Il silenzio dell’imprevisto

Il brano 4′33″, composizione musicale di John Cage, fu composta nel 1952 ed eseguita per la prima volta il 29 agosto dello stesso anno. È uno dei brani musicali più fraintesi mai scritti e tuttavia, a volte, anche uno dei meglio capiti dell’avanguardia. Molti ritengono che lo scopo del pezzo fosse una provocazione deliberata, un tentativo di insultare o ottenere una reazione dal pubblico. Per altri, invece, una sorta di preghiera artistica, un po’ di teatro performativo Zen che ha il compito di aprire le orecchie e di permettere di ascoltare il mondo in modo nuovo.

Cage chiamava l’opera: “l’assenza di suoni previsti”. Cage concepì il pezzo nel 1948 e gli diede il titolo provvisorio “Silent Prayer” (Preghiera silenziosa) ed ha lo scopo di far emergere l’ambiente in tutti i suoi suoni  “imprevisti” e quindi è un’opera di improvvisazione. Il manoscritto dell’opera dichiarava che era stato scritto “per qualsiasi strumento o combinazione di strumenti”. Ha poi specificato che c’erano tre movimenti di durata prestabilita: rispettivamente 33 secondi, 2 minuti e 40 secondi e 1 minuto e 20 secondi.

Per ogni movimento, l’unica istruzione di Cage all’esecutore (i) era “Tacet” (latino: “sta in silenzio”, usato nella musica per indicare che il musicista non deve suonare).

Sebbene la maggior parte dei membri del pubblico all’inizio non avesse idea di cosa fare della composizione di Cage – e, in effetti, alcuni se ne sono andati in sordina – si è chiarito lentamente che il lavoro aveva lo scopo di aiutare il pubblico a scoprire che l’assenza di suoni è impossibile nella vita. La tosse del pubblico, il cigolio delle sedie, persino i passi di chi si allonta sono diventati parte dell’insolita composizione.

A Cage è sembrato, almeno da quanto ne ha scritto, un atto di inquadratura, di racchiudere suoni ambientali e non voluti in un momento di attenzione per aprire la mente al fatto che tutti i suoni sono musica. Richiedeva un nuovo approccio all’ascolto, forse anche una nuova comprensione della musica stessa, un offuscamento dei confini convenzionali tra arte e vita.

siamo dio

“Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore. La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!” (Mt 6,19-23)

Sembrerebbe che sia in terra che in cielo l’uomo sia chiamato ad accumulare.

Perché accumuliamo?

Accumuliamo poiché “abbiamo paura” di non avere a sufficienza. Abbiamo paura di non avere, di non essere.

Non ho, dunque accumulo; non sono, dunque accumulo.

Questo “ammucchiare” cose, esperienze, pensieri, immagini e sensazioni; questo “avere di più” per “essere di più” è connesso alla “paura”. Ho paura di non avere e di non essere.

Devo aggiungere qualcosa a chi sono ed ho.

Se ho qualcosa, sono qualcuno.

Se sono questo e/o quello, allora sarò particolare e singolare. Sarò un essere speciale.  

Se non ho qualcosa; se non sono questo e/o quello, allora non sono un essere speciale.

Sono un nulla. Non sono e non sarò più.

Terra e cielo rappresentano due modi alternativi di vivere. Come “carne” e “spirito”.

Non solo con i beni terreni o con i pensieri mondani, ma anche con i pensieri soprannaturali e cosiddetti spirituali, con i beni celesti, siamo “terreni” e “carnali”.  

Se Gesù avesse detto semplicemente di cambiare l’oggetto del nostro accumulare – da materiale a spirituale, da mondano a spirituale – continueremmo ad avere paura. Forse non sono più di tarma, ruggine e ladri, ma certamente sarebbe Dio e il suo Cristo da temere.

L’inquietudine rimarrebbe.

L’affanno di accumulare grazia, sacramenti, indulgenze e salvezza da Cristo, sarebbe ancora lì a dirci che non siamo “beati” poiché il nostro cuore non è ancora “puro” e i nostri occhi non ancora “chiari” per vedere Dio.

È evidente che accumulare tesori sulla terra è un’impresa inutile, perché tutto passa e se ne va.

Lo vediamo e lo sappiamo tutto questo. Ma siamo ingannati in continuazione. Siamo stupidi.

I tesori se sono della terra passano: cioè vanno e vengono.

I tesori se sono della terra per loro natura non “restano”.

Non restano poiché sono apparenza.

È dell’apparenza avere tarma e ruggine, cioè essere segnata dal “non essere”. 

Il tesoro del cielo non passa: non va e viene, non è qualcosa che è, e poi dopo un po’ non è più.

Il tesoro del cielo “resta”, semplicemente “è”.

Il tesoro del cielo è eterno. Non è mai nato e mai muore.

Ma chi è mai questo tesoro del cielo? Ce lo dice chiaramente Gesù: “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Il tesoro è il cuore, e il cuore – per l’antropologia biblica – è il centro non solo dell’attività spirituale, ma di tutte le operazioni della vita umana. “Cuore” ed “anima” sono spesso usati in modo interscambiabile.

Accumulare per noi tesori in cielo, dove nulla passa ma tutto è eterno, e dove non c’è nulla da temere – né ladri, né morte, né Dio – significa “tesorizzare il tesoro”, cioè riconoscere chi siamo.

Dove c’è il tesoro, lì c’è il nostro cuore.

Dove c’è il cuore, lì c’è Dio.

Dove Dio è, lì noi siamo.

Dio è nel fondo dell’anima. “Noi siamo Dio”.

Così come Santa Caterina da Genova, nel suo Trattato Sul Purgatorio diceva:

“Il mio ‘io’ è Dio; non conosco altro che il mio Dio; Sono così posta e sommersa nella fonte del suo immenso amore, come se fossi nel mare tutta sott’acqua e in nessuna parte potessi toccare, vedere né sentire, se non solo acqua”.

“Tesorizzare il tesoro” significa “riconoscere chi siamo”.

Non siamo né qualcosa né qualcuno. Siamo Dio.

Dal cuore e tesoro, Gesù passa ad un’altra l’immagine: quella dell’occhio e del corpo.

“La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso”.

Invece di “cuore”, ora Gesù parla di “corpo” ma sta sempre parlando della creatura nella sua interezza. Gesù ci sta dicendo che c’è un legame essenziale tra occhio e corpo, e ancor più tra luce ed occhio.

Quanto più luce, tanto più la pupilla dell’occhio si contrae e riceve la luce.

Dio è luce (da dies/deus: luminoso).

Quanto più l’anima/corpo riceve Dio che è la luce dentro di sé, tanto più diventa ciò che vede.

“Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso”.

“Quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è” (1Gv 3,2).

Quando l’occhio si chiude alla luce che lo abita da sempre, dunque non è più chiaro, si oscura e tutto il corpo sarà tenebroso.

Accendere la consapevolezza

Come approcciare la consapevolezza? Viene prima il cervello o la consapevolezza? Cosa dà origine all’altro?

Secondo molti neuro-scienziati dobbiamo rinunciare alla teoria secondo cui la consapevolezza è come un “fantasma nella macchina” per concentrarsi sulla neurobiologia dei meccanismi cerebrali come fondamento per l’origine della consapevolezza.

Come individui, sentiamo di sapere cos’è la consapevolezza perché la sperimentiamo quotidianamente. È quell’intimo senso di consapevolezza personale che portiamo in giro con noi e la sensazione di possesso e controllo che ci accompagna sui nostri pensieri, emozioni e ricordi.

Ma la scienza non ha ancora raggiunto un consenso sulla natura della consapevolezza, che ha importanti implicazioni per la nostra fede nel libero arbitrio e il nostro approccio allo studio della mente umana.

Le credenze sulla consapevolezza possono essere grossolanamente divise in due campi. C’è chi crede che la consapevolezza sia come un fantasma nel macchinario del nostro cervello, che meriti di per sé un’attenzione e uno studio speciali. E ci sono quelli, come noi, che lo contestano, sottolineando che ciò che chiamiamo consapevolezza è solo un prodotto del cervello.

Negli ultimi 30 anni, la ricerca neuro-scientifica si è gradualmente allontanata dal primo approccio. Utilizzando la ricerca della neuropsicologia cognitiva e dell’ipnosi, sosteniamo che dobbiamo rinunciare al fantasma della consapevolezza “dentro” il cervello per concentrare lo sforzo scientifico sul macchinario del nostro cervello, solo così possiamo comprendere meglio la mente umana.

La consapevolezza è qualcosa di speciale?

Secondo tali neuro-scienziati, la nostra esperienza è di porre la consapevolezza al posto di guida, con la sensazione che abbiamo di poter così controllare il nostro mondo psicologico. Ma visto da “una prospettiva oggettiva”, non è affatto chiaro che sia così che funzioni la consapevolezza, e c’è ancora molto dibattito sulla natura fondamentale della consapevolezza stessa.

Uno dei motivi è che molti di noi, compresi gli scienziati, hanno adottato una posizione dualistica sulla natura della consapevolezza. Il dualismo è una visione filosofica che traccia una distinzione tra la mente e il corpo. Anche se la consapevolezza è generata dal cervello, una parte del corpo, il dualismo afferma che la mente è distinta dalle nostre caratteristiche fisiche e che la consapevolezza non può essere compresa solo attraverso lo studio del cervello fisico.

È facile capire perché crediamo che sia così. Mentre ogni altro processo nel corpo umano sottostà alla nostra supervisione, c’è qualcosa di unicamente trascendentale nella nostra esperienza di consapevolezza. Non sorprende che abbiamo trattato la consapevolezza come qualcosa di speciale, distinto dai sistemi automatici che ci fanno respirare e digerire.

Ma un numero crescente di prove nel campo delle neuroscienze cognitive – che studia i processi biologici alla base della cognizione – sfida questa visione. Tali studi attirano l’attenzione sul fatto che molte funzioni psicologiche sono generate e svolte interamente al di fuori della nostra consapevolezza soggettiva, da una serie di sistemi cerebrali non consci veloci ed efficienti.

Secondo tali neuro-scienziati, dobbiamo considerare – ad esempio – come riacquistiamo senza sforzo consapevolezza ogni mattina dopo averla persa la sera prima, o come, senza alcuno sforzo deliberato, riconosciamo e comprendiamo istantaneamente forme, colori, modelli e volti che incontriamo.

Non sperimentiamo come vengono create le nostre percezioni, come vengono prodotti i nostri pensieri e frasi, come ricordiamo i nostri ricordi o come controlliamo i nostri muscoli per camminare e le nostre lingue per parlare. In poche parole, non generiamo o controlliamo i nostri pensieri, sentimenti o azioni: sembriamo solo diventarne consapevoli.

Il modo in cui semplicemente diventiamo consapevoli dei pensieri, dei sentimenti e del mondo che ci circonda suggerisce che la nostra consapevolezza è generata e controllata dietro le quinte, da sistemi cerebrali di cui non siamo consapevoli.

La consapevolezza non rinvia ad un processo psicologico indipendente separato distinto dal cervello stesso, proprio come non esiste una funzione aggiuntiva alla digestione che esiste separatamente dal funzionamento fisico dell’intestino.

Mentre è chiaro che sia l’esperienza che il contenuto della consapevolezza sono reali, sosteniamo che – dal punto di vista della spiegazione scientifica – non sono altro che epifenomeni: fenomeni secondari basati sui processi del cervello fisico stesso. L’esperienza della consapevolezza è reale, ma le funzioni di controllo e di proprietà che attribuiamo a quell’esperienza non lo sono. Queste sono solo processi neuronali

Continuare a mettere la consapevolezza al posto di guida al di sopra e al di là del funzionamento fisico del cervello, e attribuirgli funzioni cognitive – sostengono questi scienziati – si rischia di confondere e ritardare una migliore comprensione della psicologia e del comportamento umani.

Per allineare meglio la psicologia con il resto delle scienze naturali e per essere coerenti con il modo in cui comprendiamo e studiamo processi come la digestione e la respirazione, dobbiamo compiere un cambiamento di prospettiva. Dovremmo reindirizzare i nostri sforzi allo studio del cervello non cosciente e non alle funzioni precedentemente attribuite alla consapevolezza.

Cosa rispondere?

La consapevolezza è epifenomeno del cervello oppure è qualcosa d’altro? In questo articolo è riassunta la posizione riduzionista delle scienze cognitive. La mia posizione è l’opposto. L’originario non sono i fenomeni biologici ma l’esperienza di essi. La consapevolezza è originaria come esperienza di prima persona, rispetto ai fenomeni che percepisco di me in terza persona.

Possiamo paragonare il cervello all’interruttore della corrente. La conoscenza del funzionamento dell’interruttore non mi dice “nulla” della corrente che l’interruttore aziona. Così il cervello aziona o non aziona come interruttore la consapevolezza ma non la spiega.

La consapevolezza è originaria e fondamentale rispetto al cervello che la aziona. Il cervello “accende” la consapevolezza ma non la origina.

A motivo della intrascendibilità dell’esperienza, la consapevolezza è condizione ontologica perché ci sia il cervello, benché sia vero che il cervello è la condizione fenomenologica dell’apparire della consapevolezza. Senza azionare l’interruttore non c’è luce nella stanza. Senza il cervello non c’è consapevolezza nel corpo. Come l’energia non proviene dalla stanza, così non è il corpo all’origine della consapevolezza.

Citando la Summa Theologiae (Iª q. 8 a. 1 ad 2): “Sebbene le cose corporali si dicano essere in altre come il contenuto nel contenente, quelle spirituali però contengono le cose in cui si trovano: così l’anima contiene il corpo (anima continet corpus). Quindi anche Dio è nelle cose come contenente le cose. Tuttavia, per una certa analogia con le cose corporali, si dice che tutte le cose sono in Dio, in quanto che Dio le contiene”.

La consapevolezza divina è lo sfondo in cui appaiono i fenomeni, compresi quelli cerebrali. Le creature partecipano della consapevolezza divina.