Una volta un critico chiese a Pierre Teilhard de Chardin: “Cosa stai cercando di fare? Perché tutto questo parlare di atomi e molecole quando parli di Gesù Cristo? ” La sua risposta: sto cercando di formulare una cristologia abbastanza grande da incorporare il cosmo in Cristo perché Cristo non è solo un evento antropologico ma è anche un fenomeno cosmico.
In sostanza, quello che stava dicendo è che “Cristo” non è venuto solo per salvare gli esseri umani; è venuto anche per salvare la terra. Ma per comprendere questo non si deve più considerare “Cristo” come una cosa sola con “Gesù”, come se fosse il suo cognome. “Cristo” è l’intero, che comprende Gesù e la terra, e tutti i suoi abitanti (dai quark agli esseri viventi, dagli animali all’homo sapiens). “Cristo” è l’unità dinamica di materia e spirito: auto-trascendenza creatrice.
È importante tener presente questa distinzione quando cerchiamo di capire ciò che è implicito nella risurrezione di Gesù. L’uomo di Nazareth è stato risuscitato dalla morte alla vita. Un corpo è una realtà fisica, quindi quando Gesù è stato fatto risorgere e innalzato come corpo, in lui non c’era meramente “spirito” e “anima”. C’era qualcosa di più: qualcosa di radicalmente fisico. Quando un cadavere viene riportato in vita, gli atomi e le molecole vengono riorganizzati. Ma vengono ri-organizzate non come erano “prima”. Se c’è qualcosa di radicalmente “fisico” nella resurrezione di Gesù, è “qualcosa di fisico” che è di più, e non di meno, di quanto era “prima”. Ecco perché anche se la tomba di Gesù fosse stata trovata “piena” del suo cadavere, questo cadavere non “identifica” Gesù. Ciò che “identifica” Gesù è lo spirito di Gesù: l’auto-trascendenza creatrice che nella resurrezione ha ri-organizzato gli atomi e le molecole non di un cadavere ma di un corpo spirituale.
La risurrezione è la base della speranza umana, sicuramente; senza di essa, non potremmo sperare in un futuro che includa qualcosa al di là dei limiti di questa vita. Nella risurrezione di Gesù, ci viene data una novità che non è solo di “noi” ma di tutta la terra e di tutto il cosmo. “Cristo” è la piena realizzazione dell’auto-trascendenza creatrice e non riguarda solo noi uomini, ma tutta la terra e il cosmo. Noi siamo “terra” proprio perché siamo “qualcosa di fisico”.
In una corretta comprensione cristiana delle cose, la terra non è solo un palcoscenico per gli esseri umani, una cosa senza valore in sé, a parte noi. Come l’umanità, anche questa è l’opera d’arte di Dio, il figlio di Dio. In effetti, la terra fisica è nostra madre, la matrice da cui tutti scaturiamo. Alla fine, non siamo separati dal mondo naturale; piuttosto diventiamo ancor di più quella “natura” che in noi si è fatta cosciente di se stessa. Non siamo separati dalla terra e il cosmo non è un palcoscenico che serve per inscenare la “storia dell’umanità” e quando questa storia finisce, allora il palcoscenico viene smontato. La creazione fisica ha valore in sé, indipendentemente da noi. Dobbiamo riconoscerlo, e non solo praticare una migliore eco-etica in modo che la terra possa continuare a fornire aria, acqua e cibo per le future generazioni di esseri umani. Dobbiamo riconoscere il valore intrinseco della terra. È anche l’opera d’arte di Dio, è la nostra madre biologica ed è destinata a condividere l’eternità con noi.
Come noi, anche la terra è soggetta al decadimento. Anch’essa è legata al tempo ed è mortale. La scienza insegna che il nostro universo è soggetto alla legge dell’entropia, cioè che l’energia prima o poi si esaurirà nell’universo. Non solo i nostri, ma anche gli anni della nostra terra sono contati, finiti. Ci vorranno milioni di anni, ma anche l’universo giungerà alla sua fine.
Nella lettera ai Romani Paolo dice che la creazione, il cosmo fisico, è soggetto alla corruzione, e che geme e desidera di essere liberato per godere della gloriosa libertà dei figli di Dio. Paolo ci assicura che la terra godrà dello stesso destino degli esseri umani: risurrezione, trasformazione oltre la nostra immaginazione presente, un futuro eterno.
Come verrà trasformata la terra? Sarà trasformato nello stesso modo in cui lo siamo noi, attraverso la risurrezione. Questa trasformazione e risurrezione non sono agito “dall’esterno” ma sono la stessa auto-trascendenza creatrice presente ed operante in ogni essere e in tutto il cosmo.
Nella risurrezione di Gesù non è accaduto qualcosa di nuovo che prima non c’era. Ciò che è accaduto è stata una maggiore consapevolezza che questa trasformazione e risurrezione (che chiamiamo “Cristo”) sta avvenendo ed è in corso di attuazione. Per questo coloro che hanno preso consapevolezza di questo attraverso alcuni fenomeni che chiamiamo “apparizioni” hanno unito il nome di “questo Gesù” con quello di “Cristo”, cioè della forza creatrice di Dio che “identifica” e “fa essere” ogni singolo essere creato da sempre e dall’eternità. Se la risurrezione è il fine di tutto il creato, lo Spirito è quella forza creatrice che agisce in ogni essere e in tutto il creato come auto-trascendenza. Fin dal Big Bang lo Spirito ha toccato ogni aspetto dell’universo, dall’anima alla psiche, all’interno di ogni uomo e donna al nucleo interno di ogni atomo e molecola, conducendo non solo Gesù di Nazareth, non solo noi uomini, ma tutto il creato verso la definitiva trasformazione cosmica. “Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).
Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino – La cattura di Cristo
“Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo” (Mc 14,52)
Salvezza … Una parola venerabile, che si riferisce a un contenuto considerato ovvio, è diventata per noi fonte di confusione, senza un significato coerente nel nostro quadro concettuale. Una specie di velo, un lenzuolo che ricopre chi siamo.
Cos’è la salvezza? Lo schema classico proclamava: Siamo stati salvati dalla croce di Nostro Signore Gesù Cristo, che con il suo sangue ha espiato i nostri peccati.
Ci ha liberati dal diavolo e ci ha aperto le porte del paradiso. Si parlava di sacrificio, espiazione, riscatto, redenzione …
Ma, se siamo realistici, saremo d’accordo che tutto quel linguaggio oggi è ormai privo di significato.
Sono concetti ed immagini che trasmettono un’esperienza di salvezza che qualcosa di magico, come di qualcosa che viene eseguito dall’esterno e che libera noi stessi da una pena o punizione.
Ma molti di noi facciamo esperienza che la salvezza non consiste tanto nel liberare il nostro sé da qualcosa, ma nel liberarsi dal proprio sé, cioè dalla possessione di sé, una distinzione tanto sottile quanto fondamentale.
Con le parole di Bruder Klaus, Santo patrono della Svizzera del XV secolo:
Mio Signore e mio Dio,
togli da me
tutto ciò che mi allontana da Te.
Mio Signore e mio Dio,
dammi tutto ciò
che mi conduce a Te.
Mio Signore e mio Dio,
toglimi a me
e dammi tutto a Te.
“Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono”. Anche Dio, lo abbandonò.
«Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Dio … Una parola ancora più venerabile, con la quale i nostri antenati hanno voluto nominare il nucleo essenziale del Reale, la pienezza e la luminosità del Mistero dell’essere. Ma anche una parola che ci è giunta logora, manipolata e, in molti casi, vuota.
Oggi siamo sempre più consapevoli che il termine “Dio” non può riferirsi a un Essere separato e interventista, oggetto di una credenza. Perché sia il dio in cui si crede sia il dio che si nega, entrambi sono idoli o, più precisamente, è “un dio” che in croce non salva.
Per questo è necessario andare oltre la credenza e l’incredulità, oltre le immagini mitiche che vogliono tutte afferrare e tener stretto nella mano il Mistero.
Queste credenze, pensieri ed immagini, ci abbandonano quando entriamo nella soglia del mistero.
Forse sta propri qui l’etimologia della parola “abbandono” essere buttati alla “mercé” di qualcosa o di qualcuno, dal franco bann “potere”.
Ma allo stesso tempo, si dà il senso della parola “abbandonare” anche nella scomposizione della parola latina: abandonum.
Il liberarsi dalla banda, dal legame, da chi ha potere e mi tiene stretto. Dalla parola “Band” deriva il tedesco Hand che è la mano. Lasciar andare la presa, non possedersi più, non avere più potere sulle cose, su di sé, sugli altri e su Dio.
Nell’assoluta “im-potenza” Gesù varca la soglia dell’oltre e si abbandona. “Ma Gesù, dando un forte grido, spirò”: ἐξέπνευσεν. “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso” (Gv 8,28).
Dio è pura consapevolezza. Dio guarda, contempla attentamente come una sentinella fedele e vigile, ogni singola creatura. “Chino sulla creazione che sale verso di Lui, Egli lavora, con tutta la sua potenza, a beatificarla e ad illuminarla. Come una madre, Egli spia il suo neonato. Ma i miei occhi non saprebbero ancora percepirlo” (Teilhard de Chardin, Credo in questo mondo).
Proprio nel guardarla, questa “è”. In questo sguardo eterno ed amorevole, ogni creatura viene alla luce. Così ogni creatura viene alla luce quando percepisce di essere “guardata” e “percepita” dallo sguardo divino. Noi sappiamo che siamo, perché siamo guardati da Dio. Il nostro essere è essere guardati da Dio; se Dio non ci guardasse e custodisse noi saremmo nulla.
La differenza tra “noi” umani e le altre creature non è nello sguardo di Dio (genitivo soggettivo). Dio guarda – ed è per questo “presente eternamente” ad ogni creatura – ogni essere. E proprio perché “è guardato” … è creato e conservato nell’essere! “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio” (Lc 12,6). Dio vede “ogni” essere – dall’inorganico all’organico, dal senziente al cosciente – ed “ogni” essere guarda Dio a seconda della capacità della sua anima: vegetativa, sensitiva e razionale.
Dunque, per vederci radicalmente esistenti e non superficialmente, dobbiamo vederci visti da Dio. La radice metafisica della nostra stessa esperienza è la contemplazione che Dio esercita nei nostri confronti e con la quale ci costituisce nell’essere. Per questo, il modo più vero di percepirci è quello di percepirci in Dio. La fede è “sapersi” visti, osservati e guardati. Per questo ogni essere – guardato da Dio – è un essere di “riguardo”. La nobiltà di ogni essere. “Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo” (Sal 138,14).
Se il nostro essere è essere percepiti, il nostro percepire il nostro essere è tanto più radicale e profondo quanto più è un percepire il percepire che ci fa essere. L’ontologia si risolve nella contemplazione divina, cioè nell’atto con il quale e nel quale Dio ci contempla.
Se la mia ontologia consiste nell’essere percepito da Dio, allora la mia piena conoscenza la possiede Dio, così come il mio essere. “Tu mi scruti e mi conosci” (Sal 138,1).
Dunque, per conoscere il mio essere pienamente occorre che io mi percepisca in Dio. Essere “presenti” alla Presenza, nel Presente – l’istante del tota simul possessio – di Dio. Se il mio essere si risolve nell’essere percepito da Dio, la percezione che io ho del mio essere, ce l’ho in Dio.
Nulla è, fuori dal Suo sguardo. “Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?
“Se salgo in cielo, là tu sei. Se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra e intorno a me sia la notte»; nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (Sal 138, 6-12).
L’essere percepito è essenziale ad ogni creatura. Sub specie temporis e in statu viatoris vediamo noi e il cosmo come una montagna che si riflette in uno specchio d’acqua. A tratti e in certi momenti l’immagine della montagna ( = Dio) è nitida, chiara e cristallina. “Ti vedo, Signore, eccoti!”. Così gridiamo. Ma in altri tempi e situazioni, Lo vediamo confuso, vago, quasi scomparso. E allora gridiamo: “Dove sei, Signore?”. Non ci rendiamo conto che non è “Dio” che va e viene, si fa presente e poi si fa assente. Ma è l’acqua che quando è tranquilla e pacifica riflette “nitidamente” e “chiaramente” Colui di cui è immagine: la Montagna, cioè Dio. Mentre, quando la nostra anima è turbata e inquieta, “sembra” scomparire quell’immagine. Non percepiamo più come siamo percepiti. “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Cor 13, 12). Ma non è Dio che se ne va o gioca a nascondino. Siamo noi che ne “veliamo” la presenza con il nostro “stato d’animo”.
Solo “restando” alla presenza, senza voler “muovere ancor più le acque della nostra anima” per capire, comprendere e risolvere ciò che capita, lasciamo che tutto s’acquieta e appaia Colui che per un istante (nostro istante) era svanito. “Dice il tuo Dio. Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore” (Is 54,7-8). Ripeto: ciò che è detto di Dio (ti ho abbandonata, ti ho nascosto), è detto dell’anima (che Lo ha abbandonato, si è a Lui nascosta). “Chi, dunque, ti guarda con amoroso volto, troverà solo il tuo volto che lo guarda amorosamente. E con quanto più amore si applicherà per scrutarti, tanto più amore troverà nel tuo volto. Chi ti guarda con sdegno, troverà la tua faccia sdegnosa. Chi ti guarda con animo lieto, la troverà lieta come quella di chi ti guarda. Come l’occhio della carne che guarda attraverso un vetro rosso giudica che sono rosse tutte le cose che vede e crede che siano verdi tutte quelle che vede attraverso un vetro verde, così l’occhio della mente, velato dalla contrazione e dalla passione, giudica te che sei l’oggetto della mente secondo la natura della contrazione e della passione” (Nicolò Cusano, La visione di Dio, cap. 6)
Benedizione dei “soggetti” dell’unione, ma non dell’”oggetto” di questa unione.
a) Il Responso “non esclude che vengano impartite benedizioni a singole persone con inclinazione omosessuale, le quali manifestino la volontà di vivere in fedeltà ai disegni rivelati di Dio così come proposti dall’insegnamento ecclesiale”. La benedizione alle singole persone con inclinazione omosessuale è concessa solo a coloro che “manifestano” di vivere da singoli il loro orientamento sessuale in castità. Il Responso non esclude che singole persone con inclinazione omosessuale possano vivere in un’unione di “casta” amicizia e che questa unione di amicizia – manifesta in quanto “casta” – possa in quanto tale essere lecitamente benedetta.
b) Il Responso riconosce come illecito riconoscere una benedizione all’unione di due persone dello stesso sesso, così come a persone di sesso diverso che contraessero un’unione o partenariati anche stabili, “che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita)”. Ciò che il Responso vieta è l’esercizio della sessualità “al di fuori” del matrimonio in quanto solo l’ambito matrimoniale rende lecito ogni possibile attività sessuale. Ne segue che sia la masturbazione individuale, sia il rapporto prematrimoniale, sia l’unione di un uomo e una donna vissuta al di fuori del sacramento del matrimonio (unione civile) e sia l’unione di due persone dello stesso sesso, in quanto sono tutte prassi sessuali “fuori dal matrimonio” non possono essere “oggetto” di una benedizione. Solo il matrimonio rende lecito l’esercizio della sessualità il cui fine è la procreazione e l’unione tra un uomo e una donna.
Questo è il disegno rivelato di Dio sulla sessualità umana: il matrimonio – sacramentalmente celebrato e vissuto – tra un uomo e una donna.
Tutto ciò che è vissuto “sessualmente” al di fuori del matrimonio non ha senso e non può essere benedetto, poiché è “intrinsecamente” non ordinato al disegno divino sulla sessualità umana e quindi incapace di ricevere una benedizione. Ciò non significa che i soggetti siano incapaci di ricevere la benedizione o ne siano esclusi. I soggetti (uomo o donna che sia) possono singolarmente accostarsi al sacerdote a ricevere una benedizione “se” manifestano l’intenzione di vivere “senza esercitare” la loro sessualità: dunque, senza masturbarsi, senza avere rapporti con un’altra persona dello stesso o di altro sesso.
Ma chiediamoci: Sessualità è Matrimonio?
Fin quando “Sessualità” e “Matrimonio” vengono identificati tout court, per cui il fine della sessualità è il matrimonio, ed ogni atto sessuale senza questa finalità viene considerato intrinsecamente dis-ordinato, poiché non è ordinato al matrimonio (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2352), allora sono vane le aperture pastorali agli omosessuali. Basta leggere cosa la Chiesa cattolica romana dice della masturbazione: “Per masturbazione si deve intendere l’eccitazione volontaria degli organi genitali, al fine di trarne un piacere venereo. «Sia il Magistero della Chiesa – nella linea di una tradizione costante – sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato». «Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale al di fuori dei rapporti coniugali normali contraddice essenzialmente la sua finalità». Il godimento sessuale vi è ricercato al di fuori della «relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana». Al fine di formulare un equo giudizio sulla responsabilità morale dei soggetti e per orientare l’azione pastorale, si terrà conto dell’immaturità affettiva, della forza delle abitudini contratte, dello stato d’angoscia o degli altri fattori psichici o sociali che possono attenuare, se non addirittura ridurre al minimo, la colpevolezza morale”.
Tutto ciò che è vissuto “fuori dal matrimonio” è “contro natura”, contro e fuori dal “fine” che è amore procreativo celebrato sacramentalmente tra uomo e donna.
Masturbazione ed atti omosessuali sono contro-natura e dis-ordinati intrinsecamente.
L’attenzione pastorale alle persone omosessuali, dunque, non è un attento ascolto della loro esperienza concreta ma avviene in base a un pre-giudizio e una mancanza che è loro costitutiva.
Masturbazione ed atti omosessuali sono “in-sensati”.
Mi chiedo allora: se tutte le cose create (tutte!!! anche i vermi e le pietre) “appetunt deum” come afferma Tommaso d’Aquino, non è il desiderio (appetitum) di Dio cioè di Colui che è amore fecondo, generante, comunicante la Vita, il fine della sessualità: l’amore come “forma” della corporeità che realizza nei vari esseri l’unione a vari gradi e differentemente: partecipazione dell’amore e vita abbondante di Dio?
La Rivelazione biblica e la riflessione antropologica suggeriscono di vedere nella sessualità una forma eminente dell’incontro con l’altro, dove l’altro, nel disegno di Dio è l’essere umano di sesso differente. “Il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda’” (Gen 2,18). Non è né il solo maschio, né la sola donna creati ad immagine di Dio; l’uomo “è” immagine di Dio non tanto nella mascolinità o nella femminilità, ma nella “relazione”. “L’immagine divina non va dunque anzitutto ricercata nella differenza sessuale, ma nell’umano unitariamente inteso, o meglio […] nella relazione, la quale sta a fondamento dello strutturasi dell’umano” (Piana 2000, p. 51). L’incontro con l’altro nella forma della differenza sessuale, dunque, è solo una delle espressioni in cui l’uomo fa esperienza di sé e giunge alla comprensione della propria identità (אָדָם – Adam). Come Dio è in se stesso relazione immanente (Padre, Figlio e Spirito Santo), così l’uomo è immagine di Dio in quanto essere relazionale “(maschio) e (femmina)” e non in quanto “maschio (e) femmina“. “Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Ciò significa che la finalità e l’ordine, con metafora biblica il gan Eden, dell’uomo è di divenire sempre più imago dei, cioè il Cristo.
«L’icona trinitaria rende perciò trasparente la priorità della relazione rispetto alle modalità secondo le quali si realizza, al punto che la stessa differenza tra le persone divine è piuttosto conseguenza o effetto (e non causa) della relazionalità» (Piana 2000, p.52)
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Benedizione dei “soggetti” dell’unione, ma non dell’”oggetto” di questa unione.
a) Il Responso “non esclude che vengano impartite benedizioni a singole persone con inclinazione omosessuale, le quali manifestino la volontà di vivere in fedeltà ai disegni rivelati di Dio così come proposti dall’insegnamento ecclesiale”. La benedizione alle singole persone con inclinazione omosessuale è concessa solo a coloro che “manifestano” di vivere da singoli il loro orientamento sessuale in castità. Il Responso non esclude che singole persone con inclinazione omosessuale possano vivere in un’unione di “casta” amicizia e che questa unione di amicizia – manifesta in quanto “casta” – possa in quanto tale essere lecitamente benedetta.
b) Il Responso riconosce come illecito riconoscere una benedizione all’unione di due persone dello stesso sesso, così come a persone di sesso diverso che contraessero un’unione o partenariati anche stabili, “che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita)”. Ciò che il Responso vieta è l’esercizio della sessualità “al di fuori” del matrimonio in quanto solo l’ambito matrimoniale rende lecito ogni possibile attività sessuale. Ne segue che sia la masturbazione individuale, sia il rapporto prematrimoniale, sia l’unione di un uomo e una donna vissuta al di fuori del sacramento del matrimonio (unione civile) e sia l’unione di due persone dello stesso sesso, in quanto sono tutte prassi sessuali “fuori dal matrimonio” non possono essere “oggetto” di una benedizione. Solo il matrimonio rende lecito l’esercizio della sessualità il cui fine è la procreazione e l’unione tra un uomo e una donna.
Questo è il disegno rivelato di Dio sulla sessualità umana: il matrimonio – sacramentalmente celebrato e vissuto – tra un uomo e una donna.
Tutto ciò che è vissuto “sessualmente” al di fuori del matrimonio non ha senso e non può essere benedetto, poiché è “intrinsecamente” non ordinato al disegno divino sulla sessualità umana e quindi incapace di ricevere una benedizione. Ciò non significa che i soggetti siano incapaci di ricevere la benedizione o ne siano esclusi. I soggetti (uomo o donna che sia) possono singolarmente accostarsi al sacerdote a ricevere una benedizione “se” manifestano l’intenzione di vivere “senza esercitare” la loro sessualità: dunque, senza masturbarsi, senza avere rapporti con un’altra persona dello stesso o di altro sesso.
Ma chiediamoci: Sessualità è Matrimonio?
Fin quando “Sessualità” e “Matrimonio” vengono identificati tout court, per cui il fine della sessualità è il matrimonio, ed ogni atto sessuale senza questa finalità viene considerato intrinsecamente dis-ordinato, poiché non è ordinato al matrimonio (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2352), allora sono vane le aperture pastorali agli omosessuali. Basta leggere cosa la Chiesa cattolica romana dice della masturbazione: “Per masturbazione si deve intendere l’eccitazione volontaria degli organi genitali, al fine di trarne un piacere venereo. «Sia il Magistero della Chiesa – nella linea di una tradizione costante – sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato». «Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale al di fuori dei rapporti coniugali normali contraddice essenzialmente la sua finalità». Il godimento sessuale vi è ricercato al di fuori della «relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana». Al fine di formulare un equo giudizio sulla responsabilità morale dei soggetti e per orientare l’azione pastorale, si terrà conto dell’immaturità affettiva, della forza delle abitudini contratte, dello stato d’angoscia o degli altri fattori psichici o sociali che possono attenuare, se non addirittura ridurre al minimo, la colpevolezza morale”.
Tutto ciò che è vissuto “fuori dal matrimonio” è “contro natura”, contro e fuori dal “fine” che è amore procreativo celebrato sacramentalmente tra uomo e donna.
Masturbazione ed atti omosessuali sono contro-natura e dis-ordinati intrinsecamente.
L’attenzione pastorale alle persone omosessuali, dunque, non è un attento ascolto della loro esperienza concreta ma avviene in base a un pre-giudizio e una mancanza che è loro costitutiva.
Masturbazione ed atti omosessuali sono “in-sensati”.
Mi chiedo allora: se tutte le cose create (tutte!!! anche i vermi e le pietre) “appetunt deum” come afferma Tommaso d’Aquino, non è il desiderio (appetitum) di Dio cioè di Colui che è amore fecondo, generante, comunicante la Vita, il fine della sessualità: l’amore come “forma” della corporeità che realizza nei vari esseri l’unione a vari gradi e differentemente: partecipazione dell’amore e vita abbondante di Dio?
La Rivelazione biblica e la riflessione antropologica suggeriscono di vedere nella sessualità una forma eminente dell’incontro con l’altro, dove l’altro, nel disegno di Dio è l’essere umano di sesso differente. “Il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda’” (Gen 2,18). Non è né il solo maschio, né la sola donna creati ad immagine di Dio; l’uomo “è” immagine di Dio non tanto nella mascolinità o nella femminilità, ma nella “relazione”. “L’immagine divina non va dunque anzitutto ricercata nella differenza sessuale, ma nell’umano unitariamente inteso, o meglio […] nella relazione, la quale sta a fondamento dello strutturasi dell’umano” (Giannino Piana). L’incontro con l’altro nella forma della differenza sessuale, dunque, è solo una delle espressioni in cui l’uomo fa esperienza di sé e giunge alla comprensione della propria identità (אָדָם – Adam). Come Dio è in se stesso relazione immanente (Padre, Figlio e Spirito Santo), così l’uomo è immagine di Dio in quanto essere relazionale “(maschio) e (femmina)” e non in quanto “maschio (e) femmina“. “Non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Ciò significa che la finalità e l’ordine, con metafora biblica il gan Eden, dell’uomo è di divenire sempre più imago dei, cioè il Cristo. Il disegno divino è la creazione “in Cristo”.
La complementarietà non è quindi esclusiva dell’eterosessualità, ma sincere espressioni di amicizia e amore tra persone anche del medesimo sesso costituisco un’esperienza di quella ricerca di alterità che non è altro che un lungo viaggio alla scoperta della propria identità.
L’incontro con l’altro è l’alveo in cui scorre il fiume impetuoso della sessualità. La fede cristiana esprime con agape la realizzazione piena di questo incontro con l’altro: eros ed agape non si lasciano mai separare l’uno dall’altro. Così si esprime papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est al n. 7: «Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere». Sessualità e relazionalità sono le due modalità concrete con cui si rapportano eros ed agape. Senza amore l’eros rischia di arenarsi nell’orizzonte dell’ego e dei suoi bisogni; senza passione l’amore finisce di degenerare nel comandamento.
Come vari e molteplici sono le forme di questa relazionalità, così varie e molteplici sono le forme della sessualità: è necessario pertanto recuperare una comprensione analogica della sessualità, che sappia riconoscere cosa ci sia di somigliante e di differente nell’orientamento omo– ed eterosessuale.
Un primo semplice passo per sdoganarsi dall’alternativa “omosessualità sì, omosessualità no” sarebbe quello di applicare alla comprensione dell’amore sessuale quel modello ecclesiologico utilizzato dal Concilio Vaticano II per dar ragione dell’ecclesialità di coloro che erano considerati “fuori” dalla Chiesa cattolica.
Prima del Concilio Vaticano II si diceva: o si è dentro la Chiesa cattolica o si è fuori. Tertium non datur. Chi non era cattolico era “eretico” e la sua chiesa era considerata una setta. Viveva in un vuoto ecclesiale. La comprensione conciliare ha avviato, invece, una visione graduale dell’ecclesialità. C’è un più e un meno. Il documento conciliare Unitatis Redintegratio al n. 22 afferma che nelle comunità ecclesiali nate dalla Riforma del XVI secolo è presente un defectus ordinis. Secondo la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica in queste comunità ecclesiali non ci sarebbe vero sacerdozio ministeriale, e dunque non può essere celebrata una “vera” eucaristia. Ma i teologi ecumenisti si interrogano se caso mai si tratti non di un’assenza (defectus ut nihil), ma di una mancanza, ovvero di una non-pienezza dell’ordine sacro (defectus ut minus). Anzi si può dire che queste comunità ecclesiali sono “chiese” non nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo: sono “chiese” di un altro tipo, alle quali dal punto di vista cattolico “mancano” elementi essenziali per la concezione cattolica della Chiesa. Il defectus è in riferimento alla dimensione confessionale e categoriale della Chiesa cattolica; ciò non toglie che dal punto di vista ontologico ed ecclesiale queste Comunità ecclesiali siano propriamente e veramente “chiese”.
Questo modello ecclesiologico che ha fatto scoprire nelle chiese della Riforma elementi della ecclesia Christi, potrebbe aiutarci a far scoprire nell’amore omosessuale elementi di quella relazionalità che sono costitutivi della persona umana creata ad immagine di Dio. Medesima ermeneutica e applicazione analogica del modello ecclesiologico del Concilio si è riscontrata nell’intervento del card. Christoph Schönborn, durante il recente sinodo straordinario sulla famiglia. Il cardinale applica al matrimonio quanto la Lumen gentium n. 8 dice a proposito degli “elementa ecclesiae”. Il cardinale si domanda se parecchi elementi di santificazione e di verità possano trovarsi nelle forme imperfette di matrimonio e di famiglia: unioni di fatto, convivenza di non sposati e matrimoni senza certificato di nozze.
In una intervista, pubblicata dalla rivista dei gesuiti americani America, il card. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, ha ripreso questo concetto di gradualità nella valutazione delle relazioni omosessuali. Benché queste per la Chiesa non siano da porre allo stesso livello di quelle eterosessuali, non possono essere giudicate del tutto negativa. “Non è possibile vedere una persona solo da un punto di vista, senza considerare tutta la situazione di una persona. Questo è molto importante per l’etica sessuale. Proprio il mese scorso, il vescovo Johan Bonny di Anversa, in Belgio, ha detto che la Chiesa dovrebbe riconoscere una ‘diversità di forme’ e potrebbe benedire delle relazioni gay basate su questi valori di amore, fedeltà e impegno”.
Applicando ulteriormente questa ermeneutica della gradualità non solo al matrimonio ma più in generale alla sessualità, integrando la dimensione della gradualità con quella delle diverse forme di sessualità e del loro sviluppo, possiamo riconoscere all’amore coniugale tra uomo e donna la piena sussistenza/normatività, non è escluso che l’amore tra due persone dello stesso sesso possa essere espressione – benché imperfetta – di amore. Espressione “imperfetta” non significa che sia di “serie B” o sia inferiore a quella eterosessuale. Significa semplicemente che non gode di quella pienezza che ha l’amore coniugale eterosessuale, in quanto è privo del significato procreativo. Ciò non toglie che dal punto di vista della relazione affettivo-sessuale l’intimità tra due persone dello stesso sesso sia espressione di amore, ad immagine dell’amore trinitario.
Dal punto di vista “trascendentale-erotico” e non “categoriale-procreativo”, non si dà un più o un meno, ma una pienezza valoriale che varia a seconda della qualità morale della relazione, ben espressa dal comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso». (Mt 22,39). Amare l’altro, secondo l’agape, significa ricercare il suo bene, amando l’altro/a in modo tale che questi diventi più forte, più indipendente, e non più debole e meno capace di assumere autonomamente la propria vita.
L’amore eterosessuale non esaurisce la totalità di quella relazionalità che fa sì che l’uomo sia immagine di Dio! Bisogna quindi comprendere la sessualità in maniera analogica e non univoca; piuttosto che concentrarsi sulla genitalità procreativa, si potrebbe tener conto della fecondità e della generosità presenti nelle relazioni omosessuali, per valutarne la loro moralità. Il teologo morale Giannino Piana ricorda che «è sufficiente qui ricordare il significato non esclusivamente procreativo della fecondità umana, la quale, se intesa nella sua valenza più profonda e spirituale, coincide, in ultima analisi con l’apertura della relazione agli altri, e può pertanto incarnarsi in molte forme di servizio alla vita della società».
Benché questa fecondità non sia dello stesso tipo di quelle eterosessuali, possono gli atti omosessuali esprimere una vera donazione ed amore. La bontà degli atti omosessuali non va giudicata, quindi, in maniera astratta ma nel contesto delle relazioni della persona. È necessario una morale del discernimento sulle relazioni e proporre alle persone omosessuali credenti un itinerario spirituale che aiuti a conformarle all’immagine di Dio.
«Il che evidenzia come la bontà morale di un rapporto è fondamentalmente data dalla capacità che esso ha di esprimere in modo profondo, autentico, coinvolgente il mondo interiore delle due persone, di creare cioè le condizioni per lo sviluppo di una vera interpersonalità , la quale si realizza solo nella misura in cui si abbandona la tentazione di trattare l’altro (l’altra) come oggetto e si riconosce invece la sua unicità irrepetibile e la sua inestimabile dignità. Il principio kantiano: “Agisci sempre trattando l’altro come fine, e mai come mezzo”, è il presupposto ineludibile per la costruzione di ogni serio rapporto umano e, di conseguenza, il metro ultimo di valutazione della moralità» (Giannino Piana).
Nel suo cammino di fede il credente omosessuale è chiamato a scegliere quegli atti e quello stile di vita che lo conforma sempre più all’immagine di un Dio che è relazione. Dire “cammino” significa movimento e “senso” (sia come direzione di marcia che di sentire). L’ideale della “perfezione” non si dà tanto nell’astratta valutazione (giusto o sbagliato) di atti morali compiuti in riferimento ad una norma, quanto nel “sentire” l’attrazione, benché faticosa, di questa dinamica spirituale verso l’Amore che è Dio: “progress not perfection”.
È necessario rendersi conto del valore insostituibile che ha nella vita morale e spirituale l’esperienza dell’amicizia, o di amore se si vuole. Queste esperienze aiutano la persona ad uscire da sé ed aprirsi all’altro. Il compito dell’etica non è in vista del mutamento della tendenza ma nel favorire per quanto possibile la crescita di relazioni più autentiche nelle condizioni date. La persona omosessuale credente sarà tenuta in coscienza a scegliere ciò che l’approssima sempre più al “meglio” delle relazioni che sta concretamente vivendo: con il proprio corpo, con gli altri e con Dio. In tale contesto il bene morale sarà ciò che rende capace di esprimere e di potenziare (fecondità) le relazioni con gli altri e il mondo, con sé e con Dio:
«Buona è la relazione che promuove altre relazioni; buono è un comportamento riconducibile a tale feconda dimensione relazionale […] Ne deriva allora che maggiormente conforme a tale condizione è quella relazionalità che promuove relazioni, non già quella che le blocca (finendo per bloccare anche se stessa) […] Quanto più la relazione è diffusiva di sé, vale a dire quanto più promuove altre relazioni, tanto più essa si configura come relazione etica. Risulta in grado, nei modi propri dell’azione, di realizzare il bene» (Rinaldo Fabris).
Questo criterio “relazionale” vale tanto per gli etero quanto per gli omosessuali. Nel tentativo di ripensare la moralità degli atti omosessuali, l’attuale dibattito tra teologi moralisti verte nel delineare un orizzonte più ampio, entro cui discernere la qualità degli atti sessuali, indicando norme, valori e virtù in base alle quali identificare come morali quelle relazioni che fanno crescere la persona, piuttosto che ferirla con atti perversi, libertini o nevrotici. Il vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di Sidney in Australia, ora emerito, Mons. Geoffrey James Robinson così afferma:
«Sono graditi a Dio quegli atti sessuali che fanno crescere le persone e le loro relazioni; non sono graditi a Dio quegli atti che le danneggiano. Se cerchiamo un’etica specificamente cristiana, è necessario che questa sia fondata sull’amore genuino o sulla ricerca del bene per l’altro/a, piuttosto che sul proprio interesse o sulla gratificazione di sé […] Se si vuole cambiare l’insegnamento della Chiesa sugli atti omosessuali, bisogna cambiare il suo insegnamento su tutti gli atti sessuali».
All’interno di questo percorso spirituale di discernimento e di confronto critico con sé, con la comunità ecclesiale, e fondamentalmente con Dio, la coscienza dell’omosessuale credente può maturare, in attento ascolto della sua esperienza vissuta e del radicato orientamento sessuale, la scelta di vivere con un partner dello stesso sesso. Il card. Martini invitava a non demonizzare e a non ostracizzare tale scelta. I criteri per giudicare una tale relazione sarebbero: fedeltà nella relazione, reciprocità ed amore responsabile. Che possa ricevere l’Eucaristia e il sacramento della riconciliazione sarà discrezione del sacerdote che segue spiritualmente la persona.
Imporre la castità come “stato di vita” su chi non l’ha scelta, e ancor più su chi non è credente, significherebbe impedire alla persona omosessuale di ricercare il meglio per sé e indurla a considerare la castità più come una norma da osservare che una virtù, che è invece normalmente intesa come quella spontaneità a raggiungere il bene. Ricordiamo che la “castità” non è innanzitutto la soppressione del desiderio, ma vivere ed agire secundum rationem, cioè nel mondo reale, conformemente alla verità delle cose concrete (San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-IIe, q. 151, a.1). Piuttosto che farci evadere dalla realtà e rifugiare in una falsa immagine di noi stessi, la castità ci fa vivere nella realtà di ciò che siamo e di quello che sono le persone che amiamo attorno a noi (Radcliffe 2007, p. 23). La castità ci riporta con i piedi per terra: è sentire la relazione verso l’altro come dono e come tale favorisce sempre la buona relazione. La relazione omosessuale potrebbe costituire secundum rationem la miglior forma di apertura all’altro disponibile a un soggetto non in grado di scegliere il proprio orientamento sessuale. «La drastica imposizione di evitare l’uso della sessualità costituirebbe una grave penalizzazione, inflitta a chi peraltro è già spesso duramente provato da una situazione di disagio e di marginalità dovuta ai condizionamenti sociali» (Giannino Piana).
Se la fede in Dio ha il suo fine nella visione beatifica, significa che il fine del credere è partecipare non solo della vita divina (divinizzazione) ma della visione di Dio. La visione di Dio (genitivo oggettivo) è la visione di Dio (genitivo soggettivo). Qual è la visione che Dio ha di sé? Dio contempla sé e tutte le cose nella sua essenza.
Ricordiamo che la radice della parola THEOS è thea: dall’indoeuropeo *wer che significa percepire, in inglese “WARD”, da cui deriva anche la parola teatro, cioè vista, e la parola theoria, quando thea si aggiunge a “horan” ( = vedere).
Dunque, partecipare della visione di Dio significa vedere sé e tutte le cose nell’essenza divina. Quale Sé? Il Sé di Dio che Io Sono. Per Dio c’è Dio? No, Dio non ha Dio, quindi uno che partecipa della vita divina, della vita di Dio non ha più Dio. Come dice Dietrich Bonhoeffer: “Vivere nel mondo etsi Deus non daretur. Davanti a Dio e con Dio noi viviamo senza Dio”. Chi partecipa della visione di Dio e dunque è divinizzato non ha più “un Dio”.
Non c’è più bisogno di rivolgersi religiosamente a Qualcuno diverso da sé a cui è debitore di qualcosa e quindi rendergli culto. No, perché ormai è divinizzato (cf Giuseppe Barzaghi, “L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire”, in Divus Thomas, 101 (1998), 57-81, 63).
Vedere il mondo e viverci così come Gesù ha fatto significa essere come Dio eterno in mezzo al mondo che è misericordioso con i buoni e i cattivi”. Il “come” non va inteso “come se” ma realmente: identità divina. Partecipando della vita di Dio, il credente sta nel mondo “da Dio” e non ha più bisogno di credere.
“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Il credente è colui/colei che ha un cuore puro ma la realizzazione del cuore puro è vedere Dio. E colui /colei che vede Dio diventa Dio. È Dio.
“Il mio ‘io’ è Dio; non conosco altro che il mio Dio” […] “Il mio essere è Dio, non per sola partecipazione, ma per sua vera trasformazione e annichilazione”; “Sono così posta e sommersa nella fonte del suo immenso amore, come se fossi nel mare tutta sott’acqua e in nessuna parte potessi toccare, vedere né sentire, se non solo acqua” (Caterina da Genova, “Vita Mirabile”, in Vita Mirabile. Dialogo. Trattato Sul Purgatorio, Città Nuova, Roma 2004, 51; 77).
Sì, colui /colei che vede Dio diventa Dio. È Dio. Ma lo è nel modo del “divenire” o meglio ancora di quel divenire che è l’apparire. Sono l’apparenza/apparizione di Dio. Sono teofania. Sono l’incarnazione di Dio. È “proprio” dell’apparire rendere visibile “altro”; e questo “altro” è proprio dell’apparire ed è ciò che fa sussistere l’apparire. Senza questo “altro” l’apparire non sarebbe propriamente apparire.
Ma allo stesso tempo “altro” non è “suo”, suo “possesso”. No, è proprio – non proprio. L’io diventa Dio, così. Io sono “propriamente” Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, Fil 2,6) senza possederlo (οὐχ ἁρπαγμὸν).
Deus humiliter sum (ἑαυτὸν ἐκένωσεν).
A questo punto si accetta tutto ciò che accade non perché “viene da Dio” ma perché “è così in quanto così”. Il fine della fede è la visione e vedere le cose dal punto di vista di Dio, per il quale tutto è così come è e va bene così come è. “Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio” (Rom 8,28).
A questo punto alla domanda di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8) possiamo rispondere che non troverà più la fede, poiché vi sarà solo visione. Anzi la venuta del Figlio dell’Uomo, la parusia, è immagine (potremo dire: mitologica) della trasformazione cosmica in Dio. Dio tutto in tutte le cose (1Cor 15,28).
Questo è un quadro di Van Gogh: il campo di grano.
Possiamo approcciarlo in due modi. Nel modo scientifico e in modo contemplativo.
Nel primo modo sottopongo il dipinto all’analisi scientifica dei suoi componenti chimici. I colori, la tela, l’umidità etc.. componenti misurabili e scientificamente verificabili. Il quadro di Van Gogh “è conosciuto” in questo modo in maniera scientifica. Il quadro “è” le sue componenti chimiche.
Nel secondo modo metto il dipinto sotto lo sguardo contemplativo. Ne colgo la bellezza, l’armonia dei colori e la fragranza delle figure. Il quadro di Van Gogh “è” conosciuto in questo modo in maniera contemplativa. Il quadro “è” bellezza.
In quale dei due modi si dà “veramente” a conoscere il quadro?
La conoscenza scientifica mi dà le componenti chimiche, ma queste non mi dicono nulla sulla bellezza. La conoscenza contemplativa mi dà la bellezza, ma questa non aggiunge nessun ulteriore componente chimico.
Le due conoscenze del quadro sono distinte e non vanno confuse, benché facciano riferimento alla stessa realtà: questo quadro di Van Gogh.
Tutte e due sono conoscenze reali. Ma sono anche vere? Si potrebbe rispondere alla domanda solo se conoscessimo la natura propria ovvero il senso di questo dipinto.
Se so che questo quadro è un dipinto, il senso o la natura vera del quadro è data dalla finalità di un dipinto che non è quella di dischiudere conoscenze scientifiche sulle componenti chimiche dei colori utilizzati ma è di rivelare una totalità eccedente. La chiamerei “trascendenza”. La bellezza è il senso trascendente del dipinto. La natura propria del dipinto è di “rivelare una trascendenza”.
Questa è la conoscenza “vera” del quadro di Van Gogh. Conosco veramente il quadro di Van Gogh quando ne percepisco il senso della trascendenza e non quando ne analizzo le componenti chimiche.
Le conoscenze scientifiche del quadro sono reali ma non vere. Perché ci sia conoscenza “vera” è necessaria una corrispondenza tra conoscente e realtà. Questa “corrispondenza” non è meramente intellettuale ed empatica (livelli necessari) ma ontologica. Conosco “veramente” la realtà quando divento una cosa sola con essa. Conoscere la realtà significa essere e divenire la realtà.
La verità che sono non è il “mio” corpo che percepisce e sente degli oggetti là fuori nel mondo, nella realtà “esterna”, e che l’immaginazione e poi l’intelletto ne introduce la “specie” dentro la mente.
In verità, “io sono” ( = realtà) la relazione che sono ( = verità).
Ritornando al quadro di Van Gogh, la conoscenza “reale” di questo dipinto è data dall’analisi delle componenti chimiche dei colori, ma la conoscenza “vera” è data dalla realizzazione della relazione a quel dipinto che io sono. Io sono ( = relazione) il dipinto di Van Gogh.
“La rosa è senza perché. Fiorisce poiché fiorisce, Lei a se stessa non bada, non chiede che la si guardi” (Angelo Silesio, Pellegrino cherubico, I.289)
Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?
La risposta a questa domanda è data dal principio di ragion sufficiente, per la prima volta tematizzato in modo completo da Leibniz.
Tale principio afferma che tutto ciò che esiste ha una ragione per esistere e, soprattutto, per esistere in quel determinato modo. Ora, partendo da ciò, Leibniz è giunto alla prima conclusione che se il mondo esiste, se esiste l’essere, necessariamente ci sarà una ragione dalla quale tale esistenza dipende. Ma qual è? Ebbene, Leibniz afferma che la ragione dell’esistenza dell’essere non può trovarsi nell’insieme delle cose contingenti, cioè di quelle cose che hanno necessità di appoggiarsi ad altro per giustificare la propria esistenza. Sarebbe un assurdo se fosse così. Egli afferma dunque “Questa ragione ultima delle cose è ciò che chiamiamo Dio”.
Ciò che Leibniz non era riuscito a comprendere è che tutto ciò che è il finito e la mente finita fanno, è fatto per una ragione. Dalla prospettiva della mente finita ogni cosa ha una sua causa e un suo effetto. C’è una ragione per tutto ciò che facciamo e la mente finita nella sua ignoranza “presume” che causa ed effetto appartengano anche alla mente infinita, cioè alla consapevolezza (divina).
Il finito pensa che ci debba essere una causa o una ragione per tutto ciò che esiste; dunque, anche per la creazione del finito. C’è prima la consapevolezza divina e poi la creazione. Tra l’una e l’altra ci deve essere un motivo, una ragione, e quindi una causa, perché l’essere piuttosto che il nulla.
Ma “prima” che la consapevolezza divina si manifesti nella e come “creazione”, non c’è nulla di manifesto. Ciò che appare, ovvero ciò che è creato, ha una causa ed un effetto, ovvero una ragione; ma ciò che “non-appare” o “non-manifesto” non ha né una causa, né una ragione, perché ci sia qualcosa piuttosto che il nulla. Agostino nell’undicesimo capitolo (12.14) delle Confessioni così risponde alla questione che ci stiamo ponendo: “‘Cosa faceva Dioprima di fare il cielo e la terra?’ – ed egli risponde – ‘Non rispondo come quel tale […]: ,’Preparava l’inferno per chi scruta i misteri profondi’ […] Preferirei rispondere: ‘Dio, prima di fare il cielo e la terra, non faceva alcunché'”.
Propriamente non c’è una ragione, prima-che e perché ci sia il creato.
Il creato è l’emergere della relazione di “causa ed effetto”. Il creato è la manifestazione della ragione. Prima della ragione non c’è ragione. La creazione è “senza causa” e “senza perché”. La creazione fuoriesce, dunque ek-siste, spontaneamente dalla consapevolezza divina. La creazione manifesta la potenzialità infinita della mente infinita ma non lo fa per una ragione.
Poiché la categoria di causalità opera “dentro” la mente finita, questa categoria di ragione o causa è inapplicabile su ciò che non è finito e sull’accadere del finito. È improprio, quindi, dire che poiché tutto ciò che accade deve avere una ragione, anche l’accadere e l’apparire deve avere una ragione e una causa.
In questo modo la mente finita applica all’infinita consapevolezza le leggi che operano nel finito. Cioè la mente finita proietta nella consapevolezza infinita la propria natura finita e finisce per affermare che Dio ha bisogno di creare il mondo per conoscere se stesso o per rivelare se stesso.
Certamente si può affermare che Dio crea “per amore”. Ma qui “amore” è inteso come “spontaneità incondizionata e immotivata” e solo in questo senso si può dire che Dio crea “per amore”. La migliore risposta è che non c’è un motivo perché c’è qualcosa e non il nulla. La creazione è senza causa e senza ragione dalla prospettiva della consapevolezza infinita. Se ci poniamo dalla prospettiva della mente finita, invece, la creazione si polarizza in una causa e in un effetto. Questa polarizzazione avviene in virtù del bisogno di dare una ragione o trovare un motivo perché ci sia il mondo. In questo senso preciso, allora si deve affermare che la ragione della creazione non è nell’infinito, ma è nel finito stesso e nella mente finita che lo pensa.
In questo video vi presento come la questione della creazione venga affrontata da due punti di vista.
Nel punto di vista della mente (prospettiva duale) il mondo è creato dal nulla da Dio che è considerato il “Creatore” del mondo. Il mondo è quell’ente o totalità degli enti che dal niente appaiano e poi scompaiano nel niente. La fede del Dio creatore identifica il “ni-ente” come l’essere sussistente (IPSUM ESSE SUBSISTENS). Per questo dire che il mondo è creato dal nulla significa che Dio “crea” da nient’altro che da se stesso. La fede nel “nulla” – direbbe Emanuele Severino – è alla base della concezione duale della creazione. Questa prospettiva della mente potrebbe essere paragonata alla visione cosmologica del geocentrismo. Il sole ( = ente) gira intorno alla terra ( = mente). Per la mente, dunque, l’ente proviene dal nulla e ritorna nel nulla. Tuttavia, per la mente “credente” il nulla “non è” nulla ma è l’essere di Dio. Dunque la mente “crede” che il mondo è creato da un Dio creatore che fa uscire le cose da “ni-ente” e “per pura volontà” potrebbe far ritornare nel ni-ente tutte le cose. La fede nel “nulla” è all’origine della concezione “volontaristica” di Dio come Creatore.
L’altra prospettiva, invece, è quella “contemplativa” o della “consapevolezza” (non duale): potremo chiamarla della “visio dei” o dello “sguardo di Dio”. Questa altra prospettiva potrebbe essere paragonata alla visione cosmologica dell’eliocentrismo. Il sole è la mente di Dio Il sole. Intorno alla mente di Dio ruota continuamente l’ente. Tale eterna rotazione è l’apparizione eterna dell’ente. Potremmo chiamarla anche “creatio continua” nel senso trascendentale di creazione. La creazione come la radicale e totale relazione dell’ente dall’essere di Dio. Poiché l’essere di Dio è “eterno”, anche il suo apparire è “eterno”. Questo apparire di Dio è la sua manifestazione e rivelazione (teofania) creata, cioè ontica. L’essere (di Dio) si dà nell’ente. L’ente ( = participio presente del verbo “essere) partecipa come finito dell’essere che è infinito. L’ente, quindi, è incarnazione dell’essere. Solo alla “mente credente nel nulla” l’incarnazione ha avuto un inizio nel tempo; in realtà, l’incarnazione – così come la creazione – è continua, immagine dell’essere eterno di Dio distesa e rifratta nello spazio e nel tempo.
Ambedue le prospettive – duale e non duale – sono reali. Così come è reale la mia percezione del sole che sorge e tramonta, benché dire che il sole “sorge” o “tramonto” non sia propriamente vero, poiché il sole né sorge né tramonta. È la terra che gira intorno al sole e non viceversa. Così – uscendo dalla metafora – è la mente che crede “nel nulla” dal quale vuole far uscire l’ente. In verità, l’ente è sempre stato e sempre sarà. Ogni essere è un pensiero di Dio. Dall’eternità e per l’eternità siamo pensati da Dio, voluti da Dio come “eterni”, consustanziali al suo Verbo eterno: figli/e nel Figlio.