
INTRODUZIONE
Non mi sembra casuale il dibattito che, negli ultimi tempi, si è svolto intorno al – così lo chiamano abitualmente – “non-teismo” [1]. Piuttosto, tale dibattito rivela la profonda crisi che sta attraversando il teismo, e che si manifesta in vari sintomi che vanno da un certo riserbo, anche sempre più generalizzata resistenza, al pronunciare la parola “Dio”, alla disaffezione, in particolare tra le giovani generazioni. Per quanto riguarda il nostro ambiente socio-culturale e la tradizione religiosa che ha prevalso in esso, il grado di dissonanza causato sia dai dogmi centrali del cristianesimo (creazione, incarnazione, redenzione, trinità, immacolata concezione, assunzione), come le norme morali nel campo della sessualità e la questione del posto delle donne nella chiesa.
Siamo sempre più consapevoli che i dogmi teologici – pur essendo stati assunti come “caduti dal cielo” e dotati di “validità eterna” – sono solo costruzioni religiose, con una data di scadenza.
Questo riconoscimento va di pari passo con il superamento del paradigma teistico e dualistico da cui proveniamo [2].
È un paradigma in cui si muove ancora la maggior parte dei teologi. Ma non è difficile notare segnali che parlano del suo superamento. Quello che succede è che, quando un paradigma si sente minacciato perché avverte la nascita di uno nuovo, reagisce in modo difensivo… finché finalmente il nuovo, rifiutato in precedenza senza contemplazione, finisce per essere finalmente accettato. Le reazioni “brusche” di molti teologi a quella che chiamano “nuova spiritualità”, pur senza negare la correttezza di alcune loro critiche, si capiscono da quell’atteggiamento difensivo.
Tutto ciò mi fa pensare che stiamo assistendo a una crisi profonda, che colpisce il nucleo teistico stesso: non ha a che fare solo con un insieme di credenze e norme morali, ma con il teismo stesso, come configurazione religiosa che viene superata dall’evoluzione stessa della nostra capacità di comprendere.
L'”ascolto” del dibattito ha prodotto in me un movimento per esprimere alcune questioni ad esso collegate, e che dividerò in tre punti: posteismo, non dualità e proposta di una chiave di lettura, temi che tratterò in tre fasi successive.
In molte persone, me compreso, il superamento del teismo è andato di pari passo con l’emergere di una spiritualità non religiosa o trans-religiosa, espressa in chiave non duale. Per questo affronterò entrambe le questioni (posteismo e non dualità), introducendo quella che ritengo una chiave decisiva per favorire la comprensione: la domanda su ciò che siamo.
Dal mio punto di vista, siamo a un vero e proprio bivio, non solo “religioso”, ma anche umano, che avviene in un profondo cambio di paradigma. Il paradigma da cui veniamo -materialista, teistico e dualistico- mostra segni di esaurimento di fronte all’emergere di un altro postmaterialista, spirituale e non dualista. Il bivio, quindi, come può verificarsi con qualsiasi tipo di crisi, contiene una promessa di maggiore realizzazione.
Rispetto profondamente la posizione di ciascuno e tengo presenti i versi saggi di León Felipe: “Nessuno è andato ieri, / né andrà oggi, / né andrà domani / verso Dio / per questa stessa via / che io sto andando. / Per ogni uomo il sole conserva / un raggio di luce nuovo… / e un vergine sentiero / Dio”. So per esperienza personale che ogni persona è in un momento preciso e deve percorrere la propria strada, anche secondo il proprio ritmo peculiare. È proprio la varietà delle posizioni che si traduce nella “sinfonia” dell’insieme.
Non intendo, quindi, aprire un dibattito, ma solo condividere la mia esperienza personale; cerco di esprimere a parole quello che, in questo momento, mi è dato di capire.
I. POSTEISMO
Personalmente, non definirei questo momento come non teista – anche se, in un certo senso, lo è
– ma piuttosto come post-teista. Con ciò voglio esprimere che considero il teismo una forma religiosa specifica, che prevale da qualche millennio, ma che è sicuramente destinata ad essere superata in altri modi di esprimere e vivere la dimensione profonda della realtà, la nostra stessa profondità (che chiamiamo con il termine “spiritualità”).
Per teismo intendo la fede in Dio come un essere separato, che agisce nel mondo e nella vita degli umani. Si potrebbe dire che la mente umana ha proiettato su questo dio le nostre caratteristiche, il che ha prodotto un’immagine fatta per noi, cioè un dio antropomorfo che ha riempito la vita degli umani per alcuni millenni.
Dalla nostra coscienza attuale, sta diventando chiaro che, per definizione, ciò che chiamiamo “Dio” non può essere qualcosa di pensato o separato. Perché tutto il pensiero non è altro che un costrutto mentale e perché nulla di separato dal reale può esistere.
Sembra che siamo in un momento in cui ogni immagine di Dio così intesa cade, non solo perché è radicalmente dissonante con la coscienza moderna, ma perché la nostra comprensione di noi stessi comincia a cambiare parallelamente (come cercherò di mostrare nella prossima puntata).
Per quanto riguarda il superamento del teismo e l’emergere di una fase post-teista, citerò tre mistici cristiani vissuti diversi secoli fa. Perché è significativo per me che già allora “vedessero” la necessità di superare quell’immagine di Dio, in quei tempi incontrastata.
Contro ogni credenza o immagine di Dio, la beghina Margarita Porete affermava, nel XIII secolo, che “l’unico vero Dio è colui del quale non si può pensare nulla”. Nella nostra lingua: Dio non si può pensare; può solo essere vissuto, perché “Ciò” a cui punta la parola “Dio” è ciò che siamo in profondità. E lo sappiamo, quindi, non pensandoci – trascende la mente – ma perché lo siamo.
Contro ogni idea di separazione e oggettivazione di Dio, il teologo e cardinale Nicolas de Cusa, nel XV secolo, scriveva: “Dio non è un altro del nulla. Dio, in quanto non altro, non è altro che creatura. Niente è altro per il non altro… Dio è tutto in tutte le cose, anche se non è nessuna di esse. Nella nostra lingua: Dio non è qualcosa (qualcuno) separato, ma “Quello” che, senza essere ridotto a forme, costituisce tuttavia la sua identità più profonda: è ciò che siamo.
Contro ogni assolutizzazione della nostra idea di Dio, nel XIII/XIV secolo, il maestro Eckhart, domenicano e maestro di teologia all’Università di Parigi -come era stato anche il domenicano Tommaso d’Aquino-, distinse tra “Deitas” (Divinità) e “Deus” (Dio). “Deus” è il dio separato che costruisce la mente umana; La “Deitas” è quella realtà ineffabile che i mistici hanno sempre indicato; il primo è il dio del teismo, quest’altro allude al Mistero ultimo e nucleare di tutto ciò che è reale e di tutti noi. Il maestro Eckhart era così consapevole delle insidie della fede che arrivò al punto di dire: “Chiedo a Dio di liberarmi da Dio”. Nel nostro linguaggio: il Dio pensato (creduto) ci allontana da “Quello” che costituisce la Pienezza del reale, la Pienezza di ciò che siamo.
In sintesi: figlio del suo tempo e di un livello di coscienza típico del mito in cui è nato, il teismo proiettava fuori, in un essere separato, che chiamava “Dio” e che adornava di tutta una serie di attributi -spesso contraddittori- , “Quello” che percepiva come il più profondo e prezioso, il vero reale, la Pienezza.
Ma “Quello” non è “qualcosa” che un essere separato tiene, ma la Profondità che ci costituisce tutti. Quando lo scopri, tutto è unificato; vivendola, la sperimentiamo e la conosciamo in prima persona.
Questo riconoscimento – contrariamente a quanto tendono ad affermare alcuni critici superficiali – non presuppone un’inflazione dell’io, che divinizzerebbe se stesso – cadendo, secondo quegli stessi critici, nella tentazione biblica del “Sarete come dei” (Gen 3 ,5) -, attribuendo a sé ciò che aveva precedentemente proiettato su Dio. Al contrario, in questa comprensione si rivela l’inganno dell’identificazione con il sé. Il soggetto della Pienezza di cui parliamo non è mai il sé (o l’ego), ormai gonfio e autosufficiente, ma “Quello” che costituisce la nostra vera identità (transpersonale). Al punto che tale comprensione suppone, in pratica, metaforicamente parlando, il “certificato di morte” dell’ego: ci siamo liberati da ciò che pensavamo di essere, per vivere ciò che siamo realmente. Continuamo a prenderci cura del dispiegarci nel nostro sé particolare, ma senza ridurci o identificarci con esso.
Nel teismo, il nome “Dio” è stato dato a “Quello” che non ha nome, perché non è un oggetto. Trascendendo la mente, apprezziamo che, nella nostra vera identità, siamo proprio Ciò che non può essere nominato, ma che è “più intimo per noi della nostra stessa intimità” (Agustín de Hipona).
“Quello” che siamo -Ciò che è- supera completamente e trabocca le categorie del “personale” e dell'”impersonale”: è al di là di tali etichette o attribuzioni mentali, non importa quanto la nostra mente voglia immaginarlo come un “qualcuno Protettore”. Ciò che siamo è transpersonale.
“Quello” che siamo – Ciò che è – è lo stesso in tutto, si esprime in modi diversi. La realtà non è duale. Siamo uno con tutto ciò che è. Come scrive Javier Melloni, nel suo ultimo e stimolante libro, “quello che cerchiamo è già dentro e tra di noi. In verità siamo noi, ma rimane Altro finché non lo troviamo… Non si tratta di credere, ma di vedere… Tutto è Qui, ma non riusciamo a vederlo”[3].
A volte mi è stato detto che difendere l’apofatismo significa mettere a tacere Dio. Piuttosto, mi sembra che significhi mettere a tacere le nostre immagini di Dio, il dio costruito e proiettato dalla nostra mente.
Comprendo le riserve all’apofatismo dovute alla paura provocata dal silenzio della mente – che di solito è vissuta come solitudine e anche come vuoto – e dal sentimento di orfanità – e la conseguente perdita di sicurezza – che produce l’abbandono della credenza in un Essere superiore, percepito come “protettore”. Ma non c’è altro modo per evitare il mondo delle proiezioni mentali che costruiscono dei su misura per noi.
Senza dubbio, uno dei tratti più caratteristici e più “apprezzati” del teismo è il fatto che conferisce a Dio un carattere “personale”. Ma questa è anche la sua più grande debolezza, poiché sembra evidente che tale attribuzione sia una proiezione umana, che ha prodotto un dio antropomorfo: un essere onnipotente, che distribuiva ricompense e castighi, signore assoluto, “dio degli eserciti”, che avrebbe scelto un popolo “speciale” per manifestarsi al mondo (il mito del “popolo eletto”, al di sopra degli altri, in logica consonanza con il carattere etnocentrico del livello di coscienza in cui quell’idea è nata) …, e che ci giudicherà dopo la morte.
Sembrava anche un dio diventato “buono” con il passare del tempo – sospettosamente, parallelamente alla crescita della coscienza etica dell’uomo -: che cosa può esserci in comune tra un dio che “uccide tutti i primogeniti degli egiziani” (Es 12,29) e quello che “è buono con gli ingrati e con i malvagi” (Lc 6,35)? Un dio che “si evolve” in questo modo ci suona oggi del tutto strano e sempre più incomprensibile.
La “personalizzazione” di Dio è stata una grande ricchezza e un pesante limite: la ricchezza è che ha fatto avanzare decisamente il processo di personalizzazione ed etizzazione dell’essere umano
-la fede teistica ci ha fatto sentire più “persone”, mentre intensificava la motivazione per un comportamento etico; il suo limite sta nel fatto che è più difficile superare l’immagine di un dio “personale”, a causa della carica affettiva che tale immagine possiede. Questo stesso contenuto è ciò che spiega la perpetuazione del teismo, per il carattere traumatico della rottura dell’adesione affettiva alla figura di un dio personale che ha configurato l’intera esistenza del credente, dotandola di sicurezza e significato, nonché la sensazione di essere amati: “realtà” troppo preziose per il nostro ego per scartarle facilmente. Senza contare, inoltre, che, finché si mantiene l’identificazione con il sé, Dio può essere percepito solo come un essere ugualmente personale.
Eppure, a mio avviso, le espressioni dei mistici citati indicano, senza dubbio, la necessità di superare anche il teismo. Ma tale superamento non significa semplicemente sostenere l’ateismo, ma riconoscere come superato un modo di riferirsi al mistero che ci costituisce. Mistero che, dalla mia comprensione, si rivela nella chiave della non-dualità. Ma non saremo in grado di comprendere i limiti insiti nel teismo o ciò che è legato alla non-dualità se non capiamo chi siamo veramente.
II. COSA SIAMO NOI?
Devo partire da una parentesi personale. Perché, pur con un certo pudore, sento necessario condividere perché questa domanda è decisiva per me: il motivo è che, nel mio caso, il cambiamento del mio “modo di vedere” avvenuta dopo due esperienze di profonda comprensione, che «mi sono state regalate in modo sorprendente e inaspettato. Che cosa è successo? Non è facile per me esprimerlo, ma posso segnalare alcuni tratti di ciò che è avvenuto lì: il pensiero è stato completamente sospeso, l'”idea” dell’ego si era completamente dissolta, c’era solo pienezza di coscienza, unità con tutto e amore…, senza che nessuno se ne appropriasse. Non era che “io” capissi, no; quello che è successo è stato , piuttosto, che quella comprensione ha diluito l’io e la vera identità è diventata luminosa, che ho poi letto come la risposta definitiva alla domanda “Che cosa sono”. Mi è diventato chiaro che la mia identità non era l’io, con cui avevo vissuto identificandomi, ma “Quello” che rimane quando la mente diventa silenziosa, Quello che è pura coscienza. Ciò che ho sperimentato non mi ha trasformato e anche oggi ho bisogno di continuare ad integrarlo nella mia esistenza quotidiana, in cui gli alti e bassi sono ancora presenti. Ma non posso rinunciare a ciò che si vede o non riconoscerlo come la prima chiave di ogni lettura della realtà. Fu da allora che mi divenne evidente ciò che chiamavamo “transpersonalità” e “non-dualità”.
Fin qui il mio bisogno di condividere il motivo per cui non conosco altro punto di partenza se non la questione della nostra identità. Tuttavia, credo che questa domanda sia sempre la prima, perché la risposta ad essa condiziona tutte le altre. Continuamo allora.
Appare chiaro che il nostro modo di vedere e leggere la realtà è sempre debitore del modo in cui vediamo noi stessi. Riguardo alla nostra domanda – il teismo – è stata chiaramente espressa dal filosofo presocratico Senofane (VI-V secolo aC): “Gli etiopi dicono che i loro dei sono dal naso piatto e neri; i Traci, che hanno occhi azzurri e capelli rossicci (…). Se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e potessero disegnare con loro ed eseguire opere come gli uomini, disegnerebbero gli aspetti degli dei e renderebbero i loro corpi, cavalli simili a cavalli, buoi a buoi, proprio come se avessero la figura corrispondente a ciascuno”[4].
Quando abbiamo tenuto a lungo una certa convinzione -per quanto strana possa essere-, è probabile che finisca per essere per noi “prova”, soprattutto se è “coerente” delle nostre impressioni più semplici: è questo il caso di certe credenze come la Terra piatta, il geocentrismo e il materialismo. Parliamo di una terra sferica (ovale), che orbita intorno al sole (ancora oggi si dice ancora che “il sole sorge” o “il sole se n’è andato”) e di una materia che, secondo le scoperte della fisica quantistica, non esiste in sé, è così controintuitivo che ci è voluto molto tempo per comprenderlo, fino a quando non siamo stati in grado di metterci in “un altro luogo”, che ci ha permesso di vedere il nostro pianeta in tutto lo spazio, così come i costituenti di base della materia. Non accadrà qualcosa di simile con la nostra fede in Dio e in tutti gli attributi che gli abbiamo dato?
Il “luogo” per trovare la risposta giusta non è altro che la domanda su chi siamo veramente. Bisogna partire, dunque, chiarendo la questione della nostra identità: cosa siamo?, in linea con quanto hanno sempre detto i saggi, come si leggeva, ad esempio, sul frontespizio del Tempio di Delfi: “Uomo , conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei”. E come si riflette nel Vangelo di Tommaso, dove Gesù dice: “Chi conosce tutto, ma non conosce se stesso, non sa nulla” (EvT 67). O come, più recentemente, Immanuel Kant ha proclamato: “La conoscenza di sé è l’inizio di ogni saggezza”.
Cosa siamo noi? È probabile che molte persone respingano la domanda, per lo stesso motivo per cui secoli fa sarebbe stato assurdo mettere in discussione il geocentrismo: non era ovvio che il sole ruotava intorno alla terra? Non è “ovvio” quello che siamo, senza la necessità di farci coinvolgere in altri colpi di scena?
Per la stragrande maggioranza delle persone, siamo noi stessi: un’entità psicofisica delimitata e separata dal resto. E questo sembra essere ovvio e indiscutibile per loro. Ma è davvero così?
Non vale la pena indagare su questa domanda cruciale? Considero valido quello che mi hanno insegnato o oso interrogarmi da solo? Per dirla con le parole della filosofa Mónica Cavallé: “Mi riposo sulle mie comprensioni o, invece, tendo a cementare il mio percorso interiore sulla conoscenza di seconda mano?”
In questo lavoro di indagine, il punto di inflessione si verifica quando diventiamo consapevoli che tutto ciò con cui ci siamo identificati – corpo, mente, psichismo… – sono solo oggetti o contenuti della coscienza. E, da lì, ci chiediamo: cos’è Ciò che è cosciente degli oggetti? Perché solo “Quello” sarà l’unico soggetto a meritare questo nome.
Posso osservare il mio corpo, la mia mente, la mia psiche, la mia “persona”… Allora, nella mia vera identità, non sono nulla di essa, ma proprio Ciò che osserva, Ciò che è cosciente. Con ciò, mi diventa chiaro che quella che chiamo la mia “personalità” (o carattere) non è la mia “identità”.
Tutti gli elementi che compongono la mia “personalità” cambiano continuamente: corpo, pensieri, sentimenti, reazioni, modi di vedere e vedere la realtà… Tuttavia, in mezzo a tutto questo, c’è “qualcosa” che non cambia: il Testimone che osserva e che, in ogni momento della mia storia, nonostante i cambiamenti avvenuti, mi permette di riconoscermi e di dire veramente: “Io sono”. E io sono esattamente Quello che non cambia.
Da questa comprensione, tutto cambia. È logico che chi si identifica con il suo sé particolare, separato e “personale”, tende anche a credere in un dio separato e “personale”. E che, in questo processo, quell’immagine di Dio è proiettata in ciò che costituisce l’identità ultima di ciò che tutti noi siamo. Con la quale, nella religione teistica, ci sarebbe stato un rapimento involontario della nostra identità, nel senso che avremmo proiettato su un dio esterno e separato ciò che realmente siamo, ciò che costituisce il Fondo di tutto ciò che è reale.
Tuttavia, quando si comprende che la nostra identità è tutt’uno con tutto ciò che è, che al di là delle differenze o “forme”, condividiamo lo stesso “sfondo”, cadono le immagini teistiche e ciò che abbiamo chiamato “Dio” (Deitas, nel linguaggio del Maestro Eckhart) si mostra, in realtà -i nomi non possono che essere inadeguati-, come il Mistero ultimo o Fondo coerente di tutto ciò che è reale: Essere, Realtà, Coscienza, Vita… Allo sguardo teista, questo sembra un “perdita”, poiché dalla mente non si può pensare nulla di superiore al “personale”; tuttavia, la realtà trascende le categorie sia “personale” che “impersonale”. Forse si potrebbero applicare qui le sagge parole della filosofa Simone Weil: “La perfezione è impersonale [transpersonale]. La persona che è in noi [la nostra tendenza a “personalizzare” tutto] è la parte dell’errore». E anche: “Tutto ciò che è impersonale [transpersonale] in un essere umano è sacro, e solo quello” [5].
Quando è dotata di una profonda comprensione, la mente pensante è completamente messa a tacere – il pensiero è sospeso – e si vede chiaramente che, nella nostra vera identità, non siamo il sé con cui ci eravamo precedentemente identificati, ma la Presenza Consapevole – totalità, Amore ed Equanimità – che sostiene tutto.
Questo non significa “negare” il sé o evitarlo. Qui sta la verità e la bellezza del nostro paradosso: noi siamo il sé particolare – che è la nostra “personalità” – e siamo la Presenza cosciente che lo costituisce e lo sostiene – che è la nostra “identità”. Personalità e identità mirabilmente abbracciate nella non-dualità.
Da questa autocomprensione, che dire del teismo? Pur riconoscendo tutto ciò che, con le sue luci e le sue ombre, ha significato nel processo evolutivo dell’umanità e valorizzando l’esistenza di tante persone che hanno sviluppato il meglio di sé in esso, dispiegando la loro umanità fino a limiti anche eroici, no mi fermo rendendomi conto che era una credenza coerente con il “luogo” -il livello di coscienza- in cui si trovavano gli umani. Per questo ho la sensazione che ci stiamo avviando verso una fase post-teista in cui, contrariamente a quanto tende a pensare la mente, nulla di prezioso si perde, ma tutto si arricchisce, sia nella comprensione che nell’esperienza.
Quella stessa autocomprensione ci mostra la natura non duale del reale. Nel nostro caso, le due dimensioni che ci costituiscono – personalità e identità – sono mirabilmente intrecciate in modo non duale. Non sono due (né uno né due) volti o poli della stessa realtà.
III. NON-DUALITÀ
Recentemente ho ricevuto un’e-mail da una persona che mi ha detto: “Penso di capire cos’è la non-dualità, ma non posso ragionarci sopra”. La mente non può “ragionare”, o anche comprendere la non-dualità, perché è essa stessa duale. Pensare implica, oltre a oggettivare, “separare” il soggetto conoscente dall’oggetto conosciuto. Lì nasce l’io e la mente finisce per pensare che la realtà sia una somma di oggetti separati, perché è così che la percepisce.
La non-dualità non può, quindi, essere pensata. Il massimo che possiamo ottenere, attraverso la mente, è riconoscere che un tale approccio non solo non è privo di significato, ma che ha anche un potente potere esplicativo. Niente di più. La non-dualità può essere percepita, non attraverso il ragionamento, ma proprio nel silenzio della mente: o perché è stata vissuta un’esperienza di comprensione in cui il pensiero è completamente sospeso, o grazie a una pratica di silenzio della mente, che ci permette di vedere da “un altro” posto.
Qualcuno ha anche scritto che “l’approccio della non-dualità sembra contraddire tutta l’esperienza umana”. Proprio così, così come l’eliocentrismo “sembrava” contraddire chi era ancorato alla “evidenza” che il sole girasse intorno alla terra.
Tuttavia, anche la fisica moderna afferma l’interrelazione,fino al punto che il fisico Carlo Rovelli osa scrivere: “L’aspetto relazionale di tutte le variabili fisiche è una delle scoperte fondamentali della meccanica quantistica”. Se potessimo progressivamente addentrarci nella più piccola materia – dall’organismo agli organi, dagli organi alle cellule, da lì alle molecole, dalle molecole agli atomi, dagli atomi alle particelle subatomiche… -, ciò che scopriremmo alla fine del viaggio sarebbero onde di vibrazione, corde vibranti e campi quantistici. Tutto questo punta verso un Vuoto originario, matrice di tutte le forme. Il che ha portato il filosofo post-materialista Jordi Pigem a scrivere che “la base della realtà non è la materia, è la coscienza”. Sulla stessa linea, il grande fisico quantistico James Jean ha affermato che “l’universo materiale deriva dalla coscienza, e non viceversa”. E l’astrofisico Richard Conn Henry: “L’universo è immateriale, mentale e spirituale”. Con questo, l’approccio della non-dualità non sembra così “contraddittorio” con la realtà come alcuni pensavano.
Senza volermi dilungare troppo, desidero semplicemente segnalare alcune questioni riguardanti la non-dualità che spesso vengono travisate. Probabilmente per lo stesso motivo per cui non può essere “ragionato”. Quando si cerca di comprendere la non-dualità dalla mente, è impossibile coglierne il significato.
I punti che voglio chiarire sono quelli che, a mio avviso, vengono più spesso fraintesi:
La non-dualità non nega le differenze. Quello che dice è che la differenza non è sinonimo di separazione. Siamo diversi, ma siamo uguali. La realtà è un’esibizione di forme diverse, ma tutte non sono altro che “forme” che nascono dallo stesso sfondo e condividono la stessa identità profonda.
La non-dualità non nega il mondo delle forme; al contrario, la caratteristica della non-dualità è l’affermazione di entrambi i poli del reale. Presuppone un duplice principio: quello dell’esclusione (“io non sono il mio corpo, né la mia mente, né la mia psiche…”) e quello dell’inclusione (“ma sono anche il mio corpo, la mia mente, la mia psiche…”). Nel caso umano, la personalità (o io) è saggiamente articolata con e dall’identità (coscienza). La saggezza consiste nell’esperienza propria di questa articolazione.
La non-dualità non nega il processo, ma piuttosto riconosce il paradosso. Anche se è vero che, dal piano profondo – al di là delle forme – tutto è già – tutto, semplicemente, è; siamo pienezza-, questo non nega che, sul piano fenomenico o delle forme, tutto sia processuale o sequenziale. Che si può riassumere sinteticamente in questa affermazione: siamo in procinto -come persone- di diventare ciò che già siamo -nella nostra identità profonda-.
La non-dualità non nega l’azione o il dinamismo del coinvolgimento. Al contrario, la non dualità è amore e sinonimo di impegno. E questo perché la comprensione non duale, ponendosi nella verità di chi siamo, senza negare nulla che ci costituisce, mi fa riconoscere che tutto il resto non è altro da me. Questo è ciò che apprezzo in Gesù di Nazareth: è stata questa comprensione che ha guidato il suo atteggiamento (“quello che fai a un altro, lo fai a me”) e il suo comportamento, caratterizzato dalla compassione più genuina, che va sempre di pari passo con comprensione.
Con cui l’impegno è urgente, ma nasce dal posto giusto: non dal volontarismo o dal dualismo
-con le trappole che questo contiene-, ma dalla comprensione. Non c’è un sé che si impegna,
ma che non porta alla passività, all’inattività o all’indolenza narcisistica, perché siamo coscienza impegnata; Comprendendolo, cominciamo a vivere della nostra vera identità.
La non-dualità spiega il paradosso del reale: tutto è differenza e, allo stesso tempo, tutto è uno; l’Uno che si esprime nel Molteplice. Ci vediamo e viviamo come diversi, ma speriamo di capirci l’un l’altro come un’unità, e possiamo vivere in coerenza con esso. Questo è il nostro paradosso: ognuno di noi sperimenta se stesso in una personalità diversa, ma condividiamo la stessa e unica identità. È proprio questa comprensione che renderà possibile una trasformazione radicale del nostro stato di coscienza.
La non-dualità è l’unità nella differenza, l’abbraccio di tutte le forme in uno sfondo unico, comune e condiviso, che costituisce il “nucleo” di tutto ciò che è. Ci sperimentiamo in un certo modo e diverso da tutti gli altri, ma siamo “Quello” che incoraggia tutte le forme, Pienezza di presenza, Vita, Amore…
In breve, la comprensione non duale, una volta superata l’inerzia della mente -simile alle inerzie che mantenevano l’umanità nelle antiche credenze assolutizzate-, ci attrae potentemente, perché riflette il nostro Desiderio più profondo, quello che richiama a “casa .”
Il nostro dramma consiste nel vivere ignoranti e distanti (alienati) da chi siamo veramente, identificati con il sé e la mente pensante. La sfida è mettere a tacere la mente e avere il coraggio di guardare noi stessi da “un altro luogo”, il luogo del non pensiero. Quando si trascende il pensiero – senza mai rinunciare alla mente funzionale o alla lucidità critica – ci si accorge che non c’è nulla da raggiungere e nulla da mancare; non c’è confusione, non c’è me e non c’è preoccupazione per la nascita o la morte. Siamo – siamo sempre stati – a “casa”. Da quella comprensione viviamo il piano delle forme o dell’io, in tutte le dimensioni (psicologica, relazionale, sociale, politica, ecologica…). Ciò che le religioni chiamavano “Dio” – in consonanza con un certo momento della coscienza umana – è ciò che ora scopriamo come la nostra “casa”, l’unica e ultima identità che ci costituisce – coscienza, presenza, vita… – e lo sfondo luminoso (“Dio” / “dev” significa “luce”) di tutto ciò che è.
Quello che chiamiamo “Dio” non può essere un Essere separato – come potrebbe esserci qualcosa di separato dal reale? – ma uno stato dell’essere. Inoltre, l’idea di un dio separato può essere solo un fattore di divisione, perché la divinità è pensata come “un terzo” tra te e me. Al contrario, quando lo intendiamo come il Fondo Comune di tutti gli esseri – la nostra identità ultima
– lo percepiamo come la più grande forza di coesione.
Per tutto ciò dicevo che, con il superamento del teismo, nulla di prezioso si perde; cresci in comprensione e in pienezza di vita.
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[1] Voglio citare solo due libri: Roger LENAERS, Sebbene non ci sia Dio lassù, Abya Yala, Quito 2013; e José ARREGI, José María VIGIL, Santiago VILLAMAYOR e altri, After God. Un altro modello è possibile, Collezione “New Axial Time”, marzo 2021. Quest’ultimo può essere scaricato gratuitamente, per il quale è sufficiente inserire il titolo nel motore di ricerca; o dal sito web “Spiritualità Pamplona-Iruña”:
https://www.espiritualidadpamplona-irunea.org/wp-content/uploads/2021/04/Despues-de-Dios.- Otro-modelo-modelo-es-posible-Arregi-Vigil-y-otros.pdf
In risposta a una reazione rabbiosa di José María Castillo -che mostra come la teologia, anche la più “aperta”, sia in un paradigma dogmaticamente teistico e religiosamente assolutista, dimenticando che tutte le forme religiose sono solo costruzioni mentali-, José Arregi scrive: “Noi siamo a un bivio storico in cui ci si aprono tre alternative: a) Continuare ad aggrapparsi a quell’immagine di Dio concepita fondamentalmente a Sumer circa 7000 anni fa e ancora in vigore nel magistero ufficiale e nell’immaginario popolare, così come nella teologia predominante; b) cessare di usare il termine “Dio”, almeno fino a quando perdura detto immaginario comune; c) Superare radicalmente l’immaginario tradizionale e passare dall’immagine teistica di “Dio” all’affermazione di Dio come Mistero fondamentale ed eterno di ogni cosa. Scartiamo solo la prima opzione, che per il resto riteniamo contraria non solo alla cultura attuale, ma alla
soggiacente ispirazione della Bibbia e agli insegnamenti espressi dei grandi mistici e mistici della tradizione cristiana e di altre tradizioni religiose… Per per questo affermiamo che Dio è “non teistico” o “transteista” nel senso indicato”: https://www.religiondigital.org/opinion/Respuestas- Jose-Arregi-Maria-Castillo_0_2341265859.html
Fa luce anche la risposta di Santiago Villamayor: https://www.atrio.org/2021/05/la- trascendencia-de-lo-inmanente/
In questo dibattito, ci sono stati diversi teologi che hanno adottato posizioni diverse, come si può vedere nei portali di informazione religiosa. La maggior parte di essi opera in un paradigma teistico e dualistico e in un’epistemologia decisamente dogmatica.
[2] «Il discorso di fondo di tutta la teologia attuale – scrive Santiago Villamayor – non trova eco nella società e non osa metterne in discussione le credenze e i simbolismi. Né il Dio onnipotente e superiore, né Gesù come Figlio di Dio, sono credibili oggi. E meno la Redenzione”: https:// www.atrio.org/2021/05/la-trascendencia-de-lo-inmanente/
[3] J. MELLONI, Da qui a qui. Dodici soglie sul cammino spirituale, Kairós, Barcellona 2021, pp. 15-16.
[4] Lo scrittore cileno Rafael Gamucio si è espresso così: “Non posso assicurare a nessuno che Dio esiste. Ho parlato con lui molte volte, ma sono disposto ad ammettere che la sua voce è stranamente simile alla mia”.
[5] S. WEIL, La persona e il sacro, Hermida Editores, Madrid 2019 [orig. 1943].
Zizur Mayor (Navarra), 27 giugno 2021.
ENRIQUE MARTÍNEZ LOZANO (https://www.enriquemartinezlozano.com/posteismo-y-no-dualidad-un-cambio-de-paradigma/)
Traduzione: Daniele Spatafora.