L’inizio e la fine della fede cristiana, l’Alpha e l’Omega del Credo cristiano, sono finestre sul Mistero di Dio. Come afferma il Monismo relativo nella sua equazione “x = x + y” , è il Mistero di chi siamo in quanto siamo Dio (10) come creature (5×2). Il Mistero trova parole e immagini per essere detto. La fede matura è il venire del Mistero alla luce dell’intelligenza (lumen fidei), per cui il Mistero non è più velato dalle immagini ma incarnato nell’essere di chi siamo.
In questo testo del teologo gesuita Karl Rahner ci rendiamo conto come le parole della fede devono lasciare la notte venire alla luce, lasciare il credere “che” per raggiungere il diventare “chi” sono. I racconti delle origini di Gesù – narrati secondo l’immaginazione dei Vangeli dell’Infanzia – richiamano le parole del Nuovo testamento sulla Seconda Venuta. Anche queste parole sono piene di immagini cosmiche.
Come per la nascita di Gesù non si tratta di un viaggio da Nazareth a Betlemme, o viceversa, così la Seconda Venuta non è un viaggio di Cristo da un luogo all’altro, né un ritorno spettacolare nel tempo come lo conosciamo. È il momento in cui tutto ciò che Cristo ha iniziato raggiunge il suo compimento in Dio: la sua storia, la storia dell’umanità e quella del mondo intero. Quando la realtà sarà pienamente trasfigurata, ciascuno avrà raggiunto il proprio esito definitivo, nella salvezza o nel rifiuto, e diventerà evidente che il Crocifisso Risorto è sempre stato il centro e il fondamento della storia della salvezza. Il suo “ritorno” non consiste nell’apparire di nuovo nello spazio, ma nel fatto che tutti si trovano davanti a lui, rivelati nella verità del loro compimento.
Per comprendere questo mistero occorre distinguere ciò che è essenziale da ciò che è immaginativo. Le immagini bibliche che parlano di un Cristo che scende dalle nubi non sono cronache giornalistiche del futuro, ma simboli offerti alla nostra immaginazione. La realtà profonda è che l’incontro finale dell’umanità con Cristo glorioso è opera di Dio stesso: è Dio che porta ogni persona, e l’intera creazione, al confronto con la verità dell’Amore crocifisso e risorto.
Per questo la Parusia non può essere pensata come un ingresso “fisico” di Gesù nel tempo, ma come l’elevazione del tempo, dello spazio e della storia nella gloria di Dio. È la rivelazione ultima di ciò che Dio ha sempre operato: nessun ritorno indietro è più possibile, perché la salvezza ha raggiunto il suo vertice. Nella Seconda Venuta si compie la nostra identità.
Per scrutare la fine dei tempi, sia la tradizione rabbinica che il Nuovo testamento attingono a Isaia 60, 20-22, dove Dio dichiara:
20Il tuo sole non tramonterà più
né la tua luna si dileguerà,
perché il Signore sarà per te luce eterna;
saranno finiti i giorni del tuo lutto.
21Il tuo popolo sarà tutto di giusti,
per sempre avranno in eredità la terra,
germogli delle piantagioni del Signore,
lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria.
22Il più piccolo diventerà un migliaio,
il più insignificante un’immensa nazione;
io sono il Signore:
a suo tempo, lo farò rapidamente.
L’affermazione è apparentemente contraddittoria: da un lato “nel suo tempo” suggerisce una data prestabilita; dall’altro “lo affretterò” lascia intuire la possibilità di anticipazione. Questa tensione consente una forma di pensiero teologico che unisce sovranità divina e responsabilità umana.
Nel passo talmudico di Sanhedrin 98a, Rabbi Yehoshua ben Levi interpreta la promessa di Isaia sostenendo che la redenzione può essere accelerata se il popolo è meritevole, mentre in assenza di merito essa giungerà comunque nel tempo fissato.
Il rabbi Alexandri dice: Il rabbi Yehoshua ben Levi solleva una contraddizione in un versetto che affronta l’impegno di Dio a redimere il popolo ebraico. Nel versetto: “Io, il Signore, nel suo tempo lo affretterò” (Isaia 60:22), è scritto: “Nel suo tempo,” indicando che c’è un tempo designato per la redenzione, ed è scritto: “Lo affretterò”, indicando che non c’è un tempo stabilito per la redenzione. Il rabbino Alexandri spiega: Se meritano redenzione attraverso il pentimento e le buone azioni, accelererò la venuta del Messia. Se non meritano la redenzione, la venuta del Messia avverrà nel tempo che ha prescritto.
L’assunto è che Dio ha stabilito un momento minimo garantito per la salvezza, ma il comportamento umano può anticipare l’intervento. Il pentimento e le buone azioni diventano così strumenti reali attraverso cui si “affretta” la venuta del Messia. Questa visione ha uno scopo preciso: evitare fatalismo e inazione, responsabilizzare l’individuo e legare l’escatologia non alla speculazione cronologica bensì alla giustizia etica.
L’agire di Dio (grazia) e l’agire umano non vanno paralleli. L’uno condiziona l’altro. Come ricorda la lettera ai Filippesi (2,13): “Dio produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo”. Ed è un volere il bene. Come afferma San Tommaso d’Aquino: “Amare è volere il bene di qualcuno” (Summa theologiae, I-II, q. 26, a. 4). Quando più Dio vuole il bene della Sua creatura, tanto più questa vuole il bene delle altre creature di Dio: sé, l’umanità e il cosmo intero.
Il testo cristiano più vicino a questa visione della fine del mondo è 2 Pietro 3,9–12, dove l’autore respinge l’idea che il ritardo della Seconda Venuta sia un fallimento.
«Il Signore non è lento riguardo alla sua promessa, come alcuni considerano la lentezza, ma è paziente nei tuoi confronti perché non vuole che nessuno perisca, ma che tutti vengano al pentimento. Ma il giorno del Signore verrà come un ladro; Quando arriverà, i cieli scompariranno con un rumore orribile, e i corpi celesti si scioglieranno in un incendio, e la terra e ogni azione compiuta su di essa saranno messi a nudo. Poiché tutte queste cose devono svanire in questo modo, che tipo di persone dovete essere, conducendo la vostra vita in santità e santità, mentre aspettate e accelerate la venuta del giorno di Dio? Per questo giorno, i cieli saranno bruciati e si dissolveranno, e i corpi celesti si scioglieranno in un incendio!»
Il ritardo è spiegato come pazienza: Dio non è lento, ma concede tempo perché gli uomini giungano al pentimento. Poi compare un’affermazione sorprendente: i credenti non devono solo attendere il Giorno di Dio ma “affrettarlo”. Il linguaggio greco impiegato implica un’azione reale e intenzionale: l’integrità morale dei credenti, il pentimento, la condotta santa possono influire sul ritmo con cui Dio porta a compimento la storia. A differenza del Talmud, però, il soggetto non è solamente Israele come collettività, bensì la comunità dei credenti, e l’obiettivo non è la restaurazione politica o nazionale ma la trasformazione cosmica: cieli dissolti, terra rinnovata, giudizio universale.
Pur restando diversi, i due testi condividono alcuni elementi strutturali: affermano che Dio è sovrano e ha fissato un termine; riconoscono che la condotta umana può anticipare questo termine; leggono Isaia 60 come autorizzazione a una partecipazione attiva dell’uomo. Questo dato sorprende sia il cristiano fatalista, che vorrebbe limitarsi ad attendere, sia l’ebreo che immagina il Nuovo Testamento come ultraterreno e disinteressato alle opere. In realtà, entrambi i testi mettono in gioco il comportamento etico come fattore storico, non ornamentale.
Nel Talmud il Messia non è figura divina; in Pietro, la venuta riguarda Cristo glorificato come giudice cosmico. Nel Talmud si affretta la redenzione di Israele; in Pietro si accelera il giudizio finale e la nuova creazione. L’ebraismo tradizionale insiste sulle opere e sulla fedeltà dell’alleanza; Pietro situa l’etica nel quadro della grazia e del pentimento. Il Talmud non entra in scenari catastrofici; Pietro parla esplicitamente di dissoluzione cosmica. Tuttavia, il punto che avvicina queste prospettive è la convinzione che Dio, nel condurre la storia, “aspetti” l’uomo: nel Talmud attende la maturità spirituale di Israele, in Pietro prolunga il tempo affinché più persone si salvino. L’escatologia, per entrambe le tradizioni, diventa così una chiamata etica immediata: non interessa speculare sul quando, ma chiedere che tipo di persone siamo oggi.
Un commentatore ebreo messianico ha notato che se l’uomo accelera la fine, allo stesso tempo la fine accelera l’uomo: l’attesa genera urgenza, l’urgenza produce condotta morale e questa condotta diventa a sua volta leva escatologica. Il futuro modella il presente, mentre il presente contribuisce a spingere avanti il futuro. Non si tratta di stabilire date, ma di coltivare un carattere capace di vivere davanti a Dio.
Alla luce di questi testi, la conclusione è che la fine del tempo non è pura decisione sovrana né conquista umana: è uno spazio di cooperazione, nel quale Dio guida e l’uomo risponde. Per l’ebraismo si tratta di pentimento e buone opere, per il cristianesimo di pentimento e vita santa. Entrambi leggono Isaia 60 non come licenza di manipolare il futuro, ma come invito a un’assunzione di responsabilità. In questa prospettiva, la Seconda Venuta non autorizza la passività religiosa e non giustifica fanatismi cronologici: chiama invece a maturità morale, responsabilità quotidiana e speranza attiva. Se Dio attende, non è perché esiti, ma perché chiede all’uomo di muoversi. L’escatologia diventa quindi non una dottrina sul calendario, ma una dottrina sul carattere, sulla libertà e sulla trasformazione.
La lettura di Karl Rahner sulla Seconda Venuta ci permette di fare un ulteiore passo in avanti nella demitologizzazione della visione apocalittica che sia Gesù che i suoi discepoli fino agli apostoli avevano del futuro. Per Rahner, la Seconda Venuta è il compimento ultimo di ciò che è già iniziato con la risurrezione di Cristo. La venuta finale non introduce una nuova fase scollegata dal presente: è la manifestazione definitiva della salvezza che già opera nella storia. La Parusia non è l’arrivo di qualcosa di estraneo, ma l’esplicitazione di ciò che nel tempo rimane nascosto. Con una immagine biblica si può dire che la Seconda Venuta è la riconsegna del Rotolo della storia (dis-piegamento della vita divina) nella mani dell’eterno (semplificazione nell’Unum).
Rahner pensa l’uomo come essere aperto all’Assoluto, strutturalmente orientato a Dio. L’escatologia non è evasione dalla vita terrena ma pienezza del suo senso più profondo. La pienezza è ciò che Tommaso d’Aquino afferma a proposito del voler il bene dell’altro. L’escatologia è il senso più profondo dell’amore: volere-il-bene-dell’altro. L’ingresso nella pienezza dell’Amore si manifesta già nella morte personale: la persona entra nella decisione definitiva della propria libertà davanti a Dio. Saremo giudicati sull’amore. Quando Gesù interroga Pietro (Gv 21, 1-19), ogni creatura viene interrogata: “Mi ami tu?”. L’Amore perfeziona ogni cosa e non viceversa. Non è la perfezione che Dio cerca in me, ma l’autenticità dell’amor, cioè l’amore che posso “qui ed ora” offrire e ancor più ricevere. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (San Giovanni della Croce). Se anche avrò tradito Dio per mille volte, lui per mille volte mi chiederà: mi vuoi bene? E non dovrò fare altro che rispondere, per mille volte: sì, ti voglio bene.
Ciò non elimina una dimensione collettiva e cosmica della fine, ma la radica nell’esperienza personale. La Parusia è così correlata alla morte individuale e al compimento dell’umanità intera: la storia giunge al momento in cui la libertà si rivela senza più ambiguità e la grazia di Dio può comunicarsi senza resistenze.
Le immagini bibliche di distruzione, fuoco e catastrofe hanno un significato simbolico. A Rahner non interessa un teatro della rovina, ma la trasformazione del mondo in pienezza. Il giudizio non è un tribunale esteriore: è la rivelazione definitiva di ciò che la persona è diventata tramite le sue scelte. Cristo allora non torna come figura spettacolare che irrompe nello spazio, ma come la verità ultima che si manifesta. La consumazione finale coincide con la trasparenza del mondo alla presenza divina. Il mondo diventa sacramento di Dio, non maceria.
In questa prospettiva, l’attesa cristiana non giustifica immobilismo o fuga dal mondo. Se Cristo è già presente, ogni decisione storica partecipa al suo compimento. La Parusia è motivo di impegno, non di disimpegno: missione, responsabilità, solidarietà e trasformazione sociale diventano forme concrete di collaborazione al mistero. L’escatologia non consiste nel guardare il cielo aspettando un rientro spettacolare, ma nel vivere la storia come luogo in cui Cristo si comunica progressivamente. Rahner non toglie alla fede il suo orizzonte finale, ma chiede di pensarlo come pienezza della grazia già attiva. La Seconda Venuta è la verità ultima della storia e della persona, la rivelazione di ciò che Dio opera fin dall’inizio, la consumazione di Cristo in tutto e in tutti.
La scena del Giudizio universale o cosmico di Mt 25,31-46 ha una portata non solo simbolica ma direi mistica. Cosa significa che al tramonto della vita conterà solo l’amore? Significa che diventeremo Colui attraverso cui abbiamo amato. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Diventeremo una cosa sola con colui che è Amore. Nel Commentario sulla Lettera di Giovanni ai Parti (Trattato 2, n. 14), Sant’Agostino dichiara che “ognuno è come il suo amore è. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Cosa devo dire? Vuoi diventare Dio? – Non oso dirlo da solo; ascoltiamo la Scrittura: Ho detto: ‘Voi siete dèi, e tutti figli dell’Onnipotente.’ (Salmo 81.6)”.
«La Parusia di Cristo non è altro che il compimento della storia (di Cristo, dell’umanità e del mondo) in Dio, nella misura in cui diventa allora evidente a tutti — poiché tutti avranno raggiunto il loro fine, nella salvezza o nella perdizione — che la realtà del Cristo crocifisso e risorto, il quale “ritorna” in quanto tutti si presentano davanti a lui, costituisce l’inizio e la ragione permanente dell’irreversibilità della storia della salvezza, il suo significato centrale e il suo culmine.»
«Se, da un lato, distinguiamo ciò che nel ritorno di Cristo può essere considerato oggettivamente “in sé” da ciò che, nei racconti biblici e nelle tradizioni, è solo una raffigurazione immaginativa (cfr. K. Rahner, “L’ermeneutica delle affermazioni escatologiche”, in Indagini teologiche IV, Londra–Baltimora 1966, pp. 323–346), e se, dall’altro lato, ricordiamo che il “presentarsi” degli uomini davanti al Cristo glorificato, attraverso il loro compimento personale e collettivo, è esso stesso un atto di Dio in Cristo, allora questa affermazione può essere accolta senza difficoltà. Tuttavia, ciò è importante perché la seconda venuta di Cristo — se non la si vuole intendere in senso mitologico — non può essere un nuovo ingresso di Cristo dentro la nostra attuale dimensione di spazio e tempo, ma deve piuttosto essere la trasformazione e l’elevazione di tale dimensione alla sua gloria. Ed è precisamente questo che la frase intende esprimere.»
Karl Rahner, “The Church and the Parousia of Christ”, in Theological Investigation. Vol. VI, Darton, Longman & Todd, London 1969, 295-312, 295 + nota 1