Trinità nonduale

Vi presento due modelli di Dottrina Trinitaria. Il primo a sinistra è quello “duale” in cui la natura umana (Gesù e noi) è assunta dalla Persona divina del Figlio. Noi siamo creature “divinizzate” ma tale divinizzazione rimane un accidente per la natura creata dell’umanità. In definitiva, “non” siamo Dio e non siamo “realmente” figli di Dio per natura ma solo per grazia (adottivi).

Il secondo modello, invece, a destra è quello “nonduale”. La natura umana (Gesù e noi) appartiene alla Natura divina. Noi siamo creature “divinizzate” e lo siamo perché la natura creata dell’umanità definisce la natura “increata” di Dio senza che questa aggiunga qualcosa alla natura divina. In definitiva, siamo Dio e siamo “realmente” figli di Dio per natura divina. Si può dire che lo siamo per grazia, solo perché Dio è essenzialmente “grazia”. In tal senso va intesa l’espressione “adozione” del Nuovo testamento. Il “Monismo Relativo” permette, quindi, di comprendere e riformulare la Dottrina Trinitaria in maniera nonduale.

The divinity of God and of creation


Let’s draw a point on a white sheet. This point is a point. When I draw a circle around the point, this point “becomes” the center. The center of the circle Did anything about the point as such change when I drew the circumference? The answer is simple: “No, absolutely not”. “Yes, relative to the circumference”.

“Absolutely no”. The point remains a point; it has not become something else. The dot has not become a line. The point remained a point.

“Yes, relatively.” The moment a circumference was drawn, the point “not in itself” but with respect to something else changed. It has become the center of the circle. From point to center. This mutation defines the point “relatively” to the circumference. Indeed, without the circumference, the point would not be the center.

Now let’s move on to the circumference. There is a circumference because there is a center. Without a center, there would be no circle. Likewise, without a circumference, there would be no center. There is a one-to-one relationship between center and circumference.

As for the point, the circumference is also made up of points. The points of the circumference The circumference, in fact, is composed of points. The point(s) in the circle is not at the center of the circle. It is the point of the circumference. What is the relationship between the “circle point” and the point that is the “circle center”? Both are and will remain identical. There is no difference between the two points. Indeed, there is identity. They make the same point, but they are understood from two different perspectives. There is a “relative” difference. The point of the circumference is defined by the circumference. Without circumference, there would be no “that” point. This does not mean that the point would not exist, precisely because the point as such exists regardless of the circumference. Similarly, there would be no center without a circle, but no point. The center, which is a point, is also defined by the circumference, although as a point, it exists independently of the circumference.

At this point, we consider the point to be divinity (divinitas). This point is divinity. The circumference circumscribed around the divinity represents creation. In the moment that there is creation, the divinity “becomes” the center, that is, God (deus). The center of the circumference is the God of creation. Has anything changed in divinity as such when creation takes place? The answer is simple: “No, absolutely not”. “Yes, with respect to creation.”

“Absolutely no”. Divinity remains divinity; it has not become something else. It is immutable and eternal. The divinity has not become a creature. Divinity remained divinity.

“Yes, relatively.” At the moment in which creation takes place, the divinity “not in itself” but with respect to creation is changed. She “became” the God of creation. From divinity to God (divinitas –>  deus). This mutation defines divinity “relatively” to creation. In fact, without creation, divinity would not be God.

There is creation because there is God. Without God, there would be no creation. Similarly, without creation, there would be no God. Just as there is a one-to-one relationship between center and circumference, so there is a one-to-one relationship between God and creation.

If the point represents divinity, we can say that creation (i.e., the circumference) defines divinity (i.e., the point of the circumference) but not totally or absolutely; in fact, creation defines divinity relatively. In fact, creation defines divinity the moment divinity becomes God (the creator) with creation.

What is the relationship between the divinity of creation (and of every creature) and the divinity of God the creator? Both are and will remain identical. There is no difference. Indeed, there is identity. They are the same divinity, but understood from two different perspectives (that of God and that of the creature). The divinity “of God” is the absolute divinity of God (cf. number “10”), while the divinity “of the creature” is the relative divinity of the creature (cf. operation 52).

Divinity constitutes the essence of the creature “relatively” and not absolutely. All of creation is “God”, in the sense of “divinity”, but not totally, since creation (this or that creature) is not God, just as the point of the circumference is not the point at the center of the circumference. Just as the point of the circumference has not become the center, so the divinity “of the creature” is not God. Between the divinity of creation (and of every creature) and the divinity of God the creator, there is, therefore, a “relative” difference (but not an absolute one), just as there is a “relative” (but not an absolute) identity.

La divinità di Dio e della creatura

Tracciamo su un foglio bianco un punto. Questo punto è un punto. Nel momento che circoscrivo una circonferenza attorno al punto, questo punto “diventa” centro. Il centro della circonferenza. È cambiato qualcosa del punto in quanto tale nel momento in cui ho disegnato la circonferenza? La risposta è semplice: “No, assolutamente”. “Sì, relativamente alla circonferenza”.

“No, assolutamente”. Il punto resta un punto non è diventato qualcosa d’altro. Il punto non è diventato una linea. Il punto è rimasto un punto.

“Sì, relativamente”. Nel momento in cui è stata tracciata una circonferenza, il punto “non in se stesso” ma rispetto ad altro è mutato. È diventato il centro della circonferenza. Da punto a centro. Tale mutazione definisce il punto “relativamente” alla circonferenza. Infatti, senza la circonferenza il punto non sarebbe centro.

Spostiamoci ora alla circonferenza. La circonferenza c’è, poiché c’è un centro. Senza un centro non ci sarebbe una circonferenza. Allo stesso modo, senza circonferenza non ci sarebbe un centro. Tra centro e circonferenza c’è una relazione biunivoca.

Per quanto riguarda il punto, anche la circonferenza è costituita da punti. I punti della circonferenza. La circonferenza, infatti, è composta e fatta di punti. Il punto (e i punti) nella circonferenza non è il centro della circonferenza. È il punto della circonferenza. Che relazione c’è tra il “punto della circonferenza” e il punto che è “centro della circonferenza”? Sia l’uno che l’altro sono e rimangono identici. Tra i due punti non c’è alcuna differenza. Infatti, c’è identità. Sono lo stesso punto, ma compreso da due prospettive diverse. C’è una differenza “relativa”. Il punto della circonferenza è definito dalla circonferenza. Senza circonferenza non ci sarebbe “quel” punto. Ciò non significa che non ci sarebbe il punto, proprio perché il punto in quanto tale c’è a prescindere dalla circonferenza. Allo stesso modo, non ci sarebbe il centro senza circonferenza, ma non il punto. Il centro – che è un punto – è definito anch’esso dalla circonferenza, benché in quanto punto c’è a prescindere dalla circonferenza.

A questo punto consideriamo il punto la divinità (divinitas). Questo punto è la divinità. La circonferenza che viene circoscritta attorno alla divinità rappresenta la creazione. Nel momento che si dà creazione, la divinità “diventa” centro, cioè Dio (deus). Il centro della circonferenza è il Dio della creazione. È cambiato qualcosa della divinità in quanto tale nel momento in cui si dà la creazione? La risposta è semplice: “No, assolutamente”. “Sì, relativamente alla creazione”.

“No, assolutamente”. La divinità resta divinità non è diventata qualcosa d’altro. È immutabile ed eterna. La divinità non è diventata creatura.  La divinità è rimasta divinità.

“Sì, relativamente”. Nel momento in cui si dà la creazione, la divinità “non in se stessa” ma rispetto alla creazione è mutata. È “diventata” il Dio della creazione. Da divinità a Dio (divinitas –> deus). Tale mutazione definisce la divinità “relativamente” alla creazione. Infatti, senza la creazione la divinità non sarebbe Dio.

La creazione c’è, poiché c’è Dio. Senza Dio non ci sarebbe creazione. Allo stesso modo, senza creazione non ci sarebbe Dio. Come tra centro e circonferenza c’è una relazione biunivoca, così tra Dio e creazione c’è relazione biunivoca.

Se il punto rappresenta la divinità, possiamo dire che la creazione (cioè la circonferenza) definisce la divinità (cioè il punto della circonferenza) ma non totalmente o assolutamente; infatti, la creazione definisce la divinità relativamente. Infatti, la creazione definisce la divinità nel momento in cui la divinità diventa Dio (creatore) con la creazione.

Che relazione c’è tra la divinità della creazione (e di ogni creatura) e la divinità di Dio creatore? Sia l’una che l’altra sono e rimangono identiche. Non c’è alcuna differenza. Infatti, c’è identità. Sono la stessa divinità, ma compresa da due prospettive diverse (quella di Dio e quella della creatura). La divinità “di Dio” è la divinità assoluta di Dio (cfr. numero “10“), mentre la divinità “della creatura” è la divinità relativa della creatura (cfr. operazione 5×2). La divinità costituisce l’essenza della creatura “relativamente” e non assolutamente. Tutto della creatura è “Dio”, nel senso della “divinità”, ma non totalmente, poiché la creazione (questa o quella creatura) non è Dio, così come il punto della circonferenza non è il punto al centro della circonferenza. Come il punto della circonferenza non è diventato centro, così la divinità “della creatura” non è Dio. Tra la divinità della creazione (e di ogni creatura) e la divinità di Dio creatore c’è, quindi, una differenza “relativa” (ma non assoluta), così come c’è un’identità “relativa” (ma non assoluta).

Lettura “nonduale” della trinità

A fondamento della dottrina trinitaria è presente un’aporia che sta all’origine delle cosiddette teologie trinitarie del “Tu”. Per chiarire tale punto è necessario richiamare le cinque proprietà della dottrina trinitaria: innascibilità, paternità, filiazione, spirazione attiva e spirazione passiva. Le prime due contraddistinguono la teologia greca e latina. Il Padre dà tutto al Figlio, eccetto la sua paternità o innascibilità. Per i Greci il Padre è Padre perché è innascibile. Per i Latini il Padre è Padre perché genera.

Il Padre dà tutto al Figlio? No, poiché il Padre non dà la sua innascibilità o paternità (in senso negativo). Il Figlio dà tutto al Padre? No, poiché il Figlio non dà la sua figliolanza al Padre, altrimenti il Padre sarebbe allo stesso tempo Padre e Figlio. Lo Spirito dà tutto al Padre e allo Spirito? No, poiché lo Spirito non dà la spirazione “passiva” ad entrambi, altrimenti il Padre e il Figlio sarebbero allo stesso tempo spiranti “attivi” e “passivi”.

Come ben risulta, nella Trinità non si danno né relazioni simmetriche, né donazione assoluta di sé. Anzi, ciò che è più proprio di ciascuna persona trinitaria – paternità, filiazione e spirazione passiva – non viene comunicato o donato. Il motivo è che la “relazione” (relatio) nella natura trinitaria di Dio è pensata successiva alle persone (relata). La “relazione” non è ontologicamente il primum.

Non è corretto, pertanto, affermare che nella Trinità le persone si danno totalmente e reciprocamente. Il loro dono è “relativo” e non “assoluto”.  La donazione trinitaria è parziale e non totale. Se fosse totale, infatti, si predicherebbero proprietà contraddittorie di ciascuna persona.

Come è possibile superare questo scoglio teoretico della dottrina trinitaria? È possibile affermando la priorità della “relazione” (relatio) sui soggetti/termini (relata) della relazione. Perché sia affermata tale priorità, la relazione non deve essere né simmetrica né asimmetrica. Tali qualifiche non appartengono alla relazione posta come assoluta ma solo in quanto posta come “relativa”.

Ma questo comporta che nella Trinità “non ci si dà più del Tu”, ovvero, la relazione tra le persone non è assolutamente “reciproca” ma “relativamente” reciproca, altrimenti avremmo una simmetria e non più a-simmetria tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Bisogna distinguere, pertanto, la “relazione assoluta” che è predicata della natura divina dalla “relazione relativa”.

Questa è differenza fondamentale tra una comprensione “duale” e una “nonduale” della Trinità. In quella “duale”, le persone trinitarie si donano reciprocamente e relativamente le une alle altre. Si danno del “Tu” ma non totalmente. Ciò che è più intimo del loro “Io” non è comunicato ma è trattenuto, gelosamente custodito perché solo così possono donar-si reciprocamente ma senza che in questo dono si diano totalmente. Il loro dono dipende tutto dal soggetto che dona (Padre, Figlio e Spirito Santo) e il “donare” non qualifica le persone trinitarie essenzialmente ma solo relativamente.  Rimane dunque il fatto che la proprietà più intima di ciascuna delle persone (innascibilità, filiazione e spirazione passiva) non viene donata.

Nella comprensione “nonduale”, invece, la donazione è assoluta e totale e qualifica la “natura” divina e non le “persone” divine. Tale comprensione nonduale pone la “relazione” come prioritaria sui soggetti della relazione (Padre, Figlio e Spirito Santo). Le “persone” possono essere considerate – in questa prospettiva nonduale – come “espressioni” o “instanziazioni” della natura divina. Queste espressioni costituiscono i “soggetti” (relata) della natura divina (relatio) e come tali qualificano la relazione assoluta della natura divina in modo “relativo”: simmetrico o asimmetrico. Nel caso delle persone trinitarie la qualifica è “asimmetrico”.

Nella comprensione “nonduale” viene svelato e finisce – per così dire – il mito del “Tu” intratrinitario, tipico di molte teologie trinitarie. La dottrina trinitaria intende esprimere la realtà più profonda di Dio che è “donazione”, “vitalità” e “amore”. In definitiva, la divinità è relazione assoluta e incondizionata, per cui le “persone” (Padre, Figlio e Spirito Santo) attualizzano relativamente e in maniera condizionata l’incondizionatezza della natura divina.

Come determina l’indeterminato?

Come può l’indeterminato (x) determinare i determinati (y) senza che questi – a loro volta – determinino l’indeterminato determinandolo (x = y)?

Questo è possibile qualora l’indeterminato determina i determinati senza “identificarsi” con loro. I determinati non sono l’indeterminato ma allo stesso tempo l’indeterminato non è “altro” dai determinati, non è “separato” da questi.

L’indeterminato non è un altro dei determinati. L’indeterminato determina i determinati come se stessi. I determinati sono l’indeterminato, ma nel modo che questi non lo siano “in se stessi”. I determinati “sono” solo “nell’indeterminato”.

In se stessi i determinati sono “nulla” (y = 0), cioè niente-altro-che determinazione dell’indeterminato (x = x + y). I determinati non aggiungono nulla all’indeterminato. Se così fosse, l’indeterminato sarebbe determinato, mentre l’indeterminato è assoluto, cioè identità di sé e con se stesso (x = x).

La luce (dies) dell’Essere

Quando ci distacchiamo dal nostro punto di vista, dalla prospettiva duale, e assumiamo la prospettiva non-duale, ponendoci così nella Mente di Dio (infinito), tutti gli enti (finiti) vengono “visti” già-presenti-realmente nell’infinito. Gli enti, infatti, “sono” l’essenza di Dio. Ogni ente è de-finizione dell’Essere, sua determinazione, senza però che questi siano tra loro distinti e determinati, gli uni “accanto” agli altri o “fuori” di Dio. L’essere degli enti è la totalità delle sue determinazioni, senza che questa sia a sua volta determinata (ni-ente). Se così fosse, l’Essere – cioè la totalità delle determinazioni – sarebbe anch’essa in quanto totalità un ente (cioè determinato) tra gli enti, e non sarebbe più la totalità delle determinazioni.  

Con un’immagine, possiamo paragonare l’Essere alla luce bianca e gli enti alla molteplicità dei colori. La mente svolge la stessa funzione del prisma nel momento in cui la luce bianca lo attraversa. Quando la luce fuoriesce dal prisma, la luce viene scomposta nei sette colori fondamentali. Questi colori fondamentali non sono creati dal prisma o dalla luce. Questi colori sono “già” presenti, eternamente, nella luce bianca. Come il prisma disperde e scinde i colori già presenti nella luce bianca, così la mente distingue e rifrange l’Essere (la luce bianca) in enti distinti e separati tra loro. Questi enti, tuttavia, non sono creati dall’Essere nel senso della causa efficiente, produzione dal nulla, ma sono relazionati eternamente ed essenzialmente all’Essere come totalità delle sue determinazioni.

La mente distingue, scinde e divide la matrice inconsutile e indivisibile dell’Essere. Non è un caso che la parola latina “scientia” (conoscenza) deriva da “sciens” (colui che sa). Il verbo latino “sciō” (pronunciato come in italiano “scio” nel latino ecclesiastico, ma “schio” in latino classico) deriva direttamente dal protoindoeuropeo (attraverso la forma protoitalica *skijo). Specificamente, questo verbo deriva dalla radice protoindoeuropea *skey-, connessa al concetto di “dividere” o “separare”. La radice *skey- ha dato origine a parole estremamente concrete, ad esempio la parola “scudo” in italiano (dal latino “scutum”, possibilmente dal protoindoeuropeo *skey-tom), ma un’interpretazione metaforica del verbo “separare”, inteso come “organizzare”, “distinguere” e infine “capire”, ha dato origine al percorso che ha portato alla nascita della parola “scienza”. La conoscenza “mentale” è riflessa dell’emisfero sinistro. La conoscenza “non-mentale” o “intuitiva”, “contemplativa” e “mistica” è generata nel momento in cui si nasce di nuovo, dall’alto, cioè da Dio. Vedere la realtà sub specie dei et aeternitatis. Nel modello non-duale, “conoscere” esprime il francese “con-naître” cioè si conosce solo ciò in cui si nasce (cf 1Gv 4,7).

Piuttosto che di differenza ontologica tra Essere e ente (come afferma Martin Heidegger) si dovrebbe parlare di differenza epistemologica, in quanto l’Essere e l’ente non sono realmente differenti ma differiscono solo dal punto di vista formale. Dio è la forma “infinita” dell’Essere, mentre la creatura è la forma “finita”. Ambedue “sono” realmente la stessa cosa, ma differiscono formalmente.

Alle sorgenti dell’esperienza di Dio

  1. Nell’affermare che A è A, viene negato che A sia Non-B, non-C, non-D, A non è tutto ciò che nega A. Questa Totalità negativa di A è immanente ad A e costituisce l’essere di A.
  2. La totalità delle determinazioni si dà presente in A attraverso la negazione. Ciò significa, dunque, che la negazione dà l’essere ad A? Che il non-essere dà l’essere ad A? Cos’è la negazione che apparendo attraverso la totalità delle determinazioni costituisce l’essere di A? Non può essere pura negazione o negazione assoluta – che non è – ma non può che essere “essere”, proprio perché costituisce l’essere determinato di A, dandogli l’essere.
  3. La totalità delle determinazioni si dà presente in A attraverso l’Essere. Ciò significa che l’Essere è la totalità delle determinazioni che si dà presente in A. L’Essere è immanente ad A e costituisce l’essere di A. L’essere determinato è l’ente. La totalità degli enti è l’Essere. L’Essere, come totalità degli enti, è presente nell’ente.
  4. È necessario fare due precisazioni. Ritornando a quanto affermato in § 1 la presenza dell’Essere nell’ente viene pensata dalla mente come “negazione”. Pensando l’ente, cioè la determinazione, la mente oscura l’Essere e lo nientifica, venendo così a parlarne come un provenire dal nulla e un ritornare nel nulla.
  5. La seconda precisazione è che l’Essere – proprio perché è la totalità delle determinazioni – non è una delle determinazioni in cui l’Essere si dà presente. Se così fosse, l’Essere – cioè la totalità delle determinazioni – sarebbe anch’essa in quanto totalità un ente (cioè determinato) tra gli enti, e non sarebbe più la totalità delle determinazioni.
  6. Come poter mantenere insieme l’immanenza dell’Essere negli enti e la sua indeterminazione? Non rischia questa negatività dell’“in-”di identificare di nuovo l’Essere con il nulla? Se l’Essere è la totalità delle determinazioni, si può affermare che questa “totalità” sia a sua volta indeterminata? Può l’indeterminato fondare la totalità delle determinazioni, cioè gli enti? Può l’indeterminato fondare il determinato?
  7. Sembrerebbe ricomparire a questo punto la negazione della mente che impedisce di “vedere” come avvenga la fondazione del determinato. Questa fondazione non può che scaturire dal profondo dell’Essere. È dal fondo, dall’origine e sorgente dell’Essere (φύω) che l’indeterminato (cioè l’Essere) determina il determinato (cioè l’ente). La “natura” (φύσις) profonda dell’Essere è la relatività, connessione, relazione.
  8. L’Essere determina il determinato relazionandosi. Ciò non vuol dire che la relazione dell’Essere sia successiva agli enti come se questi fossero preesistenti. Gli enti “appaiono” perché l’Essere si relaziona. Gli enti sono eterni perché “sono” nell’atto stesso con cui l’Essere si relaziona. E questo atto è “eterno”. La totalità delle determinazioni “appare” perché l’Essere si pensa. Gli enti sono pensieri di Dio in cui Dio pensa se stesso in infiniti modi. Ogni ente (determinazione) è pensiero di Dio. La natura dell’ente è apparire di Dio (teofania) e tale apparizione, relazione di Dio non è altro che la sua sostanza. Relatio subsistens.
  9. Affermare che l’Essere si pensa vuol dire che “essere” e “consapevolezza” sono la stessa cosa. I pensieri di Dio sono “contenuti” della consapevolezza di Dio, della Mente di Dio. In questo senso si può parlare anche dell’esperienza di Dio. Ogni ente è perceptio dei (esse est percepi) nel duplice senso che l’essere dell’ente è tutto nell’essere percepito da Dio e che l’essere dell’ente si attualizza nella sua singolare e particolare determinazione nella percezione, nel tendere/attendere a Dio.
  10. Come si pensa Dio? Essendo Dio l’Essere, ed essendo la natura profonda dell’Essere “relazione”, Dio si pensa e si determina come relazione, connettività, relatività. Dio è logos. La totalità delle determinazioni (gli enti) è il logos di Dio, il legein di tutte le cose. “Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,17). Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero. In questo divino fluire, si dà il mondo.

Quale eternità dell’“io”?

Il finito è ciò che è finito. Ciò che è finito ha un inizio e una fine. Inizio e fine definiscono il finito, mentre l’eterno è ciò che non ha inizio e fine. L’eterno è infinito. Affermare che il finito (o i finiti) è eterno non può indicare che il finito ha e non ha allo stesso tempo un inizio e una fine. Se si afferma che il finito è eterno, lo si dice in riferimento alla “relazione” dell’eterno al finito. La relazione al finito dell’eterno è “eterna” poiché è “dell’eterno” (genitivo soggettivo). Tutto ciò che è eterno, e dell’eterno, è eterno.

Ciò non significa che la relazione del finito (genitivo soggettivo) all’eterno sia eterna. Come è vero che tutto ciò che è eterno, e dell’eterno, è eterno, così è vero che tutto ciò che è finito, e del finito, è finito, cioè ha un inizio e una fine. La relazione del finito (genitivo soggettivo) all’eterno è finita, così come è il finito. Dunque, non è la relazione del finito all’eterno che è eterna, ma la relazione dell’eterno al finito.

Questa relazione dell’eterno al finito (o ai finiti) è ciò che fa essere il finito in quanto finito. Tutto del finito consiste in questa relazione dell’eterno al finito. Non c’è “altro” essere nel finito, “oltre” questa relazione dell’eterno al finito. Non c’è “altro” essere nel finito che non sia questa relazione dell’eterno al finito.

A questo punto, è necessario approcciare il finito da due differenti punti di vista. Dal punto di vista del finito (sub specie temporis), il finito ha un inizio e una fine; dal punto di vista dell’eterno (sub specie aeternitatis), invece, il finito è eterno, ed è eterno il finito, poiché la sua consistenza ontologica è tutta nella relazione dell’eterno al finito. Dato che l’eterno non è “altro” dalla sua relazione al finito, proprio perché c’è una e una sola eternità, questa sua relazione al finito è la stessa sua eternità. Ne segue che dal punto di vista dell’eterno, la consistenza ontologica del finito è la stessa eternità. In questo preciso senso, si può affermare che il finito è eterno. Solo nella Pura Consapevolezza (visio dei), si può parlare dell’immortalità e della innascibilità dei finiti. Il finito, infatti, non è mai nato e mai muore. Questo può esser detto da questo – e solo da questo – punto di vista. Quindi, nella perdita del proprio sé (o ego) è possibile parlare della vita eterna del finito.

Nello spirito di Dio, “io” sono eterno, ma lo sono secondo una modalità dell’“io” che non è quella del finito ma dell’eterno, cioè dell’infinito. È l’“io” (del finito) che ha dissolto tutto di sé, ed è tutt’uno con la relazione dell’eterno all’ “io”. Con un’altra immagine. Se paragoniamo l’Assoluto, l’Infinito, l’Eterno e Dio al numero “10” e il finito al “4”, mi chiedo: È perduto il 4 nel 10? Mia risposta: No, è ancora presente, non più come 4 – cioè nella sua forma – ma “più-che-4”, come 10. In un’altra forma. Il 4 è nel 10 trasformato. Ciò non vuol dire che la realtà del 4 non c’è più. Se così fosse, cioè se il 4 non fosse realmente più nel 10, non avremmo più 10 ma 6. Ciò che si perde è la forma del 4, ma la sua realtà esiste in un’altra forma: quella del 10. È perduto il finito nell’infinito? No, è presente, non nella sua forma di finito, ma come infinito, cioè in maniera eminente. In un’altra forma. Il finito (o i finiti) è “realmente” nell’infinito ma trasformato, in un’altra forma. Ciò non vuol dire che la realtà del finito non ci sia più nell’Assoluto. Se così fosse, cioè se il finito non fosse realmente nell’infinito, non avremmo più l’infinito ma un finito (4) accanto ad un altro finito (6). Ciò che si perde nell’Assoluto è la forma del finito, potremmo dire la finitezza della creatura, ma la realtà o l’identità del finito esiste in un’altra forma: quella dell’infinito. Ma cos’è mai la realtà e l’identità del finito, se non la relazione dell’eterno al finito? La consistenza ontologica del finito è la relazione dell’infinito al finito (creazione, l’atto creativo); ma questa relazione dell’infinito (genitivo soggettivo) non è “altro” dalla sua essenza infinita, proprio perché l’infinito può essere uno solo, per cui la relazione al finito – che è la realtà, la natura e l’essenza del finito – è la stessa eternità dell’infinito. Il finito è l’apparire (eterno) dell’infinito.

A questo punto possiamo rispondere alla domanda: Cosa permane di noi dopo la morte? Non più l’apparente, ciò che nell’apparire eterno si dà nella sua forma finita, l’ego transeunte e impermanente, ma l’Io Sono eterno. Io non più io. L’ego del chicco di grano muore, si dissolve nella sua forma limitata e finita, ma si trasforma – permanendo in altra forma – nel molto frutto, cioè nell’infinito.

“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore” (Gv 12,24-26). Come dice Gesù: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6,38).

Io non più Io

 “Quando morirò, il mio spirito tornerà allo Spirito da cui non si è mai separato. Quando la mia forma scomparirà, tornerà all’Informe, da cui nessun confine la separava” (Rumi).

Come conciliare – se mai è possibile – questo pensiero del poeta Rumi con quanto ci dicono i racconti di risurrezione dei Vangeli? Al cap. 21, 1-14 di Giovanni si dice che il nostro Signore risorto ha arrostito pesce sulla riva con la sua gente e non appare affatto come uno spettro, anzi come qualcuno che gusta del pesce arrostito.

Tale narrazione evangelica non vuole riflettere su un evento accaduto; piuttosto, è una catechesi, costruita con elementi simbolici, sulla presenza del Risorto e dell’Eucaristia, simboleggiata proprio dall’immagine del pesce arrostito che, nella narrazione, Gesù offre loro.

Per rappresentarsi l’“oltre la morte” abbiamo la tendenza a creare paradisi a nostra misura, secondo i nostri gusti personali, cercando di perpetuare così l’io, finalmente liberato da ogni sofferenza. Ora, non suona questo più come un’illusione che realtà? Cosa succede quando si è compreso che il sé, in quanto tale, non esiste? Se non siamo l’io che pensiamo di essere, se nessuna forma – e l’io è una forma in più tra le altre – è permanente, se tutto ciò che nasce muore, ha senso pensare che l’io sopravvivrà oltre la morte? Non è più sensato e più vero avere il coraggio di liberarsi delle illusioni infantili?

Sappiamo che il pensiero greco, partendo da un’antropologia dualistica, poteva difendere l’immortalità dell’anima, anche accettando la decomposizione del corpo. Al contrario, il mondo ebraico, basato su una concezione antropologica monistica – che non concepiva un’ “anima” separata dal corpo – poteva parlare di una vita oltre la morte solo se la persona “intera” sarebbe risorta, poiché “anima” e “corpo” sono indivisibili. E questo è stato ciò che ha portato a parlare di “resurrezione della carne”. Ma qualcuno può davvero credere che i corpi – nonostante si parli di “corpi gloriosi” – risorgeranno?

Non abbiamo risposta a ciò che accade dopo la morte. Tuttavia, non sembra difficile sapere cosa non può essere. Ciò dipende dalla risposta che si dà alla domanda: cosa sono io? Se, in linea con Rumi, ciò che siamo è Consapevolezza, l’Informe, lo Spirito, allora questa è l’unica cosa che rimarrà, perché solo quella è eterna, non la forma (variabile e transitoria) del sé.

È comprensibile che all’io piaccia perpetuarsi per tutta l’eternità, godendo del “pesce arrostito all’alba”. Ma forse dobbiamo abbandonare i sogni e approfondire la verità su chi siamo veramente. Abbiamo “dimenticato” che il sé è un figlio generato dalla mente – una sua costruzione e proiezione – a cui siamo talmente attaccati da pensare che sia la nostra identità. Dov’è quel “sé” che amiamo così tanto, quando la mente è silenziosa e non ci sono pensieri? Se stiamo attenti, la “forma spettrale” non è la consapevolezza, senza forma, ma il sé, la realtà virtuale che la mente partorisce ogni qualvolta che anela a prolungarsi, perpetuando così nell’eternità l’attaccamento con tutto ciò a cui si è affezionata nel tempo.

Risurrezione senza Miracolo

Nella nostra epoca post-religiosa e post-fisicalista, i cristiani hanno bisogno di esprimere nuovamente il significato della risurrezione di Gesù per il mondo. “Gesù è risorto dai morti!”. È così che i primi cristiani – nel loro linguaggio e immaginario – hanno espresso la convinzione che lo stile di vita di Gesù – il suo amore e la sua resa incondizionati – lo hanno fatto risorgere dai morti. Non c’è alcuna “bacchetta magica” o deus ex machina che agisce qui. Il Vangelo di Marco (15,39) demitizza tale comprensione della risurrezione facendoci contemplare la scena del centurione che guarda Gesù in croce. “Il centurione, che stava lì davanti a Gesù, vide come morì e disse: ‘Certamente quest’uomo era Figlio di Dio!’”. Il “come” dà accesso al centurione a cogliere quell’amore con cui Gesù ha dato la vita per gli altri. Come scrive Paolo: “l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante” (1Cor 15,45). Gesù diventa spirito vivificante nel dare-la-vita, amando.

Così si manifesta la legge, il logos matrice dell’universo, che è il bene e l’amore. Il bene e l’amore trionferanno non tanto pagando un prezzo a un piano sacrificale stabilito da Dio per soddisfare la sua ira, come se Dio volesse che noi subiamo il dolore e la sofferenza come prova della nostra fedeltà a Lui o come punizione per una colpa originale. Dio non usa il potere o la violenza per raggiungere il suo obiettivo, e stabilire così la sua giustizia e il suo regno. Dio usa l’amore e la bontà e questi sono incondizionati e non provvisori. Dio usa tutte le nostre situazioni di vita – buone e cattive che siano – per incorporarle nel piano cosmico dell’universo. Egli ripara e guarisce le ferite del mondo suscitando in ciascuno di noi e in tutte le creature il desiderio di amare, cioè di risorgere. “In tutte le cose Dio opera per il bene di coloro che lo amano, che sono stati chiamati secondo il suo proposito [il disegno dell’Amore]. Per coloro che Dio ha preconosciuto, ha anche predestinato ad essere conforme all’immagine del suo Figlio, affinché fosse il primogenito tra molti fratelli e sorelle. E quelli che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati” (Rom 8, 28-30). La vita di Gesù esemplifica il modo con cui Dio agisce nel mondo.

Dio non ha bisogno di “intervenire” nell’universo, aprendo un sepolcro e risuscitando un cadavere dalla tomba, poiché Dio è già a casa sua nel mondo. Dio dimora nel cosmo (cfr Gv 1,11) attraverso il logos, che è la matrice (dal lat. Matrix, “madre; utero”) di tutte le cose. Dio non ha bisogno di intervenire come fa un super-eroe alla fine di un film hollywoodiano, usando la violenza fisica e morale per mostrarsi vittorioso sui cattivi, salvando i buoni dalla sofferenza e dalla morte in extremis.

La risurrezione di Gesù ci rivela la matrice divina, il logos, la logicala “regola”, o la grammatica dell’universo. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto”. “Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25). Il cristianesimo, così come altre tradizioni religiose, indicano che questa “regola” universale è un paradigma di trasformazione, secondo il quale la morte non è schivata ma trasformata. Gesù ha rivelato tale paradigma cosmico di tutte le cose prendendone coscienza, vivendolo e annunciandolo. “Poiché la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio, […] [e] sarà liberata dalla schiavitù alla corruzione e condotta alla libertà e alla gloria dei figli di Dio” (Rom 8,18-19).

Gesù è la primizia di coloro che dormono (1Cor 15,20). “[Gesù] il primogenito tra molti fratelli” (Rom 8,29). Anche noi stiamo camminando sulla stessa via del Logos e della Sapienza di Gesù nostro fratello, diventando così con lui anche noi, Cristo e Figlio Dio. “Cari amici, ora siamo figli di Dio, e quello che saremo non è ancora stato reso noto. Ma sappiamo che quando Cristo apparirà, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così com’è” (1Gv 3,2-3).

La risurrezione di Gesù, quindi, non è un evento miracoloso – unico e singolare – accaduto nella storia, ma è la rivelazione di Qualcosa che continuamente e dovunque accade nella creazione. Risurrezione e trasformazione sono, infatti, il modello e il paradigma universale di ogni cosa. La risurrezione è il compimento dell’incarnazione cosmica. Abitando la materia fin dall’inizio della creazione, lo Spirito di Dio continuamente “fa passare” (cfr. Pasqua, che significa “passaggio”), “trascendere” ogni cosa verso la definitiva pienezza del suo stato. Con il termine “Cristo” la cristologia “evolutiva” di Teilhard de Chardin e Rahner ha voluto intendere l’unzione spirituale di tutta la materia fisica, perché questa possa trasformarsi pienamente in quello Spirito che fa essere e trascendere tutte le cose.  Tutto è Cristo, quindi, poiché tutto è “unto” dello Spirito. L’universo è pertanto “battezzato” non solo nella morte e risurrezione singolare e individuale di Gesù ma nella morte e risurrezione di quel “corpo” che è l’unità organica e complessa di tutta la realtà. La Risurrezione è solo l’incarnazione portata alla sua logica conclusione. E l’incarnazione non è altro che l’auto-espressione di Dio secondo il divenire e la differenziazione creaturale.

Se Dio abita la materia, allora possiamo naturalmente credere nella “risurrezione” del corpo. Ma tale “risurrezione” non è affatto il risuscitamento dello stato-di-separazione tra le cose e di tutte le cose. Non è la permanenza della condizione di caducità e di corruzione di cui parla l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani (8,20-21). Il termine “corruzione” rinvia alla “separazione”, di ciò che è originariamente unito e indiviso. Paolo, infatti, presenta la risurrezione come il principio generale di tutta la realtà (1Cor 15,13). La Risurrezione non è un’anomalia che è avvenuta una e una sola volta nella creazione e nella storia dell’umanità. Per Paolo, la Risurrezione è un modello cosmico che dice della realizzazione piena della creazione (cfr. 2Cor 1,21-22; Ef 1,14). La Risurrezione di Gesù e ancor più la visione di lui come risorto non è altro che il rendersi conto dei discepoli di ciò che da sempre e dovunque accade.         

Niente è uguale per sempre, afferma la scienza moderna. I geologi con buone prove possono dimostrare che nessun paesaggio è permanente per millenni. Acqua, nebbia, vapore e ghiaccio sono la stessa cosa, ma a stadi e temperature differenti. “Risurrezione” è un’altra parola per indicare il cambiamento e la trasformazione in cui giunge la vita con/dopo la morte. Il prefazio per la liturgia cattolica dei defunti dice: “La vita non è tolta, ma è trasformata”. La scienza ci sta ora dando un linguaggio molto utile per ciò che la religione aveva già intuito e immaginato, anche se in linguaggio mitologico. “Mito” non significa “falso” ma qualcosa che è sempre vero. La Risurrezione di Gesù, per così dire, è la mappa del paesaggio. Rappresenta un particolare e singolare microcosmo che fa vedere come Dio agisce e opera – sempre e ovunque – nel macrocosmo.