Tomba piena o vuota?

Questa è la mia tesi: La tomba vuota non è correlato “necessario” alla resurrezione di Gesù di Nazareth.

Tanto una tomba “vuota” quanto una “piena” sono segno della resurrezione di Gesù Cristo. Se solo la tomba “vuota” fosse il segno dell’avvenuta resurrezione, ne seguirebbe che la resurrezione di Gesù non sarebbe più speranza per la “nostra” resurrezione. Infatti, i nostri corpi mortali si corrompono nel sepolcro, mentre quello di Gesù non è passato per la corruzione.

Potremo dire, quindi, che Gesù non è morto “fino in fondo”, proprio perché il suo corpo non è “passato” per la corruzione ma l’ha “evitata”. Gesù non sarebbe morto “come noi”. A questo punto, però, se la “corruptio corporis” è ciò che identifica qualcuno come morto, ciò significa che Gesù – evitando la corruzione della morte – non è veramente morto. Come leggere Atti 2,29: “questi [= Gesù] non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione”? La discesa di Gesù agli inferi e la corruzione vanno interpretati l’uno con l’altro.

La testimonianza del NT (Ef 4,10 e 1Pt 3,19-20) ha inserito la “discesa agli inferi” come attestazione che Gesù è veramente morto. “Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1 Pt 3, 19-20). Il testo di Atti 2,24 afferma, inoltre, che Dio ha risuscitato Gesù, “sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”. Ciò non vuol dire che Gesù abbia schivato l’angoscia e gli inferi.

La testimonianza del NT e successivamente della Chiesa è che Gesù è morto “passando attraverso” angoscia ed inferi, non schivandole. Così sarebbe in sintonia con questa verità di fede interpretare Atti 2,29 in analogia all’angoscia, da cui Gesù è stato sciolto (benché passandoci attraverso), e agli inferi (benché ci sia veramente entrato dentro). “Non vide la corruzione” di Atti 2,29 non significa, dunque, gli fu evitata la corruzione del corpo per cui il suo corpo non subì la corruzione. Come non fu abbandonato negli inferi, così il “non vedere” la corruzione significa che il corpo di Gesù non fu lasciato “nella” corruzione (che subì) ma nella corruzione “vide il Signore” (cf Salmo 15,8, in Atti 2,24).

Per via dell’analogia fidei, dunque, possiamo direche il corpo di Gesù subì il processo della corruzione del corpo ma questo decadimento non sì fermò lì. Il fine di questa “corruzione” è la resurrezione: stare presso Dio.

Credo che questo è un valido argomento per la possibilità che il sepolcro di Gesù sia stato “pieno” e che l’eventuale scoperta del cadavere di Gesù (è solo una ipotesi questa) non inficerebbe la fede nella resurrezione pasquale, anzi la confermerebbe specialmente nella sua dimensione di speranza per i nostri corpi mortali che sono “mortali” poiché passano attraverso l’angoscia, il mondo degli inferi e principalmente/visibilmente la corruzione. Che il sepolcro sia “pieno” o “vuoto”, dunque, né conferma né contraddice la resurrezione. Non è la fede nella resurrezione che “esige” o l’uno o l’altro.

La fede pasquale può ben convivere con l’una o l’altra ipotesi, così come Karl Rahner e Ingolf U. Dalferth hanno dimostrato dal punto di vista della cristologia sistematica.  È la ricerca storica che può, tutt’al più, dare ragioni di plausibilità e probabilità per l’una o l’altra ipotesi. Attualmente la ricerca storica non ha argomenti favorevoli più per l’una che per l’altra ipotesi. Entrambe sono possibili.

La scelta per l’una o per l’altra ipotesi “dipende” dalla visione teologica che si adotta. Ma la fede nella resurrezione non si “fonda” sul ritrovamento della tomba “vuota” (così come della tomba “piena”) ma sull’agire salvifico di Dio “su”, “in” e “con” Gesù morto e crocifisso. L’innalzamento di Gesù (ἀνάστασις) da parte di Dio (Padre) è allo stesso tempo un risvegliarsi (ἐγείρω), destarsi e stare in piedi da posizione supina da parte di Gesù. L’azione divina non è meramente “estrinseca” ma attiva “in” Gesù quella forza, quella “dynamis” che lo ha accompagnato fin dal suo concepimento. È lo Spirito che “fa sì” che Gesù “si” alzi dai morti. Quanto più Dio opera, tanto più la creatura agisce. Per questo i due verbi della resurrezione ἀνάστασις/ἐγείρω dicono pienamente l’evento della resurrezione. Dio fa sì che le creature si facciano. Dio Padre fa sì che Gesù si alzi e risusciti, si risvegli dal sonno. Ciò che Ef 5,14 riferisce al credente in Cristo, può essere riferito a Gesù stesso: “Svegliati, o tu che dormi, déstati dai morti e (anziché Cristo) Dio Padre ti illuminerà”.

Tutto è relazione – tutto è grazia

1. Siamo tutti interconnessi (cielo, terra, tu ed io)

2. L’essenza divina è sé “e” tutte le cose.

3. Questa “e” indica la relazione intima di tutte le cose con Dio: non è una relazione “esterna” ma “interna” benché Dio né si risolva in tutte le cose (panteismo) né si separi o differenzi realmente da tutte le cose (teismo). Dio è la Sua relazione a tutte le cose. Si tratta di una differenza “formale” e non reale di Dio da tutte le cose. San Tommaso (Summa theologiae, I, q. 44, art. 3) afferma: “Nella divina sapienza si trovano le essenze di tutte le cose: le quali sono chiamate idee, cioè forme esemplari esistenti nella mente di Dio. E sebbene esse siano molteplici relativamente alle cose, tuttavia non sono in realtà distinte dall’essenza divina, in quanto la somiglianza di questa può essere da più cose diversamente partecipata. Dio stesso è la causa esemplare di tutte le cose”.

4. Questa inter-relazione è cosa “buona”, è il “bene-essere” della realtà. È una condizione originaria, incondizionata. Una benedizione originaria che nulla può distruggere. Dunque, credere che gli uomini sono “intrinsecamente” colpevoli e dunque colpevoli, immeritevoli della grazia e dunque bisognosi della salvezza da qualcosa dal di fuori o qualcun’a/Altro, significa chiudersi alla gratitudine ed ostacolare il flusso continuo ed incondizionato della grazia. Questa è stata l’esperienza di Gesù di Nazareth, per cui era evidente che il Padre celeste “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45). Siamo fatti di diamante, buoni intrinsecamente, perché il Bene ci abita da sempre, dovunque e comunque. Nulla può distruggere questa “grazia” che circola nelle vene dell’universo, negli eventi, nelle persone, nelle grandi e piccole cose. Non siamo noi a condizionare la grazia, tutt’al più possiamo “interrompere” questa vita della grazia. È come l’aria che respiriamo: non è condizionata dal nostro respirare, ma possiamo volontariamente tapparci la bocca e smettere di respirare. 

5. Questo “bene-essere” è, dunque, la grazia di Dio che tutto pervade e mette in moto tutto il cosmo e porta tutte le cose, e singolarmente, al loro compimento. Infatti, questa inter-relazione con tutti gli esseri che ci costituisce è in divenire, cresce e si perfeziona, perché il “Bene” (ovvero “Dio”) sia tutto in tutte le cose.

6. Questa grazia è accessibile direttamente nel momento “presente”: qui ed ora. Non è l’idea di un’età dell’oro e nemmeno l’attesa di qualcosa/qualcuno che dovrà venire. La grazia abita sempre il “suo” tempo che è qui ed ora.

7. Attraverso il momento presente “entro” nel Regno di Dio che è cielo-terra-io-tu. Quanto più assecondo questo flusso, questa danza graziosa, del ricevere e dare, dare e ricevere, rimane e pulsa in me la vita di Dio. Dio è questa grazia.

8. “Assecondare” il flusso di grazia, significa vivere secondo la natura di Dio che è “Amore”. In questo ci viene ben in aiuto Sant’Agostino che così descrive il flusso della grazia. “Ama e fa ciò che vuoi: se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore, se perdoni perdona per amore. Sia in te la sorgente dell’amore, perché da questa radice non ne può uscire che il bene” (Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni 7, 8); “Ama il prossimo e mira dentro di te la fonte da cui scaturisce l’amore del prossimo, ci vedrai, in quanto ti è possibile, Dio” (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 17, 8); “Cosa è questa fonte, cos’è questo fiume che scaturisce dal seno dell’uomo interiore? È la bontà che lo spinge a provvedere al prossimo. Se tu ritieni che quanto bevi debba bastare solo a te stesso, non scaturirà dal tuo seno l’acqua viva: se ti affretti invece, a farne parte al prossimo, allora la fonte non seccherà, ma fluirà ininterrotta” (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 32, 4).

9. Anche la Preghiera del Padre Nostro vive di questa circolarità di grazia: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Dio non condiziona il Suo perdono al nostro merito di aver perdonato, ma il Suo incondizionato perdono ed amore (l’aria) è “esperibile” da noi e lo respiriamo, nel momento in cui “anche” noi amiamo incondizionatamente, nella pura gratuità.

10. Questo vale sia per l’agire che per il contemplare. La grazia di Dio che sempre ci precede, ci accompagna e ci segue – quindi è sempre gratuita – diventa esperibile nella responsabilità personale. A tale proposito scrive Sant’ Ignazio di Loyola: “Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio” (cfr Pedro de Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loyola, Milano 1998). Ognuno di noi sa bene di dover fare tutto quello che può, anche attraverso tecniche di meditazione ed indicazioni spirituali, ma nella consapevolezza che il risultato finale dipende da Dio: questa consapevolezza lo sostiene nella fatica di ogni giorno, specialmente nelle situazioni difficili.

Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gen 1,31)

Preghiera cristiana e non dualità

Tre sono le obiezioni fondamentali da parte cristiana all’utilizzo dello yoga e della meditazione di consapevolezza.

La prima fondamentale obiezione è che con la pratica dello yoga e della meditazione di consapevolezza la persona si rinchiude in se stessa, poiché lo yoga e la meditazione hanno il fine di conoscere se stessi (atman), e conoscendo sé si conosce Dio stesso (brahman). Nello yoga e nella meditazione, dunque, viene meno l’alterità della relazione duale: Dio non è più il “Tu” a cui volgermi ma il Sé in cui immergermi.

Vorrei ricordare a coloro che fanno questa obiezione che nella pratica cristiana della preghiera, per esempio, è sempre “latente” il rischio di una proiezione nel “Tu” divino di noi stessi: dei nostri pensieri, immagini ed aspettative. In definitiva, facciamo dire a Dio che “mi” parla quello che “io voglio”. La differenza tra la meditazione di consapevolezza e la preghiera cristiana, dunque, è che la prima è “consapevole” che Dio non è il “Tu” a cui volgermi ma la sorgente del mio essere.

La meditazione è conoscenza di noi stessi, dove il “noi stessi” (atman) non è altro da Dio ma è Dio stesso (brahman). Tuttavia, la meditazione di consapevolezza fa un passo in più. Dio non è semplicemente il “noi” di noi stessi, ma è la realtà sorgiva di noi stessi. La meditazione è “consapevole” di questa distinzione “formale” (benché non reale) tra “noi” e “Dio”. Propriamente, la conoscenza di “sé” non è la conoscenza di ciò che “so” del “mio” sé, ma è conoscenza che io “non” sono il “mio” sé, ma il sé (atman) che è Dio (brahman).  

La preghiera cristiana è sì “colloquio con Dio”, “dialogo” con il “Tu” di Dio. Tuttavia, il “Tu” a Cui prego è ciò che mi fa pregare. È lo Spirito che fa pregare ed attiva il “mio” spirito. Quindi lo Spirito (di Dio) non è il “Tu” a cui prego ma la realtà da cui, in cui e per mezzo di cui prego. Anche nella preghiera cristiana, per sua costituzione, Dio (cioè lo Spirito di Dio) non è solamente un “Tu” a cui prego ma è ciò che mi costituisce come orante. Per quanto riguarda il “Tu”, come dicevo prima, rimane sempre il rischio della proiezione. Cosa è che mi permette di distinguere se mi sto illudendo, per cui ciò che considero un “dialogo con Dio” è un “monologo con me stesso”, o se invece sto realmente dialogando con un Altro che è Dio? La risposta che la spiritualità cristiana continuamente dà è: lo Spirito di Dio. Certamente, vi sono maestri e padri spirituali che aiutano in questo discernimento, ma questi se sono veramente “spirituali” rimandano l’orante allo Spirito. Ne segue, che per non illudermi che nella preghiera non stia a parlare con me stesso devo far riferimento allo Spirito di Dio ed è quella realtà che mi fa pregare. Ma lo Spirito è una realtà non “altra” da me poiché è lo Spirito che mi costituisce come orante. Lo Spirito è testimone del nostro spirito (Rom 8,16). Ne risulta, dunque, che la conoscenza di sé è costitutiva della stessa preghiera cristiana. La forma “dialogica” della preghiera cristiana, quindi, ha la sua condizione di possibilità nella consapevolezza dello spirito (atman). Questa consapevolezza originante e testimoniale è lo Spirito di Dio (brahman).

La seconda fondamentale obiezione consiste nell’affermare che nella comprensione non duale la singolarità dell’individuo si annienta nell’assoluto. L’io è sciolto (da se stesso, quindi liberato) e dissolto in Dio, cosicché l’io svanisce in Dio. È proprio del cristianesimo, invece, l’affermazione della singolarità, particolarità ed unicità della persona che non “si perde” nell’assoluto. Anche in questo caso, coloro che fanno questa obiezione dimenticano che Gesù invita coloro che lo seguono a rinnegare se stessi, a prendere la sua croce e a seguirlo. “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 9,23-24). “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25). Il testo di Giovanni è indicativo della dinamica del “perdere” se stessi – il rimanere da “soli” della ψυχή (anima, vita) – per trovare se stessi come viventi (ζωή di Gv 10,10) in un orizzonte di vita maggiore ed abbandonante (vita eterna, la ζωή). Ciò che si perde è una modalità della propria vita perché la vera vita sia raggiunta. In questa trasformazione (da seme ad albero maturo) è necessario dissolversi e perdersi come fa un granello di sale nell’oceano.

Per comprendere meglio il rapporto tra singolarità ed assoluto può venirci in aiuto San Tommaso (Summa theologiae, I, q. 44, art. 3). “Nella divina sapienza si trovano le essenze di tutte le cose: le quali sono chiamate idee, cioè forme esemplari esistenti nella mente di Dio. E sebbene esse siano molteplici relativamente alle cose, tuttavia non sono in realtà distinte dall’essenza divina, in quanto la somiglianza di questa può essere da più cose diversamente partecipata. Dio stesso è la causa esemplare di tutte le cose”. Nell’essenza divina vi sono le essenze di tutte le cose, infatti, l’essenza divina è la causa esemplare di tutte le cose. Dio non conosce solo le idee di tutte le cose ma conosce anche ogni singolarità (ogni individuo, ogni singolo evento, ogni singolo aspetto). “Dio, quindi, se nel conoscere la propria essenza conosce nella sua universalità la natura dell’ente, deve anche conoscere il molteplice. Ma il molteplice non può essere conosciuto senza la distinzione. Dunque, Dio conosce le cose in quanto sono tra loro distinte” (Summa contra gentiles, Libro I, capitolo 50, n. 5). Come le idee di tutte le cose non sono distinte dall’essenza divina, per cui “sono” l’essenza divina, così ogni singolarità che è conosciuta da Dio è la sua essenza.

Dunque, i finiti nella loro singolarità sono presenti nell’essenza divina infinita. Il finito è presente nell’infinito in quanto – con termine tedesco – aufgehoben cioè sciolto dalla sua forma “separata” e “non relata” ma “conservato” nell’infinito. È quindi un “perdere” e “distacco” del finito nella sua singolarità ed individualità alienante, senza relazione all’intero. Ricordo che in greco holos e salvus in latino (nelle lingue germaniche selig, beato) dicono riferimento all’intero come salvezza/salute. La negazione (del perdere, rinnegare se stessi, dissolversi) è annullamento della singolarità “isolata” ma questa è riaffermata ed è compiuta (perfezione) in un orizzonte eccedente e sovrabbondante. Con un esempio numerico: se prendiamo il 10 come l’infinito, in esso sono presenti sia il 7 che l’8 – e tutti gli altri numeri che lo precedono – non nella loro forma “separata” ma in forma “sublimata”, cioè “innalzata” e “risorta”, finito-n/dell’-infinito.

Nella meditazione di consapevolezza e nella pratica yoga siamo immersi nell’infinita essenza divina e dissolvendo la forma “separata” del “nostro” essere, ci riconosciamo gocce d’acqua, granello di sale conservate nell’oceano.

La terza obiezione riguarda il rapporto tra la pratica della meditazione non duale e la grazia di Dio. Da parte cristiana si obietta che le tecniche di yoga e di meditazione intendono produrre l’effetto di ciò che è e rimane sempre un dono di grazia. A tale obiezione rispondo dicendo che la grazia di Dio tutto pervade e mette in moto tutto il cosmo e porta tutte le cose, e singolarmente, al loro compimento. La grazia è la inter-relazione con tutti gli esseri, è la Vita divina che precede, accompagna e segue tutte le cose, e dunque anche la “nostra” tecnica di meditazione. La meditazione di consapevolezza, essere presenti nel presente alla Presenza, è un esercizio spirituale. Come dice Sant’Ignazio nella Prima Annotazione degli Esercizi Spirituali, “con il termine di esercizi spirituali si intende ogni forma di esame di coscienza, di meditazione, di contemplazione, di preghiera vocale e mentale, e di altre attività spirituali, come si dirà più avanti. Infatti, come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi di preparare e disporre l’anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate”. Si tratta di disporre il terreno all’accoglienza della grazia nella consapevolezza che anche questo disporre è grazia.

Attraverso il momento presente “entro” ed “assecondo” il flusso della grazia flusso. “Assecondare” il flusso di grazia, significa vivere secondo la natura di Dio che è “Amore”. In questo ci viene ben in aiuto Sant’Agostino che così descrive il flusso della grazia. “Ama e fa ciò che vuoi: se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore, se perdoni perdona per amore. Sia in te la sorgente dell’amore, perché da questa radice non ne può uscire che il bene” (Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni 7, 8); “Ama il prossimo e mira dentro di te la fonte da cui scaturisce l’amore del prossimo, ci vedrai, in quanto ti è possibile, Dio” (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 17, 8); “Cosa è questa fonte, cos’è questo fiume che scaturisce dal seno dell’uomo interiore? È la bontà che lo spinge a provvedere al prossimo. Se tu ritieni che quanto bevi debba bastare solo a te stesso, non scaturirà dal tuo seno l’acqua viva: se ti affretti invece, a farne parte al prossimo, allora la fonte non seccherà, ma fluirà ininterrotta” (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 32, 4).

Anche la Preghiera del Padre Nostro vive di questa circolarità di grazia: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Dio non condiziona il Suo perdono al nostro merito di aver perdonato, ma il Suo incondizionato perdono ed amore (l’aria) è “esperibile” da noi e lo respiriamo, nel momento in cui “anche” noi amiamo incondizionatamente, nella pura gratuità.

Questo vale sia per l’agire che per il contemplare. La grazia di Dio che sempre ci precede, ci accompagna e ci segue – quindi è sempre gratuita – diventa esperibile nella responsabilità personale. A tale proposito scrive Sant’ Ignazio di Loyola: “Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio” (cfr Pedro de Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loyola, Milano 1998). Ognuno di noi sa bene di dover fare tutto quello che può, anche attraverso tecniche di meditazione ed indicazioni spirituali, ma nella consapevolezza che il risultato finale dipende da Dio: questa consapevolezza ci sostiene specialmente nelle situazioni difficili della vita ed anche della meditazione silenziosa.

Noi siamo l’esistenza di Dio

In Dio si distingue essenza ed esistenza. Nella tradizionale metafisica tomista si afferma che Dio è ipsum esse subsistens, in Dio essenza ed esistenza si identificano, mentre nelle creature si differenziano. Le creatura “hanno” l’atto di essere ( = esistenza); Dio “è” l’atto di essere”. Questa differenza viene anche chiamata differenza ontologica tra Creatore e creatura. Bene e qui ci siamo. Ma facciamo un passo in avanti. Per Tommaso d’Aquino l’essenza divina si partecipa in molteplici modi (cf Summa contra Gentiles, libro I, capp. 50 seguenti) dunque le cose sono partecipazione della sua essenza divina, esse sono “Dio” poiché Dio “è” la sua essenza e le molteplici partecipazioni di essa.

Se l’esistenza è “atto” dell’essenza ed “atto” dice realizzazione dell’essenza, la creatura e tutte le creature nella loro totalità sono realizzazioni dell’essenza divina e sua partecipazione. Il carattere ontologico delle creature è essere “da Dio”: esse sono partecipazioni (“da Dio”) ed attuazioni dell’essenza divina (“Dio”). Dio da Dio. Per questo le creature “esistono” cioè ek-sistono, sono a partire da.  Propriamente, dunque, Dio “non” esiste. Dio non è “a partire dalle” creature ma sono le creature che sono “a partire” da Dio (ek-sistere). Dio non ha bisogno di esistere, cioè di uscire da Dio. Le creature “esistono”. Anzi proprio l’esistenza definisce la creaturalità. Ma è l’esistenza dell’essenza divina, partecipazione e realizzazione dell’essenza divina.

La differenza ontologica tra Dio (creatore) e le creature, dunque, riguarda l’esistenza e non l’essenza. Propriamente Dio “non” esiste, ek-siste. Dio non sta “fuori” da Dio. Dio “non esce” da Dio, poiché non c’è nulla dove Dio non sia. È impossibile che Dio esista da Dio. Se Dio “esiste”, esiste nelle creature e come creatura.  La creatura, invece, propriamente “esiste”, partecipa”, cioè “appare”, ma “ciò che” esiste, non il “che” di ciò che appare, è Dio, l’essenza divina.

Cioè noi siamo l’esistere dell’essenza divina, l’uscire di Dio da Dio, Sua partecipazione e Sua realizzazione. Se Dio esce da Dio si finitizza, si de-finisce, si de-termina e si attua. Dio “esiste” in noi, attraverso di noi: Dio “esiste” come uomo. Noi siamo l’apparire di Dio. Noi siamo “atto” di Dio. Quando Dio appare, noi siamo. Il cosmo esiste, quando appare la consapevolezza divina. 

Questa è come intendo la questione della differenza “ontologica” tra Creatore e creatura. È una differenza “relativa” e non assoluta, poiché l’apparire o l’esistere è di Dio (genitivo soggettivo), cioè fanno riferimento all’essenza divina. “Esistere” e “apparire” esprimono la creaturalità, finitezza e determinazione (questo e non quello) di Dio. Con termini kénotici, possiamo dire che Dio si svuota nel finito. Kénōsis (κένωσις), deriva dal sostantivo κενός, kenós, che significa “vuoto”: è una parola greca, che significa letteralmente “svuotamento” o “svuotarsi”. Il verbo κενόω, kenóō, significa “svuotare”. “Cristo svuotò se stesso” (ἐκένωσε, ekénōse)» (Fil 2,7).

Per esprimermi meglio. Se assumo il 10 come l’essenza divina, le seguenti operazioni sono la sua esistenza: 5×2, 12-2, 20:2, 8+2. Dio (cioè 10) è presente in ciascuna operazione. Tutte e 4 sono Dio, perché tutte e quattro le operazioni mi danno sempre 10, ma nessuna la esaurisce. Dio esiste in tanti modi di determinazione ma nessuno di questi esaurisce Dio. Ogni modo determinato è tutto Dio (= 10) ma Dio non si identifica con nessuno di questi modi: Dio non si risolve in nessuno dei suoi modi finiti. Se così fosse, cioè se una creatura fosse la piena realizzazione dell’essenza divina, Dio si svuoterebbe ed esaurirebbe in quella creatura. L’essenza divina finirebbe ed anche la creatura finirebbe di esistere. Perché la kénosis di Dio sia, è necessaria la struttura relazionale dell’essenza di Dio.

Gesù è stato salvato dal peccato?

La lettera agli Ebrei (4,15) afferma Gesù è in tutto simile a noi, eccetto che nel peccato. L’affermazione su Gesù è di carattere “escatologico”; si dice di Gesù quello che è diventato con la Pasqua: non quello che è stato nella sua vita terrena! Solo così si comprende perché il Gesù storico abbia chiesto a Giovanni il battesimo al Giordano. Gesù è “divenuto” senza peccato, quindi anche Gesù è stato salvato nell’atto della Resurrezione.

Per Giustino e Ilario di Poitiers, ricorda Luis F. Ladaria, hanno parlato della salvezza di Gesù (genitivo soggettivo). Così afferma Ilario di Poitiers (Tr. Ps 53, CCL 61,139): “dalla debolezza che ha in comune con noi ha chiesto per sé la salvezza da parte del Padre, perché si potesse intendere che si trovava dentro la nostra umanità nelle stesse condizioni della nostra umanità”. E così conclude Ladaria: “Cristo può essere il salvatore perché nella sua umanità ha sperimentato e ha ricevuto la salvezza da Dio; in una parola, è stato salvato”[1]. “[…] il noto assioma ‘quod non est assumptum non est sanatum’ ottiene pienezza di significato se pensiamo che in primo luogo è stato ‘salvato’ Gesù stesso nella sua umanità, che egli ha assunto nella sua integrità (corpo e anima), e per questo ha potuto essere salvato tutto il genere umano; la sua salvezza è passata ad ogni uomo”[2]. A questo punto, però, Ladaria entra in una palese contraddizione, affermando: “È evidente che, nel caso di Gesù, la ‘salvezza’ esclude la liberazione dal peccato, che non ha potuto commettere, ma che egli, però, si è caricato sulle sue spalle”[3]. Dunque, Gesù è stato salvato dal peccato ma non dal suo peccato. Assumendo l’umanità (con il peccato), la persona del Figlio di Dio ha salvato l’umanità dal peccato, cioè quell’umanità di cui partecipa l’uomo Gesù. Gesù non può essere stato salvato dal suo peccato, poiché il fondamento della volontà umana e dell’agire umano di Gesù è la persona divina del Verbo. Poiché Dio non può peccare – a motivo dell’impeccabilità della natura divina – ne segue che il Figlio di Dio in quanto persona divina “non può peccare” di diritto. Risulta chiaro da queste citazioni di Ladaria che il dato del Gesù storico, testimoniato dal Nuovo Testamento (cf la Lettera agli Ebrei, in particolare 4,15), viene interpretato non in modo “escatologico” (Gesù risorto e divenuto il Cristo) ma “protologico” (il Verbo preesistente, il Figlio di Dio consustanziale a Dio Padre). Questo è uno dei tanti esempi in cui il dogma (s-)piega la Scrittura, affinché lo confermi. 

Se interpretiamo il “senza peccato” di Eb 4,15 alla luce di Eb 5,8-9 “imparò l’obbedienza”, “reso perfetto”, ne segue che il “senza peccato” predicato di Gesù non è da considerarsi già dato ma da essere raggiunto nella perfezione, e quindi uno stato di non ancora compimento escatologico. Il verbo greco presente in Eb 5,9 è τελειωθεὶς, da τελειόω e significa: perfezionare, completare, realizzare. Si tratta di un processo o sviluppo di perfezionamento ed ha il suo fine nella Pasqua. A questo punto, mi sembra riduttivo quanto afferma Romano Penna, secondo cui il “perfezionamento” di Gesù si riferisce al suo essere costituito sacerdote e non ad un perfezionamento morale di Gesù verso la piena santità[4]. “[Gesù] ha perfezionato anche il proprio rapporto, sia nei confronti di Dio mediante una estrema docilità nei confronti della sua volontà, tale da fargli accettare una sorte che non meritava affatto (da questo punto di vista è possibile recuperare parte dell’interpretazione morale), sia attraverso la totale solidarietà con gli uomini (cf. 2,9-18; e 8,1)”[5]. A mio parere, è da notare una certa ambiguità nella comprensione del perfezionamento, vedendo questo come un accidente, che non definisce sostanzialmente l’identità escatologica di Gesù.

Nella fine di Gesù (la sua morte) avviene ed è rivelato il fine di Gesù (la sua resurrezione). Ciò riguarda lo stato escatologico che Gesù ha raggiunto: “Dio ha costituito (ἐποίησεν) Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!” (Atti 2,36); “costituito (ὁρισθέντος) Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti” (Rom 1,4)[6].

A partire dalla Pasqua, Gesù è “senza peccato” poiché è nella resurrezione che Gesù è divenuto Figlio di Dio e l’umano di Gesù ha raggiunto il suo pieno compimento: compimento che è possibile per ciascuno di noi.

A contraddire questa comprensione del “senza peccato” in Gesù, si potrebbe richiamare 2Cor 5,21 (cf Rom 3,20, Rom 7,7, 1Pt 2,22, Gv 8,46 e 1Gv 3,5) in cui Paolo afferma che Cristo non ha conosciuto peccato. L’espressione “conoscere peccato”, seguendo la prospettiva biblica, implica una conoscenza esperienziale del peccato, effettivamente commesso in un atto e momento preciso. Tuttavia, è indicativo quanto 1Gv 3,9-10 afferma: “Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio. Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello”. Chiunque è nato da Dio (ὁ γεγεννημένος ἐκ τοῦ θεοῦ) è “senza peccato”. Ciò significa che “essere in Dio”, “nascere da Dio” implica essenzialmente “essere senza peccato“, “non conoscere peccato“. “Chiunque rimane in lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l’ha conosciuto” (1Gv 3,6). Poiché Dio è santo per essenza, “senza peccato”, essere “in Dio” implica essenzialmente essere “immacolati”, “impeccabili” e “senza macchia”: dunque, perfetti. Come intendere questa perfezione? Protologica o escatologica? Ritengo vada compresa in maniera escatologica. Dalla fine si comprende l’inizio (priorità gnoseologica), ma l’inizio si realizza alla fine (priorità ontologica). Il seme di quercia si realizza nell’albero di quercia (priorità ontologica della fine sull’inizio) e fa sì che questo seme sia conosciuto “come” seme dell’albero di quercia (priorità gnoseologica).

Ricomprendere la cristologia in chiave escatologica, piuttosto che esclusivamente protologica (come fa il dogma di Nicea e di Calcedonia), ha il vantaggio di far riconoscere pienamente l’umanità di Gesù nella sua crescita e sviluppo. Gesù è veramente divenuto il Cristo e il Figlio di Dio e non lo è “sempre stato”. I vangeli dell’infanzia (Mt e Lc 1-2) e il Prologo (Gv 1,1-18) rileggono il divenire umano, la storia di Gesù “in Dio”, nell’identità di Dio. Queste sono letture potremmo dire midrashiche della vita di Gesù che non hanno lo scopo di alterare l’umanità di Gesù ma di coglierne la sua profondità che “in Dio”. Gesù è veramente divenuto senza peccato e non lo è “sempre stato”. Dall’escatologia di Gesù si potrà elaborare una cristologia protologica in cui la storia di una vita umana e la sua condizione creaturale (di limite, di perfettibilità e di crescita) siano pienamente riconosciute e non neutralizzate o annientate nel divino. Questo è sempre stato l’esito di una cristologia in cui la protologia precede ed interpreta l’escatologia.

Il secondo vantaggio di questa lettura “escatologica” della cristologia è quello di riconoscere la verità radicale del legame essenziale che c’è tra noi e Gesù. Ladaria riconosce questo legame, affermando che Cristo, in quanto salvato, è unito indissolubilmente a noi. “Cristo, che è salvatore in quanto capo, è anche salvato in quanto capo unito indissolubilmente al corpo. […] sia la pienezza di Cristo come capo del corpo, che la salvezza di Cristo e la nostra, fatte le debite distinzioni, sono una e la stessa”[7]. Avviene nella salvezza quanto si dà nella filiazione divina. Come il Figlio di Dio rende noi partecipi della sua filiazione divina, così ci rende partecipi della sua salvezza. Ladaria è portavoce della Tradizione che legge la nostra filiazione come divinizzazione: nostra filiazione ontologicamente differente dalla sua filiazione in quanto Gesù è Figlio di Dio “consustanziale” (grazia ipostatica) mentre noi lo siamo “per partecipazione” (grazia santificante e abituale). Alla luce di questa interpretazione tradizionale la filiazione adottiva (υἱοθεσία) di cui parla Paolo (cf Rom 8,15; Ef 1,5) viene vista come distinta dalla filiazione reale di Gesù con il Padre. Così viene letta anche la differenza terminologica di Giovanni tra il Figlio unigenito (υἱός) e noi figli (τέκνα) e in modo icastico in Gv 20,17 – “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” – dove le due filiazioni vengono poste quasi in parallelo: lettura questa contestata da Raymond Brown poiché l’intenzione dell’evangelista è di affermare non tanto la distinzione quanto l’identità dell’una con l’altra. Con la Pasqua “il Padre mio e Dio mio” di Gesù è diventato “il Padre vostro e Dio vostro”. La differenza terminologica tra υἱός e τέκνα è il modo con cui Giovanni (nel Vangelo e nelle lettere) sottolinea il primato rivelativo di Gesù (Gv 1,18): “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Dal punto di vista cristologico, infatti, μονογενὴς non dovrebbe essere tradotto “unigenito” (il termine sarebbe: ) ma con “unico”, l’unico nel suo genere o classe, ed è analogo al paolino (Rom 8,29; Col 1,18; Eb 1,6) “primogenito” (πρωτότοκος): “Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rom 8,29).

La lettura escatologica della cristologia, quindi, ci permette di riconoscere che anche noicon Gesù siamo in cammino per diventare figli di Dio. Dal punto di vista escatologico si deve fare la distinzione tra uno stato “di diritto” e uno “di fatto”. Tutte le creature sono “sicut deus” di diritto, cioè non c’è alcuna differenza ontologica tra noi e Gesù. “Di fatto”, invece, dal punto di vista di realizzazione “escatologica”, c’è una differenza tra noi e Gesù. Lui è già la “piena” realizzazione del “sicut deus”, noi siamo ancora “in divenire”, “in progress”. Quando giungeremo anche noi a “il fine” escatologico come l’ha raggiunto Gesù, saremo anche noi “di fatto” il Cristo, il Figlio di Dio, “sicut deus”.


[1] Luis F. Ladaria, Gesù Cristo salvezza di tutti, EDB, Bologna 2009, 69.

[2] Luis F. Ladaria, Gesù Cristo salvezza di tutti, 72.

[3] Luis F. Ladaria, Gesù Cristo salvezza di tutti, 72.

[4] Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, vol. II: Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 290-291.

[5] Romano Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo, 290-291.

[6] Il termine ὁρίζω in greco significa: definire, determinare, nominare.

[7] Luis F. Ladaria, Gesù Cristo salvezza di tutti, 76.

Sessualità e Sacramento

La Tradizione della Chiesa cattolica ha riflettuto sulla sessualità umana alla luce del valore procreativo ed unitivo della sessualità. Il valore procreativo a cui si allude è quello biologico, tra uomo e donna. La differenza biologica qualifica intrinsecamente il carattere unitivo della sessualità, per cui il valore della sessualità è vivibile “pienamente” solo nel Matrimonio celebrato sacramentalmente. Il fine “ordinato” della sessualità umana è dato dai due significati inscindibili della sessualità: quello unitivo e quello procreativo (cf Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2332).

È evidente che la sessualità si realizza pienamente e in modo ordinato (secondo il proprio fine) “dentro” il matrimonio sacramentale. Ogni esercizio della sessualità “al di fuori” di questo fine (valore procreativo ed unitivo vissuto in una relazione matrimoniale) viene considerato “dis-ordinato”. L’essere “dis-ordinati” non sono solo gli atti omosessuali (che non sono in se stessi biologicamente procreativi e il loro significato unitivo non realizza pienamente il significativo unitivo, dato che la differenza unitiva è modellata su quella biologica); ma anche gli atti di autoerotismo, ovvero la masturbazione: “Per masturbazione si deve intendere l’eccitazione volontaria degli organi genitali, al fine di trarne un piacere venereo. ‘Sia il Magistero della Chiesa – nella linea di una tradizione costante – sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato’. ‘Qualunque ne sia il motivo, l’uso deliberato della facoltà sessuale al di fuori dei rapporti coniugali normali contraddice essenzialmente la sua finalità’. Il godimento sessuale vi è ricercato al di fuori della ‘relazione sessuale richiesta dall’ordine morale, quella che realizza, in un contesto di vero amore, l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana’”. (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2352)

Si comprende bene da questi testi del Magistero che la comprensione della sessualità è pre-giudicata da una identificazione tra sessualità e significato biologico della procreazione, tra sessualità e significato unitivo inteso alla luce del significato biologico della procreazione, tra sessualità e sacramento del matrimonio.

Gli atti sessuali realizzati “fuori dal matrimonio” sono “disordinati” (masturbazione e atti omosessuali), compiuti “contro” o “fuori” da “il fine” che è amore procreativo celebrato sacramentalmente tra uomo e donna. Masturbazione ed atti omosessuali sono contro-natura e dis-ordinati intrinsecamente. Il concetto di “natura” qui non è da intendersi in senso “biologico” (che riguarderebbe il dato studiato dalle scienze), ma la “natura” nel senso teleologico, cioè il significato “metafisico”, deontologico della natura. In base a questo pregiudizio, masturbazione ed atti omosessuali sono di per sé “in-sensati”, disordinati, e senza …(il) fine.

Per quanto riguarda l’attenzione pastorale alle persone omosessuali, alla fine, non si tratta di un attento ascolto della loro esperienza concreta così come viene da loro vissuta, cioè come viene vissuta la sessualità, per mettere in questione il pre-giudizio menzionato.  Tantomeno, per ascoltare cosa le scienze, biologiche ed umane, ci dicono della sessualità umana, prima di ogni interpretazione “metafisica” e “morale”. 

Questo tipo di identificazione tra sacramento e sessualità avviene anche per il celibato sacerdotale. Poiché la sessualità è finalizzata al matrimonio, ai candidati al sacerdozio deve essere richiesta la rinuncia a realizzare la sessualità (sia con atti di masturbazione, sia con atti omo– ed eterosessuali), poiché non è lecito per la dottrina della Chiesa cattolica esercitare alcun atto sessuale al di fuori del matrimonio.

La sessualità, quindi, è compresa strettamente alla luce di questi due sacramenti, ordine e matrimonio. Potremmo dire (!), la sessualità viene “detta” nel sacramento del matrimonio (valore affermativo/catafatico); la sessualità viene “non detta” nel sacramento del ministero ordinato (valore negativo di rinuncia per il regno dei cieli/apofatico di unione mistica con la Chiesa, corpo di Cristo).

Per superare questa indebita identificazione (sessualità = sacramento del matrimonio) è necessario, a mio avviso, innanzitutto dare rilevanza alla comprensione del piacere nella sessualità umana. In tal senso, interessante lo studio di Shaji George Kochuthara, The Concept of Sexual Pleasure in the Catholic Moral Tradition, Tesi Gregoriana, Serie Teologia n. 152, Editrice Pontificia Università regoriana, Roma 2007. Un altro passo importante sarebbe che la Chiesa cattolica inizi ad ascoltare le scienze biologiche e quelle umane per apprendere ciò che ci dicono sulla sessualità umana, per non appiattirne la lettura in modo pregiudiziale, con la pretesa di leggere correttamente il dato (l’essere sessuale dell’umano) con il dover essere della Morale e il concetto di “natura” della concezione metafisica. Ascoltare, per poter così ri-leggere e ri-pensare la sessualità nella vita cristiana di tutto il popolo dei fedeli, e in particolare dei consacrati religiosi e dei ministri ordinati.

Paolo ha abolito la Legge?

Paolo di Tarso, con la sua comprensione di Gesù di Nazaret, è il fondatore del cristianesimo. Paolo è stato un ebreo preoccupato di riformare la sua religione e di annunciare la venuta del regno di Dio sulla terra d’Israele. La sua influenza sull’interpretazione di Gesù come Messia / Cristo è assolutamente decisiva per i quattro evangelisti (inclusi Matteo e Giovanni, che presentano una lettura ebraica maggiore di Marco e Luca) che basano la loro presentazione del Gesù terreno sul punto di vista paolino, retroproiettando il significato della nascita, vita pubblica, morte, risurrezione ed esaltazione al cielo di Cristo, sulla vita di Gesù sulla terra.

Ma Paolo abbandonò la legge ebraica? La divinizzazione di Gesù da parte di Paolo spezzò il rigido monoteismo di Israele? Per quanto riguarda la seconda domanda si può rispondere di no, in quanto era presente ai tempi di Paolo e già da almeno due secoli prima di Paolo una tendenza a “divinizzare” o tantomeno “elevare” accanto a YHWH (alla Sua destra) figure umane di Israele: Mosé, Elia, Enoc, il Figlio dell’Uomo.

Per quanto riguarda la prima domanda, Paolo interpreta la Legge, distinguendola in due parti: una universale ed eterna (alleanza cosmica), obbligatoria per tutti, anche per i Gentili o pagani (la cui base è il Decalogo); un altro specifico e temporaneo, e che riguarda gli ebrei membri naturali del patto di Dio con Abramo, ma non i pagani. “[Gli Israeliti] hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rom 9,4-5). Le norme fondamentali di questa alleanza particolare con Israele sono: la circoncisione, i precetti sul cibo e la purezza rituale. Il fatto che i gentili / pagani, convertiti a Gesù, ottenessero la salvezza come gli ebrei, ma che non dovessero adempiere una parte della Legge (quella particolare o etnica) fu il contributo, certamente rivoluzionario, di Paolo di Tarso.

I motivi per cui questo contributo di Paolo può considerarsi “rivoluzionario” sono i seguenti. I contemporanei di Paolo ben sapevano che i gentili seguendo la legge universale scritta nel cloro cuore ed articolata nei sette precetti di Noè, potevano venir considerati “proseliti”. I Rabbini distinguevano due tipi di proseliti: c’erano quelli che ricevevano la circoncisione e mantenevano tutta la legge mosaica e tutte le regole del giudaismo; e poi c’erano i proseliti della porta, che abitavano fra gli ebrei, e benché “incirconcisi” osservavano certe leggi specifiche, soprattutto i sette precetti di Noè contro i sette peccati principali: idolatria, bestemmia contro Dio, omicidio, impurità sessuale, furto o rapina, ribellione contro governatori e mangiare carne con il sangue. Ma c’era una distinzione fondamentale: quelli che ricevavano la salvezza “di prima classe”, appartenenti al Popolo di Israele (nati da madre ebrea) e pagani convertiti ed osservanti della Halakhà; e poi, quelli di “seconda classe”, appunto i proseliti che seguivano i precetti noachici.

Paolo introduce una “novità”. I proseliti che non seguono l’Halakhà ma credono in Gesù Cristo sono da considerarsi come i membri del Popolo di Israele membri di “prima classe”, accedendo quindi alla salvezza “assieme” e non “dopo” al popolo ebraico. Per questo Paolo usa l’immagine dell’innesto (Rom 11,13; 17-18): “Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili […] tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te”.

L’oleastro (i gentili) appartiene alla radice dell’olivo (i giudei). I gentili “innestati” appartengono all’olivo (popolo di Dio), attraverso la fede in Gesù Cristo, seguendo la legge di Cristo e non di Mosé. Paolo, quindi, cambia le condizioni per divenire “membri del popolo di Israele” (ripeto: membri a pieno diritto, e non proseliti, che potevano salvarsi (per la legge noachica) ma “salvati” di seconda classe). Per Paolo questo “allargamento” delle condizioni di accesso al popolo di Dio è frutto dei tempi messianici, dischiusisi con Gesù Cristo.

Ora questa innovazione paolina era considerata “rivoluzionaria” da molti ebrei ai tempi di Paolo: cioè che i gentili, convertiti a Gesù, ottenessero la salvezza “come” gli ebrei, cioè diventassero membri a pieno diritto del popolo di Dio (non di seconda classe).

Gesù: salvatore unico?

Quale modello di mediazione di salvezza ha Gesù in un paradigma post-teista?

Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui. 
(Gv 7,37-39)

È un modello che concepisce la salvezza come diventare consapevoli sempre più che siamo già salvati, amati; che siamo “nella vita eterna”. In definitiva, che siamo realmente “figli/figlie” di Dio, partecipando già della Vita di Dio, della sua essenza e divina autocoscienza. Ed è una vita – quella divina – che è essenzialmente un “dar-si”, “dare se stessa” – per questo Gesù, il quale vive di questa consapevolezza, non tiene per sé la “uguaglianza con Dio” (che è di tutti gli esseri) ma dice: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,28-30). Anche noi diventiamo sempre più “uno” con Dio, quanto più diventiamo – come Gesù – D A R S I – cioè A M O R E

C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo (1Tim 2,5)

Il secondo modello, invece, segue la comprensione teista. Solo Gesù è colui che dà salvezza; gli uomini “ricevono” dall’esterno questa salvezza, ma non scaturisce dal “proprio” pozzo, come è stato per Gesù. Continuamente è necessario attingere con il proprio secchio ( = la fede) l’acqua da Gesù, ovvero dalla Chiesa attraverso sacramenti, etc… È un modello che concepisce la salvezza ancora come una serie di puntuali interventi divini che provengono dall’esterno. È giunto il momento che il cristianesimo diventi sempre più mistico, nel senso di scoprire questo grande Mistero di Dio.

Concludo con le parole di Santa Teresa che ben esprime quanto il primo modello esprime: “Supponiamo di vedere due fontane i cui bacini si riempiono di acqua. Questi due bacini si riempiono di acqua, ma in modo diverso. In uno l’acqua viene da lontano per via di acquedotti e di artificio, mentre l’altro, essendo costruito nella sorgente, si riempie senza rumore. Se la sorgente è abbondante, com’è questa di cui parliamo, non solo riempie il bacino, ma questo, a sua volta, rigurgita in un grosso ruscello continuamente alimentato, senza bisogno di condutture o d’artificio. E in ciò consiste la differenza. Nell’altro bacino, invece, l’acqua deriva dalla stessa sorgente che è Dio; e quando Dio si compiace di accordare la grazia, l’acqua fluisce nel più profondo dell’anima con pace, dolcezza e tranquillità inesprimibile, senza che si sappia donde e in che modo scaturisca” (Santa Teresa d’Avila, Il Castello Interiore, Quarta Stanza, Cap. II, 3-4).