Orazione di Quiete e Devozione

L’Orazione di Quiete non è destinata a sostituire altri tipi di preghiera, piuttosto getta su di essi una nuova luce e profondità di significato.

L’Orazione di Quiete è meravigliosa, a meno che non sia l’unica forma di pratica meditativa di preghiera. Allora diventa estremamente limitante in termini di comunione con Dio, Gesù e altre presenze spirituali.

Non bisogna sostituire tutte le altre pratiche di preghiera con l’Orazione di Quiete. Poiché Gesù è tanto umano quanto divino, entrare in contatto con il Cristo cosmico attraverso l’Orazione di Quiete è solo uno dei due suoi aspetti: quella cosmica e transpersonale. La relazione personale con Gesù nella sua umanità glorificata è l’altro aspetto. Quando parlo con Gesù, con Gesù veramente uomo, entro in una relazione fatta di parole, immagini e pensieri. Gli chiedo consiglio come farei con un amico. Non è necessario lasciare la devozione a Gesù , nel momento in cui mi esercito nell’Orazione di Quiete.

Le due dimensioni – cosmica e personale – del contatto con Cristo formano la nostra vita di preghiera. Vanno insieme. Ciò che nella tradizione della non dualità  è la dimensione della bhakti (devozione) e della jnana (contemplazione). Ci si sposta dall’una all’altra. Parlare con Gesù non “intacca” la nostra dimensione contemplativa ma è anch’esso un modo per mantenere la mente sempre in uno stato di raccoglimento. La presenza di Cristo è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma essa si offre a noi in due modalità: cosmica e personale. Come le due facce della luna: visibile ed invisibile.

La presenza transpersonale del Cristo cosmico si realizza nell’Orazione di Quiete o in altri modi di contemplazione. Questa presenza “transpersonale” non è la stessa della presenza personale di Gesù. La prima si tuffa nella divinità di Gesù che è anche “nostra” in quanto siamo Cristo; la seconda entra in dialogo con l’uomo Gesù, nostro fratello ed amico. In questo caso, con un “Tu” personale.  

L’Orazione di Quiete intenziona il Volto infinito di Dio, che è un “oltre” ogni volto, “oltre” il Dio.  Il Cristo Cosmico rappresenta questo aspetto della realtà di Gesù: l’aspetto transpersonale. Stare alla “presenza” cosicché ci risvegliamo sempre più nell’oceano divino del Cristo.

La devozione a Gesù (ma anche a Maria, Madre di Gesù), invece, è un contatto con la presenza personale di Dio che ci è offerta in ogni uomo e donna, e in tutte le creature, ma in Gesù è peculiare poiché Gesù ci è rivelato nella gloria di un uomo. Gesù è il vivente. Oppure ci è rivelato in una donna, la sua madre, Maria, e con tutti gli altri compagni/e spirituali del nostro cammino che già sono i viventi nella Vita infinita di Dio.

Praticare solo l’Orazione di Quiete, escludendo intenzionalmente forme di devozione che attivano in noi la presenza personale di Gesù vivente, non ci aiuterà a connetterci personalmente con tutto il mistero di Dio che si offre nel suo Corpo che è la Chiesa e nel cosmo. Come Gesù è il Cristo, così anche la nostra preghiera conosce questi due aspetti: contemplazione (transpersonale) e devozione (personale).

Nella comprensione post-teista di Dio si afferma allo stesso tempo che tutte le cose sono “in Dio”, e che Dio è “in tutte le cose” e “in ogni singola cosa”. Mentre il teismo tende a separare Dio dalle cose, Dio dal creato; il post-teismo vede la pericoresi dei due movimenti. Dio in ogni cosa – Ogni cosa in Dio. 

Dopo l’illuminazione contemplativa  (tutto è ogni cosa in Dio) si ritorna alla devozione non come se questa “afferrasse” Dio e facesse di Lui il nostro oggetto di uso. Si ritorna alla devozione in una seconda ingenuità. Anche nella più semplice “preghierina” devota intravedo l’infinito che si comunica. 

Questa consapevolezza del duplice aspetto della presenza di Dio (transpersonale e personale) è importante perché evita di intendere il cammino spirituale come se fosse una gerarchia di livelli. Abbandonato il livello inferiore (devozione) non c’è più bisogno di rivolgermi ad esso. Mentre il “più” (contemplazione) è presente anche nel “meno” (devozione) e non va disprezzato o snobbato con la pretesa di aver già capito tutto, e di essere ormai giunta al livello superiore. Il “più” è presente nel “meno” come forza eccedente che dischiude anche la forma devozionale più banale o le forme liturgiche al contatto con l’infinito. Il 5 è nel 10 come ciò che lo contiene …. ma anche il 10 è nel 5 come ciò che lo trascende.

A livello pratico, dunque, mantenere contemplazione e devozione con il dosaggio che ciascuno troverà congeniale nel proprio cammino è un modo di riconoscere il mistero di Dio che non si lascia afferrare in una sola modalità. È un modo per rimanere umili, specialmente verso coloro che senza la pratica della orazione di quiete ma solo con la devozione tradizionale vivono profondamente la presenza di Dio anche in una immagine o giaculatoria. L’importante è non ingabbiare Dio né nella formula devozionale né nella formula della orazione di quiete. La vera contemplazione è non duale (né, né) e cattolica (e, e).

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO B

“Ichthus” in greco significa pesce. I primi cristiani usavano il simbolo del pesce per identificarsi. L’acronimo di ichthus è: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Chi è il Cristiano? Colui che crede in Gesù Cristo Figlio di Dio il Salvatore.

La gente che dice che io sia? Le risposte sono lì sul tavolo: Giovanni Battista, Elia e profeta: comunque un profeta.

E voi chi dite che io sia ? La risposta è semplice: il Cristo, il Messia.

Pietro dice sì “Messia” (= Cristo) ma come altri come lui, suoi contemporanei, intende il Messia secondo la concezione del giudaismo del Secondo Tempio. Se Messia, allora che siederà sul trono assieme a Dio a giudicare nel regno che verrà.

Il giudaismo del Secondo Tempio (così come l’Antico e la letteratura inter-testamentaria) non riconosceva che il Messia soffrisse, così come non si dà la figura del “Figlio dell’Uomo” con la sofferenza.  La comunità cristiana ha messo insieme i testi del Messia e del Figlio dell’Uomo con quelli del Servo sofferente, ed ha affermato: il Figlio dell’Uomo doveva soffrire, il Messia sofferente, per “comprendere” quanto era successo sulla croce.

Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà.

Ma Gesù invita i discepoli ad andare più nel profondo di sé.

La sofferenza a cui allude Gesù, non è solo quella fisica della sua passione. È qualcosa di più profondo, direi paradossale.

Perdere e salvare la vita è un’espressione che solitamente viene riformulata in molti modi: perdere/guadagnare, lasciare/ricevere, controllare/fluire, diminuire/crescere, morire/vivere…

Tutto questo parla del fatto che siamo di fronte a un paradosso di validità universale, più a prescindere dalla specifica tradizione in cui è nato. Lo troviamo infatti in altre tradizioni sapienziali, segno della sapienza che racchiude. Ma non solo. È testimoniato anche dal mondo animale.

Per esempio. Il salmone non nasce nelle acque del mare ma nei torrenti e raggiunge il mare quando ha circa due anni di vita.

Nel mare cresce grazie all’abbondanza di plancton, aringhe e piccoli pesci, ma dopo quattro anni trascorsi nelle acque salate sente l’istinto di tornare a riprodursi nell’acqua dolce dove è nato.

Il salmone raggiunge quindi la foce del fiume, si immette nelle sue acque, le risale con fatica nuotando controcorrente e – pochi sono gli esemplari che ci riescono – giunto alla meta, si riproduce e muore senza più forze a causa del consumo energetico per il viaggio e la riproduzione.

Questo paradosso che troviamo qui rappresentato nel salmone – vive volendo dando la vita – racchiude ciò che – anche all’interno della tradizione evangelica – costituisce il mistero centrale della vita come processo di morte/risurrezione. Nel mondo delle forme tutto è un continuo morire-risorgere: “Se il chicco di grano non muore», diceva il Gesù del quarto Vangelo, “non può portare frutto” (Gv 12,24).

Nel linguaggio buddista, i due poli della realtà sono chiamati “vuoto” e “forma”, secondo il noto detto del Sutra del Cuore: “Il vuoto è forma e la forma è vuoto”. Non sono opposti irriducibili, ma le due facce della stessa medaglia, abbracciate nella non-dualità.

Nel nostro caso umano, possiamo nominare i due poli come “identità” e “personalità” (persona = maschera). La nostra identità si esprime nella nostra personalità. Lì è raccolto il nostro paradosso, con l’invito a vivere entrambe le realtà in modo armonico. Ed è proprio a questa armonia che punta l’espressione evangelica.

Se assolutizzo la personalità (il “mio” sé) al punto da immedesimarmi (ridurmi a) con essa, perdo contatto con la mia identità e perdo la mia vita: mi sto perdendo nella confusione e nella sofferenza.

Solo quando “rinnego” il “mio” sé, “rinnegare” nel senso di “dis-conoscere” che la mia personalità “costruita” non è la mia identità più profonda, cioè quando capisco che la mia vera identità non coincide con quella e non mi riduco ad essa, vivo pienamente, quindi anche contro-corrente come un salmone. In altre parole: chi cerca solo di “salvare” il “proprio” del Sé, ciò che lo fa “unico” e “irripetibile”, perde la vita; Chi “perde” questa sua “proprietà” – perché da esso si è dis-identificato e s-bloccato – la trova la vita. Cioè scopre il “proprio” sé non più nella “proprietà” di sé, nella “presa-di-sé” ma “nel Sé”, cioè “nella Vita”, nell’Infinito”.

Quanto più ci tuffiamo nelle acque dell’infinito Sé (divinità) tanto più ci stacchiamo dal “proprio” del sé e ci dis-identifichiamo da ciò che non siamo realmente ma virtualmente. In questa “dis”-identificazione c’è un morire, un soffrire, un perdere. Sì in questo è presente quella “sofferenza” a cui allude Gesù parlando del “Figlio dell’uomo”.

Non si tratta di demonizzare il “proprio” del sé – quello che chiamiamo anche “io” – e nemmeno eliminarlo. Nel brano evangelico di oggi, Gesù si rivolge a Pietro con l’appellativo “Satana”. Tale “espressione” si riferisce a quanto dicevamo della pulsione ’ Satana a volerci “identificare” e continuare ad identificarci con il nostro “nickname”. Satana ci “aliena” dalla nostra vera natura divina. “Satana” è un’espressione “mitica” ma indica una realtà che è appunto quella della “attaccamento” alle nostre maschere.

Ciò che costituisce la “proprietà” del sé, ciò che ci rende questo e non quello, “io” e non “tu”, è una realtà positiva. Rivela ciò che gli altri dicono di noi, ciò che noi pensiamo di noi stessi. Tutto quello che gli altri dicono “dall’esterno” ed io dico nel mio “interno” va accolto e vissuto, però, a partire dalla vera identità profonda: sé “nel” Sé.

Io sono la mia persona… io non sono la mia persona. Io sono.

Gesù è colui che testimonia questa libertà profonda dalla presa su di sé, consentendogli di trasformarsi nel Cristo, di diventare quel Cristo che anche noi siamo chiamati ad essere. Lasciando l’habitat cui siamo cresciuti e seguendo l’istinto, il desiderio di dare la vita rituffandoci in Dio. Il Cristiano del XXI secolo è un tipo di pesce. È simile al “salmone”. È un pesce, ma diverso. Sì, pesci controcorrente che seguono la corrente interna, del profondo, ritornare all’origine… là dove tutto è nato: in Dio, nella Vita, nello Spirito. Generare, morendo, dando la vita. Questa la vocazione del Cristiano del XXI secolo: realizzare la vocazione di “salmone”.

Fede e ragione: due facoltà?

La mia tesi è questa:

Fede e Ragione non sono “due” facoltà dell’uomo credente. C’è solo la ragione (logos) divina. La ragione “umana” è la prospettiva del finito che comprende “nel finito” se stesso e l’infinito, determinandolo. La fede è la partecipazione della ragione “umana” alla ragione “divina”, essendo compresa dall’infinito. Nella fede la ragione umana si comprende “nell’/dall'” infinito, co tuti i suoi oggetti: il creato e l’increato.

Dunque, ci sono due modi di intendere il rapporto tra fede e ragione. Uno estrinseco; l’altro intrinseco.

Estrinseco. Una, la ragione (LOGOS), è “dell’uomo, della natura umana”; l’altra, la fede, è grazia e dono di Dio. Due doni di Dio, poiché sia la ragione creata che la fede donata, provengono entrambe “da Dio”. Questo modo di intendere fede e ragione è estrinsecistico, giustapposto: C’è la ragione; e poi c’è la fede.  

Intrinseco. La ragione, cioè il Logos, è Logos “divino”, originariamente “di Dio”. È il “suo” logos. Il Logos di Dio (genitivo “soggettivo”). Se con Dio intendiamo l’Assoluto, possiamo dire che il “logos di Dio” (gen. soggettivo) è il logos, la ragione dell’assoluto. Che cosa è il Logos: la ragione dell’assoluto.

Chiediamoci ora: cosa è la “fede”? La fede è “logos”. Lo stesso “logos” di Dio. La fede non è qualcosa d’altro. La fede non è altro che il logos umano, la ragione umana che partecipa della vita, dell’essere di Dio. Sinonimo di “partecipazione” è “grazia”. Dunque, la fede è la ragione che partecipa della ragione divina. Il logos “umano” è irradiazione/partecipazione del logos “divino”. In tal senso la ragione è “grazia”, la ragione è “fede”. La fede, infatti, è “partecipazione” della vita dell’Assoluto, cioè Dio. Partecipazione nello specifico del “logos”. La fede è partecipazione al pensiero dell’Assoluto. In tal senso, il “credente” è assimilato alla ragione divina.

Ora, la fede così determinata – come ragione che partecipa del logos assoluto – non ha specifici “contenuti” se non quelli “propri” della ragione. Ovvero, la ragione “umana” è la facoltà del riconoscimento della realtà come “determinata”. La realtà, infatti, ha due aspetti. Il suo aspetto “determinato” (l’ente) e il suo aspetto in-determinato: il “non” ente, niente, dunque l’Essere. L’Essere è l’aspetto indeterminato dell’ente (e della loro totalità). Tale aspetto “in-determinato” è lo sfondo entro cui gli enti come tali “appaiono”. La ragione umana è la facoltà della “determinazione” dell’ente. La fede, come partecipazione alla ragione divina, non “aggiunge” altri contenuti ma com-prende o legge questi stessi (gli enti) nell’orizzonte dell’in-determinazione, ovvero dell’Assoluto. La fede, quindi, non sa “più” cose della realtà (creata e increata). La fede è la stessa facoltà della ragione che sa le cose della realtà (creata ed increata) nell’orizzonte indeterminato dell’Assoluto.

È importante distinguere la ragione dell’Assoluto (genitivo “soggettivo”) dalla ragione dell’Assoluto (genitivo “oggettivo”). Questo secondo momento, quello “oggettivo”, è la “determinazione” della ragione “umana” – prescindendo dalla sua partecipazione alla ragione assoluta – dell’Assoluto. È il tentativo della ragione umana di determinare l’Assoluto con concetti, immagini e simboli. La ragione dell’Assoluto (Gen. Ogg.) si distingue dalla ragione dell’Assoluto (Gen. Sogg.) come il “determinato” (ente) che si distingue dall’”in-determinato” (Essere). “Dio” (indeterminato) si differenzia da “il Dio”, oggetto della ragione che riflette sull’Assoluto che partecipa del suo logos. “Il Dio” non è “Dio”. Dio (divinità) è “oltre” … “il Dio”.

Avere la mente di Dio – ciò che Paolo chiama la “nous tou Christou” – significa comprendere Dio e il creato nella loro originaria struttura “pan-en-teista”. Comprendere la realtà (creata ed increata) dalla prospettiva dell’Assoluto (sub specie dei).

Cosa si intende per “speculativo”. La parola “speculazione” richiama lo “speculum”, lo specchio. Lat. specŭlum, der. di specĕre ‘guardare’ da cui deriva anche spècie, dal lat. species, propr. “aspetto, forma esteriore”. Lo speculativo è colui che viene “assimilato” alla forma divina, trasformato nella specie divina. Il credente è il vero” speculativo. Divinizzazione della ragione umana a quella divina.