazione al mistero. L’escatologia non consiste nel guardare il cielo aspettando un rientro spettacolare, ma nel vivere la storia come luogo in cui Cristo si comunica progressivamente. Rahner non toglie alla fede il suo orizzonte finale, ma chiede di pensarlo come pienezza della grazia già attiva. La Seconda Venuta è la verità ultima della storia e della persona, la rivelazione di ciò che Dio opera fin dall’inizio, la consumazione di Cristo in tutto e in tutti.

La scena del Giudizio universale o cosmico di Mt 25,31-46 ha una portata non solo simbolica ma direi mistica. Cosa significa che al tramonto della vita conterà solo l’amore? Significa che diventeremo Colui attraverso cui abbiamo amato. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Diventeremo una cosa sola con colui che è Amore. Nel Commentario sulla Lettera di Giovanni ai Parti (Trattato 2, n. 14), Sant’Agostino dichiara che “ognuno è come il suo amore è. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Cosa devo dire? Vuoi diventare Dio? – Non oso dirlo da solo; ascoltiamo la Scrittura: Ho detto: ‘Voi siete dèi, e tutti figli dell’Onnipotente.’ (Salmo 81.6)”.

«La Parusia di Cristo non è altro che il compimento della storia (di Cristo, dell’umanità e del mondo) in Dio, nella misura in cui diventa allora evidente a tutti — poiché tutti avranno raggiunto il loro fine, nella salvezza o nella perdizione — che la realtà del Cristo crocifisso e risorto, il quale “ritorna” in quanto tutti si presentano davanti a lui, costituisce l’inizio e la ragione permanente dell’irreversibilità della storia della salvezza, il suo significato centrale e il suo culmine.»

«Se, da un lato, distinguiamo ciò che nel ritorno di Cristo può essere considerato oggettivamente “in sé” da ciò che, nei racconti biblici e nelle tradizioni, è solo una raffigurazione immaginativa (cfr. K. Rahner, “L’ermeneutica delle affermazioni escatologiche”, in Indagini teologiche IV, Londra–Baltimora 1966, pp. 323–346), e se, dall’altro lato, ricordiamo che il “presentarsi” degli uomini davanti al Cristo glorificato, attraverso il loro compimento personale e collettivo, è esso stesso un atto di Dio in Cristo, allora questa affermazione può essere accolta senza difficoltà. Tuttavia, ciò è importante perché la seconda venuta di Cristo — se non la si vuole intendere in senso mitologico — non può essere un nuovo ingresso di Cristo dentro la nostra attuale dimensione di spazio e tempo, ma deve piuttosto essere la trasformazione e l’elevazione di tale dimensione alla sua gloria. Ed è precisamente questo che la frase intende esprimere.»

Karl Rahner, “The Church and the Parousia of Christ”, in Theological Investigation. Vol. VI, Darton, Longman & Todd, London 1969, 295-312,  295 + nota 1


Dio ci attraversa nella carne sin dall’inizio del nostro respiro. Non serve che qualcuno ce lo consegni, non è un premio per i credenti né un bottino dei devoti: è una presenza tacita, come un respiro che esisteva già quando non sapevamo nemmeno formulare una domanda.

Rainer Maria Rilke non ha mai smesso di misurarsi con quella presenza. Ha rifiutato porte sbarrate, formule ripetute e risposte troppo pronte; ha temuto ogni mediatore che volesse frapporsi tra l’uomo e il divino: Gesù trasformato in ostacolo, i sacerdoti in interpreti, la fede in disciplina. A lui interessava una sola cosa: sentire Dio sulla pelle della vita quotidiana. Non cercava rassicurazioni, preferiva restare nel dubbio, nell’apertura, nel silenzio delle chiese vuote dove si può piangere senza motivo, solo perché un attimo sembra più grande di noi. Cercava un Dio senza mura, senza esclusività, un Dio che puoi intuire nei Salmi, nella terra, in un fiore blu, nella notte in cui non arriva sonno.

Per lui credere non significava accettare un dogma, ma lasciarsi toccare dove non controlli nulla. La fede imposta sembrava un peso, mentre l’esperienza era un lampo: arrivava in un istante senza nome, spesso in contrasto con ciò che si è imparato, e allora non importava più se lo si chiamasse credere, tremare, amare o restare senza fiato. Rilke voleva un Dio libero e sfuggente, grande come il mistero dell’Antico Testamento e allo stesso tempo fragile come un respiro dietro un muro sottile: non un Dio posseduto, ma un Dio che continua a sfuggire anche mentre ti abita.

Per questo invitava a smettere di svalutare la terra. “Essere qui è meraviglioso”: qui nascono le lacrime e il desiderio, qui si intrecciano dolore, pienezza, amore e solitudine, e qui si comprende che il divino non è un altrove consolatorio, ma un compito. La presenza di Dio non elimina il buio, ma lo attraversa; non pretende purezza, ma disponibilità. È un invito a trasformare ciò che viviamo in qualcosa che continui la sua opera.

Anche il linguaggio, per lui, era un territorio sospeso. Le parole possono essere ponti oppure muri: fanno nascere ciò che ancora non sappiamo dire, ma possono anche soffocarlo. Ogni parola è una domanda, e se la trattiamo come risposta smette di fiorire. Per questo cercare Dio non significa costruire templi, ma mantenere aperta una fessura: accettare che la bellezza e l’orrore coesistono, che la vita è delicata e inviolabile anche quando si spezza, che la presenza divina non annulla l’enigma ma lo accompagna.

Alla fine resta un gesto semplice: restare nel silenzio, ascoltare un respiro che non sappiamo nominare, accettare un mistero così vicino da poter abbattere un muro con un solo grido. Non per possedere Dio, ma per lasciarci plasmare da ciò che ci attraversa da sempre.

La congiunzione è legittima? Sì.

Non si accede alla realtà – nemmeno a quella di Gesù – senza collocarsi, consapevolmente o no, entro un punto di vista. Ogni conoscenza, inclusa quella della fede, è inevitabilmente prospettica. Da qui nasce la convinzione che un approccio a Gesù remoto Christo e sine fide christiana non solo sia possibile, ma anche legittimo. È lo stesso tipo di legittimità che mi consente di studiare una moneta da un euro come un semplice oggetto di metallo-nichel: non ho bisogno di sapere nulla della Banca Centrale Europea per identificarne la composizione materiale. Tuttavia, se voglio comprenderne il valore, se voglio sapere che cosa “vale” un euro nel sistema economico, allora devo entrare in relazione con l’istituzione che lo garantisce e con il significato che quella moneta assume.

Così accade anche con Gesù. Mancuso analizza innanzitutto il “metallo Gesù”, vale a dire la sua realtà storica, secondo la prospettiva della ricerca storico-critica; solo in un secondo momento affronta la questione di ciò che significa chiamarlo “Cristo”, cioè del suo valore teologico. È vero: i Vangeli non sono biografie nel senso moderno del termine, ma testimonianze di fede. È altrettanto vero che i fatti non si offrono come oggetti neutrali, bensì vengono colti e disvelati all’interno di un atto interpretativo, di una prospettiva. Eppure, proprio perché il Verbo si è fatto carne, storia, uomo concreto, questa carne e questa storia – la vicenda umana di Gesù – sono accessibili a tutti attraverso l’uso della ragione. Negarlo non significa soltanto criticare Mancuso: significa, in ultima analisi, mettere in discussione un pilastro della fede cristiana stessa, l’incarnazione.

Quando si parla di “pretesa cristiana”, si intende spesso l’affermazione che il punto di vista della fede cristiana, rispetto a quello agnostico, ateo o semplicemente altro, sia l’unico possibile su Gesù. Ma il nodo non è dire che Gesù è il Cristo: questo lo può affermare anche un ateo, come semplice dato storico-linguistico. Il vero problema è stabilire quale messianismo debba essere attribuito a Gesù. Poiché i messianismi sono stati molti, è legittimo – anzi necessario – interrogarsi, distinguere, chiarire il rapporto tra Gesù e il Cristo.

La pretesa che proprio questo Gesù sia il Cristo, e non altri, non può essere semplicemente creduta: deve essere continuamente argomentata, pensata, assunta responsabilmente. In questo senso, la distinzione tra Gesù e Cristo, operata da Mancuso, non è contro la fede, ma al servizio della fede. Dopo ottocento pagine si può ben dire: “non mi convince”. È una posizione legittima. Ciò che non è legittimo, invece, è sostenere che questa operazione di distinzione non possa nemmeno essere tentata. Una simile affermazione contraddice la fede cristiana stessa, che non espelle il dubbio ma lo assume dentro di sé.

Se c’è dubbio, significa che la copula “Gesù è Cristo” non è un’evidenza incontrovertibile. Lo attestano persino le ultime righe del Vangelo di Matteo: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano” (Mt 28,17). E se dubitano, allora la distinzione è legittimata intra moenia ecclesiae. La pretesa cristiana non si fonda sull’incontrovertibilità, ma su una decisione della volontà, su un atto di fiducia. Come scrive Agostino: ipsum credere nihil aliud est quam cum assensione cogitare.

All’interno di uno stesso soggetto convivono più punti di vista: quello del credente e quello del non credente, dello storico e del devoto. Sono distinti, non si assorbono l’uno nell’altro, e tuttavia coesistono. Per tutte queste ragioni, il lavoro di Mancuso non indebolisce la fede: la provoca, la costringe a pensarsi, e proprio per questo la aiuta.

Che c’entra la fisica quantistica con Nicea?

La fisica quantistica ha mostrato che una stessa realtà può essere descritta in modi diversi a seconda del livello di osservazione: prima della misura un sistema è rappresentato dalla funzione d’onda, che esprime un insieme di probabilità, mentre dopo la misura appare come un evento determinato, una particella con proprietà definite. Non si tratta di due realtà diverse, ma di due linguaggi descrittivi applicati alla stessa realtà, uno più fondamentale (fisica quantistica) e uno più fenomenologico (fisica classica). La fisica classica non è falsa, ma è limitata: funziona quando si descrivono gli eventi osservabili (fenomeno), ma non esaurisce la struttura profonda del reale (noumeno).

In modo analogico, la cristologia distingue tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Gesù di Nazaret è un evento storico, situato nel tempo, soggetto alla nascita, alla crescita, alla sofferenza e alla morte (fenomeno). Il Cristo, o Logos, è invece il Figlio eterno, generato dal Padre, principio di intelligibilità e fondamento dell’essere (noumeno). Anche qui non si parla di due realtà, ma di due livelli di linguaggio applicati alla stessa persona: il piano storico-economico e il piano ontologico. Non due realtà ma due punti di vista. La fede non aggiunge un “secondo essere” accanto a Gesù, ma interpreta la sua realtà da un livello più profondo, così come la descrizione quantistica non sostituisce l’evento osservato ma ne esplicita la struttura di possibilità.

In questo quadro si può comprendere l’errore di Ario come una confusione sistematica dei linguaggi. Ario prende affermazioni vere sul piano storico – Gesù nasce, cresce, obbedisce, soffre, dice che il Padre è più grande di lui – e le trasferisce senza distinzione sul piano ontologico, concludendo che il Logos abbia avuto un inizio, che sia una creatura eccellente ma non consustanziale al Padre. È un’operazione concettuale simile a quella di chi, vedendo solo la particella localizzata, nega l’esistenza o la necessità della funzione d’onda: riduce tutta la realtà al livello fenomenico e rifiuta un linguaggio più fondamentale. Si tratta, quindi, di riduzionismo.

Il Concilio di Nicea risponde non introducendo nuovi dati storici, ma correggendo il linguaggio: “homoousia to Patrì” serve a distinguere il piano intra-divino (generato, non creato) da quello della manifestazione storica (creato). Il Verbo non è creato nella sua essenza, ma assume la condizione creata nell’Incarnazione; ciò che è eterno si rende temporale, ciò che è necessario si rende contingente, senza che questo implichi una divisione o una diminuzione dell’essere divino. Come nella fisica quantistica, non cambia la realtà, ma il livello di accesso e di descrizione che ne abbiamo. Si guarda l’eterno dal punto di vista del tempo.

Certamente il confronto tra fisica quantistica e cristologia è un’analogia: la funzione d’onda è una struttura matematica, il Logos è una persona. La fisica parla di strutture impersonali, la teologia di relazioni personali. Tuttavia l’analogia è potente perché mostra che il dogma cristologico non è una mitologia arbitraria, ma una regola epistemica che impedisce riduzioni indebite: non confondere, non separare, non appiattire un livello sull’altro. In questo senso si può dire con rigore che Ario non negava i fatti, ma sbagliava il registro, tentando di parlare del mistero del Cristo con un solo linguaggio, quello storico-temporale, come se fosse sufficiente.

La relazione è l’apertura


Il pensiero di Hilary Lawson si colloca nel solco della filosofia post-kantiana, ma ne radicalizza l’impianto fino a trasformarne i presupposti fondamentali. Al centro della sua riflessione vi è la nozione di openness (apertura), introdotta per indicare ciò che precede e rende possibile ogni determinazione concettuale, linguistica e ontologica, senza tuttavia potersi identificare con alcuna realtà positiva o descrivibile. Lawson riprende da Kant la convinzione che non abbiamo accesso alla realtà “in sé”, ma solo a ciò che appare entro schemi concettuali e categoriali umani; tuttavia, egli rifiuta l’idea kantiana del noumeno come qualcosa che, pur non essendo conoscibile, possiede comunque uno statuto ontologico determinato. Parlare del noumeno come di una “cosa in sé” significa, per Lawson, ricadere in una forma di reificazione che contraddice la stessa funzione critica del concetto.

In questo senso, l’apertura non è una nuova versione del noumeno, né un fondamento metafisico nascosto, ma il nome dato alla resistenza del reale a ogni tentativo di chiusura definitiva. Essa non è un ente, non è una struttura, non è un principio, e non può essere tematizzata senza essere tradita. Ogni volta che il pensiero parla del mondo, lo fa attraverso operazioni di “chiusura”, vale a dire attraverso la stabilizzazione provvisoria dell’indeterminato in oggetti, soggetti, relazioni causali, identità, eventi. Il mondo fenomenico non è per questo illusorio o falso: esso è necessario, operativo e funzionale alla vita, alla scienza e all’azione, ma non è mai ultimo. La realtà che conosciamo è sempre il risultato di una chiusura, non l’espressione diretta dell’apertura.

In tale quadro, categorie come spazio, tempo e causalità non possiedono più, come in Kant, uno statuto trascendentale universale e necessario. Esse sono piuttosto modalità storiche, linguistiche e pratiche di organizzazione dell’esperienza, che funzionano all’interno di specifiche chiusure e possono, in linea di principio, essere riaperte o trasformate. La causalità, in particolare, non viene negata nel suo valore pragmatico e scientifico, ma perde ogni pretesa di descrivere la struttura ultima del reale. Causa ed effetto (cfr. anche karma) non sono proprietà fondamentali della realtà, bensì strumenti concettuali che consentono di rendere il mondo intelligibile e governabile entro una certa chiusura. In questo senso, Lawson si distingue tanto dal realismo ingenuo quanto dal relativismo radicale: la causalità “vale”, ma non come verità ontologica ultima.

Questa impostazione avvicina Lawson ad autori come Donald Hoffman, nella misura in cui entrambi rifiutano l’idea che il mondo percepito e concettualizzato coincida con la realtà in sé. Tuttavia, mentre Hoffman propone una nuova ontologia positiva – fondata sugli “agenti coscienti” (cfr. le seity di Federico Faggin) come realtà fondamentali e sostenuta da modelli matematici – Lawson rifiuta esplicitamente ogni tentativo di sostituire un’ontologia con un’altra. L’apertura non è una teoria su ciò che esiste davvero dietro le apparenze, ma il segnale del fallimento inevitabile di ogni pretesa ontologica definitiva. In questo senso, Lawson assume una posizione più radicalmente negativa e apofatica: non indica ciò che la realtà è, ma mostra perché ogni risposta a questa domanda comporta una chiusura.

La nozione di apertura presenta una forte affinità con una concezione radicale della relazione, intesa non come rapporto tra termini già dati, ma come ciò da cui i termini stessi emergono. Se la relazione viene pensata come “tra” originario, privo di sostanzialità e non oggettivabile, essa può svolgere una funzione filosofica analoga a quella dell’apertura. In tal senso, la posizione di Lawson è avvicinabile a ciò che Carlo Rovelli chiama interpretazione relazionale della Fisica Quantistica. Tuttavia, Lawson evita deliberatamente il linguaggio della relazione, poiché esso rischia di suggerire una nuova struttura ontologica o una simmetria concettuale che tradirebbe il carattere indeterminato dell’apertura. Chiamare l’originario “relazione” è, per Lawson, già una chiusura, seppur sofisticata.

È proprio su questo punto che il confronto con il Monismo Relativo diventa illuminante. Il Monismo Relativo condivide con Lawson il rifiuto della sostanza, del dualismo e di un Uno positivo; pensa l’originario come relazione “no-thing”, costitutiva dei termini e non derivata da essi. Tuttavia, il Monismo Relativo compie un passo ulteriore, assumendo consapevolmente una forma di ontologia minimale: afferma che l’essere è relazione, pur precisando che tale relazione non è un ente né un fondamento sostanziale. Lawson, invece, resta su un piano meta-filosofico e critico, insistendo sul fatto che anche questa affermazione, per quanto cauta, rappresenta una chiusura. La differenza non è tanto nei contenuti quanto nel gesto filosofico: Lawson mantiene aperta la ferita del dicibile, mentre il Monismo Relativo accetta una chiusura riflessa come necessaria.

Infine, la questione della libertà consente di cogliere un’ulteriore distanza da Kant. Se in Kant la libertà è collocata nel regno noumenico, come causalità di un ordine diverso rispetto a quello naturale, in Lawson essa non appartiene a un altro livello della realtà, ma coincide con la capacità di riaprire le chiusure in cui siamo immersi. La libertà non è evasione dal mondo fenomenico, bensì trasformazione del nostro rapporto con esso; non consiste nell’accesso a un fondamento ultimo, ma nella consapevolezza della parzialità e della contingenza delle nostre determinazioni. In questo senso, l’apertura non è un altrove metafisico, ma una dimensione sempre già implicata in ogni esperienza, che si manifesta ogni volta che una chiusura mostra i propri limiti.

Nel suo complesso, il pensiero di Hilary Lawson può essere letto come una radicalizzazione della critica kantiana della metafisica, condotta però senza ricorso a strutture trascendentali fisse e senza la sostituzione del noumeno con un nuovo fondamento. L’apertura non risolve il problema della realtà ultima, ma lo mantiene vivo, sottraendolo tanto alla reificazione quanto alla dissoluzione nichilistica, e facendo della filosofia non una dottrina dell’essere, ma una pratica continua di vigilanza sulle chiusure del pensiero.

Dio è l’apertura (ἄνοιγμα)

Il termine greco ἄνοιγμα (ánoigma) deriva dal verbo ἀνοίγω (anoígo), che significa aprire o dischiudere. Dal punto di vista etimologico è composto dal prefisso ἀνά-, che indica un movimento verso l’alto, di ritorno o di intensificazione, e da una radice verbale arcaica οἴγω / οἶξαι, che esprime l’atto dell’aprire. Ἄνοιγμα non designa semplicemente uno stato, ma un’azione o un processo: l’evento dell’apertura, il dischiudersi di ciò che prima era chiuso. Nel greco classico e biblico il termine può indicare l’apertura concreta di una porta o di una bocca, un varco nello spazio, ma anche, in senso figurato, l’apertura della parola, della comprensione o del cielo. In questo senso conserva sempre un carattere dinamico: non un oggetto o un vuoto statico, ma il farsi-aperto di qualcosa.

La parola “enigma” deriva invece dal greco αἴνιγμα (aínigma), che significa indovinello, discorso oscuro o parola allusiva. Essa proviene dal verbo αἰνίσσομαι (ainíssomai), che indica il parlare per allusioni, il dire senza dire apertamente. Anche questa famiglia lessicale è collegata a una radice greca più antica legata all’idea dell’aprire, ma in una forma indiretta e obliqua. Mentre ἄνοιγμα indica un’apertura manifesta e diretta, αἴνιγμα designa un’apertura che non si compie del tutto, che lascia intravedere il senso senza chiuderlo in modo definitivo. Nell’enigma il significato non viene esposto, ma suggerito, mantenuto in sospensione. Per questo, nella cultura greca e poi filosofica, l’enigma non è ciò che semplicemente oscura, ma ciò che apre uno spazio di interpretazione senza risolverlo, un’apertura che resiste alla chiusura concettuale.

In ambito religioso Dio è l’enigma o meglio ancora l’anigma (ἄνοιγμα). Dio non si scopre nella realtà risolvendo i suoi enigmi ma dischiudendoli verso il Mistero. Il Mistero non è enigma. Un enigma è ciò che rimane chiuso, irrisolto, come una porta che non si apre. Il mistero, invece, non è un ostacolo alla conoscenza, ma un orizzonte che si dilata. Non si esaurisce mai: ogni passo verso la sua comprensione apre nuove prospettive, nuove profondità, nuove luci.

Il mistero come anigma non è confusione o oscurità. Non è la nebbia che nasconde, ma la luce che rivela senza mai finire di rivelare. È un invito a entrare sempre più dentro, senza mai poter dire: “ho capito tutto”. La sua grandezza sta proprio nell’essere inesauribile, nel non ridursi mai a un concetto chiuso. Il mistero non è un segreto inaccessibile, ma una profondità sempre accessibile. Come scrive Jürgen Werbick, non si tratta di un contenuto nascosto, ma di una realtà che si offre senza mai consumarsi. È un dono che si lascia conoscere e, nello stesso tempo, supera sempre la nostra conoscenza.

“Dio” non va fatto funzionare nel nostro linguaggio religioso come fosse un “enigma”, non è un ente reale da dimostrare o confutare, ma è un termine che funziona nel linguaggio umano per “tenere aperto” l’Oltre. Il termine ἄνοιγμα significa l’ “apertura”, “aprirsi”.


“Infatti si deve sempre parlare di un mistero quando una cosa o una persona, o un qualsiasi essere, ci si dischiude soltanto a partire dal suo intimo. In un mistero non si può penetrare dall’esterno, non lo si può penetrare con violenza. Dall’esterno non v’è alcun accesso al mistero. Le sue porte si aprono soltanto dall’interno. Se però si aprono, allora il mistero diviene non soltanto esperibile, ma anche interamente comprensibile senza tuttavia cessare di essere un mistero. Non è quindi che noi affermiamo l’inconoscibilità di Dio, quando ci limitiamo semplicemente a dire di Lui che è un mistero, il mistero per eccellenza. E non è affatto che Dio cessi di essere un mistero, se noi veniamo a conoscerlo. É questo che distingue il mistero dall’enigma: il fatto che, quando viene compreso, esso non cessa di essere misterioso”
(E. Jüngel, “Che cosa significa dire: Dio è amore?”, in Protestantesimo, 56(2001), 160-161.  

Dio non è una realtà metafisica oggettiva, una causa prima o un essere supremo descrivibile attraverso concetti o prove razionali. Il mondo – infatti – non è una “cosa” già data, ma qualcosa che viene reso stabile attraverso le nostre operazioni di chiusura: linguaggi, teorie, sistemi simbolici e storie.

Considerare Dio come un oggetto o come una verità definibile significherebbe chiuderlo, e dunque snaturarne il senso. La religione, in questo quadro, non è una forma di conoscenza paragonabile alla scienza: non produce enunciati veri o falsi sul mondo. La sua funzione è piuttosto quella di mantenere “aperto” ciò che la conoscenza tende a chiudere, di indicare i limiti del linguaggio, dei concetti e del controllo umano.

Quando la religione pretende di offrire descrizioni definitive della realtà, sotto forma di dogmi o verità assolute, fallisce il proprio compito. Dio deve rimanere il nome di ciò che non può essere chiuso: ciò che eccede ogni sistema concettuale, che sfugge alla spiegazione e resiste alla rappresentazione. Non è qualcosa che “esiste” nel mondo, ma un segnale del limite di ogni chiusura possibile. In questo senso il discorso su Dio è affine all’arte e a una certa filosofia: non descrive, ma indica.

Gli esseri umani hanno bisogno sia di chiusura, per creare ordine, stabilità e possibilità di intervento nel mondo, sia di apertura, per non assolutizzare i propri sistemi e riconoscerne i limiti. Dio rappresenta simbolicamente questa esigenza di apertura radicale. Anche nelle società secolarizzate, la funzione che Dio svolge non scompare, ma riemerge sotto altre forme, come assoluti morali, ideologie o pretese scientifiche elevate a verità ultime.

Questa visione non è né teista né atea in senso tradizionale, ma semplicemente rifiuta di considerare Dio come oggetto e come verità finale, pur conservando il valore di Dio come nome dell’Oltre, del non-chiudibile. Dio non è qualcosa in cui credere o non credere, ma il limite che ricorda a ogni sapere, a ogni linguaggio e a ogni potere che il mondo resta, in ultima istanza, aperto.

Credere per diventare Cristo

La nostra fede cristiana inizia dall’affermazione che “Gesù è Cristo”, indicata come una verità data, oggettiva, che precede ogni risposta umana. Non dipende dall’“io” e non nasce dall’interiorità personale: è una realtà rivelata. Indica che il Gesù storico è il Cristo, l’Unto, il Figlio di Dio. Dal punto di vista “oggettivo” della fede si afferma che l’essere del Cristo appartiene unicamente a quella persona concreta, unica e irripetibile. Nessun altro essere umano potrebbe identificarsi con quel Gesù che è diventato il Cristo.

L’espressione “credo-che” rappresenta il livello iniziale della fede: l’adesione mentale e assenso interiore alla verità che Gesù è Cristo. Non è ancora un’unione vitale con Lui, ma un primo movimento della libertà che riconosce questa verità proveniente dall’alto.

Da una parte è vero che “io” non sono Gesù, cioè non sono quella persona storica. È un atto di realismo e di umiltà: riconosco che la mia identità non coincide con quella di Gesù ebreo del I. sec. che vive la sua religiosità ebraica. Io non sono quel Gesù. Non c’è alcuna fusione della mia identità con quella di Gesù uomo di allora.

Dall’altra parte, però, “io” divento Cristo, cioè la mia identità più profonda indica il processo spirituale attraverso cui il mio essere umano viene trasformato dalla grazia che è la vita divina che era in Gesù di Nazareth e ora opera e agisce in me. Poiché l’agire di Dio è il suo stesso essere, ne segue che la grazia (= agire di Dio) mi rende, mi conforma e mi identifica nel Cristo. Pur non essendo e non potendo mai essere Gesù in quanto persona storica, l’uomo può diventare conforme al Cristo non solo nella vita morale, interiore e relazionale, ma ontologicamente.

L’ “io” diventa Cristo. La tradizione cristiana parla infatti dell’essere “conformi al Figlio”, “rivestire Cristo”, “lasciarsi trasformare in Lui”. Non si tratta di diventare quel Gesù, ma di diventare il Cristo in cui Gesù è stato trasformato, per partecipazione, imitazione e grazia. L’ “io” di Gesù, così anche il mio “io”, è in Cristo nel senso più forte e ontologico. Una sola ipostasi, una sola persona di Cristo. Con un esempio: il mio “io” è come 1, così anche l’ “io” di Gesù è 1. Il Cristo è l’Uno, il Logos, di tutte le cose. È la struttura relazionale (il segno della moltiplicazione “x”). 1 x 1 = 1. Senza che nessuno perda la sua identità personale, diventiamo l’una persona di Cristo. Io sono Io ma in Cristo io divento “più-che-io” (ego-trasformato) non essendo più io (ego-isolato).

Nel Commentario della Lettera di Giovanni ai Parti (trattato 2, n. 14), Agostino afferma: “Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Cosa devo dire? Vuoi diventare Dio? – Non oso dirlo da solo; ascoltiamo la Scrittura: Ho detto: ‘Voi siete dèi, e tutti figli dell’Onnipotente.’ (PS 81.6)”. Giovanni della croce così dice nella Notte Oscura: Notte che mi guidasti, oh, notte più dell’alba compiacente! Oh, notte che riunisti l’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata!”.

Possiamo ritrovare una simile comprensione del rapporto tra l’io e Dio nell’omelia di Benedetto XVI per la Veglia di Pasqua del 2006, in cui riprendendo le parole di Paolo nella lettera ai Galati (2,20) – «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» – così afferma:

«L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un ‘non’ e si trova continuamente in questo “non”: Io, ma “non” più io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e che, semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza».

Un’altra omelia, ancor più famosa, quella del Sabato Santo di Epifanio di Salamina pone sulle labbra di Cristo, rivolto ad Adamo, le seguenti parole: «Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui [dagli inferi]! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura». Il testo originale in greco non dice natura ma «un’unica e indivisa persona (ἕν πρόσωπον)» (A. Vaillant, L’ homélie d’Épiphane sur l’ensevelissement du Christ, Staroslavenski Institut, Zagreb 1958, p. 99).

A questo soggetto cosmico allude Teilhard quando afferma che «la Creazione, totalmente dominata dal Cristo, andrà a perdersi in Lui e per Lui nell’Unità definitiva, secondo gli stessi termini di san Paolo che rappresentano la più netta affermazione di un “Panteismo” cristiano ἔσται ὁ θεὸς τὰ πάντα ἐν πᾶσιν» (Teilhard de Chardin, Panteismo e Cristianesimo, cit., 77).

Il “credo-che” della fides quae indica la soglia tra la verità proclamata su Cristo nella fede e il cammino di trasformazione dell’uomo. Accettare intellettualmente che Gesù è il Cristo non è ancora essere trasformati, ma apre la possibilità di esserlo. La crescita spirituale dell’io avviene proprio nell’accogliere questa rivelazione nella vita concreta.

L’identità personale rimane distinta, non diventa la persona storica di Gesù, ma viene configurata al Cristo senza confusione e senza separazione. L’immagine, quindi, mostra la differenza tra l’io e Gesù e, allo stesso tempo, la vocazione dell’io a entrare in comunione con Cristo non solo attraverso la fede (fides quae) ma la fede mistica dell’abbandono fiducioso (fides qua) che ci rende “uno” in Cristo.

In sintesi, ciò che emerge è una dinamica teologica chiara: Gesù è il Cristo; io non sono Gesù ma io divento il Cristo con Gesù. Riconoscendo questa verità posso essere trasformato da Cristo, diventando conforme alla sua vita senza confondere la mia identità con quella di Gesù, ma divenendo unito sostanzialmente (o ipostaticamente) a Cristo.

Monismo relativo come metafisica del darsi

Nella lingua comune, “si dà” può significare “accade”, ma questa costruzione è metafisicamente interessante perché esprime un evento senza soggetto. L’evento non viene attribuito a un agente, ma è qualcosa che si dà da sé in senso riflessivo. “Si dà” è la forma riflessiva di terza persona singolare del verbo “dare” (lui/lei/esso si dà), indicando che il soggetto compie e subisce l’azione riflessa su se stesso (es. “Lui si dà da fare”, “Lei si dà per vinta”), accompagnato dalla particella pronominale “si” che si unisce al verbo.

È importante sottolineare che, in tedesco, “c’è” si esprime con “es gibt”, ovvero “si dà”. In altri termini, ciò che si dà, ovvero si mostra, rimane indicibile; al contrario, ciò che può essere detto può solo essere mostrato come senso. Questo esserci, darsi o mostrarsi – forse riconducibile a una nostra intuizione – non appartiene al mondo, ma costituisce piuttosto un registro dell’Essere non riducibile al mondo stesso. Secondo Wittgenstein, il mistico (das Mystische) esiste, c’è. Non si tratta neppure di un “altro mondo”, né del mondo intelligibile concepito come separato dal mondo sensibile. Sorge quindi l’interrogativo: se non è parte del mondo, a quale regione dell’Essere appartiene il mistico? E inoltre, quale modalità dell’essere gli si può attribuire?

6.522 Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische. C’è davvero dell’inesprimibile. Esso mostra sé, è il mistico (Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus).

C’è un soggetto che “si dà” ma nella forma d’evento. L’espressione indica un accadere puro, un fenomeno che si presenta senza che l’origine sia tematizzata o nominabile. Il “si” del “dar-si” (forma riflessiva) è impersonale. È una forma elementare di fenomenalità, una soglia in cui il dato non è dato da qualcuno: è semplicemente dato da Qualcuno o Qualcosa che non è nominato.

Da un punto di vista fenomenologico, si può leggere il “si dà” come la traccia linguistica di una “donazione originaria”. La realtà si dà alla coscienza prima ancora che noi la interpretiamo; un fenomeno si dà prima che lo descriviamo; ciò che è, è nella misura in cui si manifesta. In questo senso il “si dà” suggerisce un movimento di donazione senza donatore: non un dare attivo, ma un venire-alla-presenza. Semplicemente, dato come dono. L’essere appare senza che sia necessario supporre una volontà o un soggetto (umano o divino) che lo faccia apparire. Si può dire, quasi paradossalmente, che ciò che esiste, esiste nella misura in cui si-dà. Si dischiude e si apre.

Nell’uso logico-modale, come nell’espressione “si dà che…”, l’espressione introduce la struttura del possibile: “si dà il caso che…” indica un accadere contingente, un’apertura modale. La frase istituisce un mondo possibile (Y) in cui X è vero e quindi rivela che la realtà non è chiusa nella necessaria identità (X = X) ma è intrinsecamente apertura, rivelativa (x = x + y). Il “si-dà” consiste proprio in questo “+”. Il reale (x), attraverso questo semplice meccanismo linguistico, mostra la sua natura intrinsecamente aperta, capace di accogliere ciò che accade pur potendo non accadere.

Il “si” qui è riflessivo e sembra impersonale ma non lo è. La negazione “im-“ indica che non è identificabile con un soggetto ma è “più(+)-che-soggetto”: è in senso radicale “trans-personale”. Come nell’ “es gibt” heideggeriano (“c’è / viene dato”), il “si dà” italiano suggerisce che l’Essere non si esaurisce in soggetti e oggetti: esiste un piano pre-personale (fondativo) e trans-personale (ultimativo), un campo anonimo dell’Essere (Essere = ni-ente) dove gli enti “si danno” come “ev-enti” – mostrando il loro carattere di dono – e si manifestano senza creatore-padrone. Questo impersonale non significa “nessuno”, ma piuttosto “prima di chiunque”: un livello originario in cui la manifestazione non ha ancora ricevuto attribuzioni o intenzioni.

L’espressione “si dà” possiede così tre caratteristiche ontologicamente rilevanti. È transitiva senza Colui che transita. Il verbo “dare” non ha un soggetto, suggerendo una auto-manifestazione di un “Soggetto-assoluto” che intende, vuole e decide creare il mondo, producendolo. Il mondo – invece – non è prodotto, condotto (ducere) davanti e avanti (pro-) maappare, semplicemente si presenta. Teofania. Introduce inoltre una realtà situata: un “si dà che X” non accade mai nell’astratto, ma sempre in un contesto concreto, e quindi la manifestazione è sempre un evento situato, incarnato.

In questa prospettiva si possono formulare tre tesi. L’Essere si manifesta in modo impersonale: prima di ogni soggetto c’è un darsi anonimo. Ogni fenomeno è un dato, non un prodotto: il mondo non è fatto da noi, e nemmeno da Dio, ma si dà a noi. Il possibile è la modalità primaria del reale: il “si dà che…” testimonia la contingenza come struttura fondamentale dell’esperienza.

In conclusione, “si dà” è una piccola soglia linguistica attraverso cui si intravede una grande tesi metafisica: la realtà non è primariamente qualcosa che Qualcuno fa e produce, ma Qualcosa che si offre (in tedesco: Es gibt). Prima del soggetto, c’è un darsi; prima dell’atto intenzionale, un’apparizione. L’Essere stesso, nel suo farsi presente, si lascia dire da questa espressione minima che porta in sé la traccia di un evento più vasto: il semplice, originario fatto che ciò che è, è perché si dà.

Si dà

Nel silenzio prima dei nomi,
qualcosa accade:
si dà.

Non viene da mano né da voce,
non cerca soggetto,
non chiede un perché.
Appare.

È dono senza donatore,
soglia che apre il possibile,
luce che mostra senza dire.

Nel mondo che non è fatto,
ma che si offre,
l’Essere sfiora il nostro sguardo
e—semplicemente—
si dà.