Un Cosmo che si espande

L’infinito che si espande non va pensato come l’universo che si espande dentro uno spazio senza limiti, cioè non-finito. L’infinito a livello cosmico va pensato come “potenziale” cioè qualcosa che produce sempre più spazio ed è uno spazio che il cosmo stesso crea quell’estensione entro cui il cosmo stesso si espande. Il cosmo non si espande, quindi, in uno spazio che è già presente ed è già dato. Il cosmo si crea il proprio spazio/tempo entro cui si espande.

Lo spazio è espressione della dinamicità senza limiti del cosmo. Lo spazio/tempo non è un “luogo” dentro cui si dà uno spazio “contenitore” e un tempo “fisso” con cui l’evoluzione del cosmo in divenire viene misurata. Spazio/tempo, così come massa/energia, sono proprietà della materia che è potenzialità infinita. Questa potenzialità è espressione dell’infinito attuale, la sostanza eterna (natura, physis) che si esprime come potenzialità (natura naturans) e si realizza in modo “finito” come natura “naturata”.

Il cosmo, dunque, è natura naturata “ancorata/originata”, “scaturente” dal grembo delle potenzialità (natura naturans) che alberga nella “natura” (Physis) come sua espressione. La natura “naturans” è l’espressione potenziale della “natura”, mentre la natura “naturata” è l’espressione attuata di questa natura (eterna e infinita physis in atto). L’espressione “attuata” della natura NON è la natura sic et simpliciter, poiché la Physis è già pienamente in atto , cioè “attuale“, mentre la natura “naturata” è la natura “attuata” .

Dunque tra “attuale” e “attuata” c’è una radicale differenza. La natura “attuale” è Pura Consapevolezza, mentre la natura “attuata” è ciò che risulta dalla natura “potenziale”. La natura attuata è materia che si auto-trascende e tende verso la sua spiritualizzazione, cioè a divenire pienamente “attuata”. La natura naturans è natura “potenziale”. La natura “potenziale” è MATERIA che tende verso la sua realizzazione in virtù di quella natura (physis) che potremo indicare come originaria, infinito “in atto”.

La realizzazione delle potenzialità della materia è lo “spirito”. Questo spirito che man mano emerge dalla materia come connettività sempre più complessa e unificata, come materia complicata (cum-plica, con molte pieghe) tuttavia, è già pienamente realizzato come natura “semplice” (sine-plica, senza pieghe). La natura semplice è la NATURA (Physis). Lo spirito, materia attuata o spirito emergente dalla materia, è presente come “attuato” in virtù della NATURA, cioè lo SPIRITO, fondamento ultimo e primo, identità di Alpha e Omega, che si “dis-piega” come spazio/tempo di un universo che è infinito potenziale.

Tutto è SPIRITO, tutto è CONSAPEVOLEZZA, ma questa si esprime dinamicamente in modo evolutivo come natura naturans –> natura naturata.

Il chicco di grano e la senape

“Se aveste fede quanto un granello di senape” (Lc 17,6)

“Se il chicco di grano non muore non porta frutto, ma se muore porta molto frutto” (Gv 12,24)

Questi due versetti ci rimandano a due immagini. La piccolezza della senape e la dinamica del chicco di grano. Da “molta” fede a “poca” fede, dall’avere molta fede, ad avere tanta fede come un granello di senape, ci vuole umiltà. Bisogna decrescere… perdendo la fede che resiste a passare attraverso la morte di sé, per essere meno la fede in Gesù ma la fede di Gesù (genitivo soggettivo).

Perché chiedere tanta fede? Ne basta poca, quel tanto che ci fa entrare nella dinamica del “diminuire”, del morire per rinascere. Questa umile fede porterà frutto e sarà feconda. Non perché riempirà la piazza di San Pietro o i Santuari Mariani. Nemmeno per il Giubileo. Ma riempirà il cuore di consapevolezza e compassione.

In queste due immagini, siamo invitati come singoli e come chiesa a non “inscenare” la fede ma a “custodirla” e farne il mistero della nostra “vita”, impastata con le sue difficoltà, i dubbi, le paure e le sue angosce.

La nostra fede ha bisogno di cadere a terra e morire per rinascere feconda. Nella logica paradossale del Vangelo: potrebbe essere che attraverso la diminuzione della nostra fede – di quella che ce n’è molta – progrediremo nel cammino verso una fede che è umile e ben radicata nel nostro vissuto quotidiano.

Meno c’è fede, più c’è speranza!

Quante volte nella nostra vita dinnanzi ad una disgrazia e al male, ad una sofferenza insopportabile e al dubbio che minaccia la nostra pur fragile certezza che Dio ci voglia bene, abbiamo detto: “Signore, aumenta la mia fede”. Pensando che quanto più ci sia fede, tanto più le situazioni si risolvono.

Più delle volte in ciò che domandiamo c’è rassegnazione: donami, Signore, la capacità di accettare le cose così come sono. Intanto nulla potrà cambiare. Quante volte ci sentiamo sbattuti e travolti dagli eventi. Tutto quello che ci accade lo prendiamo per il nostro destino o per l’insondabile ed immutabile fato.

“Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Mt 17,20)

La fede può essere piccola quanto un granellino di senapa, eppure fare cose straordinarie: la parabola di Gesù sembrerebbe spingersi fino all’impossibile. Infatti come può un albero di gelso sradicarsi da solo e trapiantarsi, cioè mettere le radici nell’acqua del mare? Tutto questo non solo è straordinario, ma impossibile. Ma la fede può fare l’impossibile.

L’impossibile non sta tanto in ciò che la fede compie, ma nel fatto che la fede fa agire, è attiva la fede: non è una quieta e stanca rassegnazione alle cose, anzi, arriva a sconvolgere l’ordine del creato, le “leggi” cosiddette della natura. Un gelso è ben radicato nella terra. Ebbene nulla c’è per la fede che sia inamovibile o sacrosanto. Non c’è niente di più contrario alla fede, dico quella di cui ne basta poco, che la rassegnazione o l’assuefarsi al destino.

La fede è coraggio e decisione, azione e iniziativa: la fede è coraggio di progettare e di compiere cose nuove, di uscire da schemi consolidati da leggi secolari ed immutabili. Certamente la fede, dico quella di cui ne basta poco, è capace di accettare tutto quanto c’è di negativo nella vita – peccato, dubbio, non senso, violenza e morte – ma con coraggio e non passività. E qui accettare con coraggio, e con fede, vuol dire non lasciarsi paralizzare dalla negatività, dicendo che intanto nulla potrà cambiare, ma reagire cogliendo lo spiraglio di positivo che anche la situazione più nera possiede, fosse anche solo proprio il fatto che mi rendo conto di poter reagire.

Questa capacità di spezzare le logiche necrofile presenti nella nostra società, nella chiesa, nelle nostre famiglie e comunità religiose, è la stessa forza di Dio che non vuole la morte, ma la vita. Questa forza vitale ed amante della vita, che è la fede, dico quella di cui ne basta poco, può far stare un gelso sul mare, cioè, può far vigoreggiare una pianta anche se le viene a mancare la terra della sicurezza a cui si tiene stretta con tutta forza delle radici.

La fede, dico quella di cui ne basta poco, sa vivere anche sull’incertezza dei flutti dei tempi, quando la paura ci sta sgomentando e ci blocca a cambiare e far progetti di vita.

La fede, dico invece quella che ne vorremmo sempre di più, è quella di cui ce ne tanta in Italia ed è per questo che ne vorremmo ancora di più. C’è anzitutto troppo cattolicesimo nel nostro paese: la maggioranza della popolazione in Italia e in particolare al Sud continua ad identificarsi nei valori della tradizione, ma senza viverli e lasciarsi coinvolgere. Le tappe dell’esistenza sono ancora segnati da questa fede nominale, di cui se ne vorrebbe sempre ancora di più.

Innanzitutto i fedeli, perché bisognosi di sicurezze e bisognosi di miracoli, di madonne e di Padre Pio. Anche i preti ne vorrebbero di più di questa fede: approfittando di una certa ricerca di fede anche tra persone un tempo non credenti si tenta di aver spazio nella televisione con servizi continui sul papa e dando spazio ai migliori comunicatori della fede ed organizzando incontri di massa di preghiera.

Di questa fede se ne vorrebbe sempre di più, e dato che forse non ce n’è abbastanza, si finisce per far appello all’impegno morale richiesto da chiunque. L’azione caritativa, l’impegno verso gli altri e a fini di solidarietà, hanno quasi sostituito l’annuncio di fede. La Chiesa è in parte ancora convinta di operare in un mondo fondamentalmente cristiano (nonostante la crisi irreversibile della fede cristiana) e cerca di coinvolgere l’insieme della popolazione e di rispondere alle più diverse domande religiose e sociali.

“Se aveste fede quanto un granellino di senape”.

In tutto questo, alcune strategie anche della Chiesa sembrano più dettate dalla rassegnazione e dal bisogno di arroccarsi sulle proprie certezze, come se si volesse guadagnare a tutti i costi il terreno perduto nella società, nella politica e ancor più nelle coscienze dei cattolici.

C’è ancora molto orgoglio in tutto questo: nella Chiesa come sistema che cerca di conservarsi ed espandersi e in ciascuno di noi. Ci teniamo a quello che abbiamo compiuto ed operato nel campo del Signore. Abbiamo diritto di sederci a tavola per primi, poiché abbiamo fatto quello che ci era stato chiesto.

Ci è difficile sradicarci dalle nostre “grandi” opere e gettarci nel mare. “Siamo servi inutili”, ci ricorda il Signore. Queste parole sono certamente dure, ma ci liberano dalla logica della ricompensa e del dovuto. Dischiudono le nostre storie, la storia stessa della Chiesa, alla novità della fede che desidera l’impossibile. L’orgoglio di chi vuole conservare per espandersi è stupido, la disperazione di chi crede di aver perso tutto è sterile: solo la fede, dico quella che ce ne vuole poco, vince. Non c’è altra strada per avere la vita.

Meno ce n’è, più ce n’è di fede. La fede piccola e umile dell’impossibile.

Rivelazione del Sé – che è Cristo

Quando parlo di me stesso, mi riferisco al mio stesso essere. So di poter “andare dentro di me”, in uno spazio interiore accessibile solo a me. Solo io posso sperimentare la mia coscienza, mentre gli altri percepiscono soltanto la mia presenza esterna, visibile come un corpo tra altri corpi. Di solito, però, non diciamo “io sono un corpo”, ma piuttosto “ho un corpo”. Se ci pensiamo, questo è piuttosto strano. Un corpo che afferma: “Ho un corpo” crea un interessante paradosso.

Chi sta parlando allora? È il mio sé incarnato che parla, in unità con il mio corpo, ma allo stesso tempo si riferisce al corpo come alla sua apparenza visibile. Interno ed esterno non possono essere separati, ma solo distinti.

Quando dico “me stesso”, mi riferisco a un’entità: il mio sé incarnato. Ma come posso distinguere chiaramente me stesso da me stesso? Posso percepire consapevolmente la differenza tra questi due aspetti di me?

Possiamo testarlo in un esperimento. La nostra coscienza riflessiva ci consente di osservare noi stessi. Quindi, prova a osservarti mentre leggi queste righe. Per farlo, è necessario distanziarsi internamente da ciò che osservi.

Concentrati di nuovo attentamente con il tuo “occhio interiore”: ti percepisci sia come osservatore che come osservato contemporaneamente? Se sì, devi focalizzarti ancora di più sull’atto dell’osservazione. Prima o poi, riuscirai a prestare attenzione solo a ciò che osservi, identificandoti completamente con l’osservatore. Se ci riesci, hai raggiunto l’obiettivo: l’osservatore che nessuno osserva più, nemmeno te stesso, è il Sé.

Ma dov’è questo sé? Da nessuna parte e ovunque. Non lo puoi localizzare, né smontare in parti. Da questa intuizione sorprendente emerge che esiste un solo sé: uno per tutti noi, un tutto indivisibile e illimitato!

Tuttavia, il nostro sé è unico, diverso da ogni altro sé. L’unico e inesauribile sé si esprime in ciascuno di noi in modi sempre nuovi. Siamo così diversi tra noi che persino le impronte digitali di miliardi di persone non sono mai identiche. Eppure, quando ciascuno di noi dice “io”, si riferisce allo stesso sé. In ogni persona che incontriamo, ci relazioniamo con quell’unico sé comune a tutti noi. Questo fatto ha profonde implicazioni per il nostro rapporto con gli altri.

Il sé non è solo al di sopra dello spazio, ma anche al di sopra del tempo, quindi è sovra-temporale. Quando ricordo la mia infanzia, ritrovo una versione passata di me stesso, ma non il sé attuale. Tuttavia, quel sé di allora è lo stesso di oggi: rimane immutato nei miei ricordi. Persino dopo trent’anni, due compagni di scuola si riconoscono, nonostante tutte le molecole del loro corpo siano cambiate. Si riconoscono perché il sé costante si esprime nel sé in continua evoluzione dell’altro. Nonostante i nostri limiti, ogni persona è una nuova realizzazione delle possibilità illimitate del sé.

Ricordi l’inizio della tua prima amicizia, magari all’asilo? Non è stato un momento di stupore? Come può un altro bambino essere così diverso da me e, allo stesso tempo, così simile? Non “come me” nel senso stretto, ma profondamente affine, tanto da rendere eccitante la scoperta delle nostre differenze. Eppure, nel vero senso della parola, quel bambino era anche un po’ “io”.

Aristotele definiva l’amicizia come “un’unica anima che dimora in due corpi” – espressione che possiamo interpretare come la presenza dello stesso sé in ognuno di noi. Tutti i corpi ospitano un solo sé, e gli amici sono coloro che riconoscono e apprezzano questa verità.

Ancora più nell’esperienza degli amanti sperimentiamo che siamo una cosa sola. “L’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata!” (San Giovanni della Croce, Notte oscura, 5)

Se potessimo diventare consapevoli di questo anche solo occasionalmente nei confronti di tutti, il nostro mondo sarebbe un luogo molto più gentile.

Nel corso della mia vita, ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno fatto percepire chiaramente questo sé universale. In loro presenza mi sentivo libero di essere pienamente me stesso. Mi hanno mostrato che anch’io sono un’espressione unica dell’unico grande sé.

Tradizioni diverse danno nomi differenti a questo Sé. Per i Pima in Arizona è “I’Itoi”, per gli indù è “Atman”, per i buddisti è la “Natura di Buddha”. I cristiani lo chiamano “Cristo in noi”. In questo senso, San Paolo scrive: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Permettere che questo sé traspaia sempre di più attraverso il nostro ego è il grande compito di “diventare chi siamo veramente”. Si tratta di vivere appieno il nostro ruolo nella vita.

Ma cosa significa interpretare il nostro ruolo? Non si tratta di seguire un copione fisso. Piuttosto, è come una performance di jazz: ogni nota improvvisata è in costante evoluzione, influenzata dagli altri musicisti. Anche noi, come musicisti, dobbiamo suonare con il nostro strumento, ossia il corpo e la mente che ci sono stati dati alla nascita, con tutte le loro possibilità e limiti.

Ciò che determina quanto bene interpretiamo il nostro ruolo non è lo strumento che ci è stato assegnato, ma come lo suoniamo. Non conta quanto lo strumento sia perfetto o imperfetto: conta solo come lo usiamo per esprimere il nostro sé autentico.

Il nostro compito è suonare come “noi stessi”. Il nostro successo nella vita dipende da quanto il nostro ego riesca a diventare trasparente rispetto al Sé. Quando riconosciamo che siamo tutti parte di un unico Sé, il nostro modo di vivere e relazionarci esprimerà un “sì vissuto all’appartenenza”, ed è proprio questa la definizione di amore. Per San Paolo questo “Sé” è lo Spirito di Dio che “abita in noi”. “Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rom 8,9). Lo Spirito – che è amore – ci spinge, infatti, ad amare il prossimo, senza riserve e senza condizioni, non tanto per buonismo moralistico, ma con la stessa compassione che abbiamo verso noi stessi. Noi siamo C/colui che amiamo. “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12,31).

Se ci pensi, scoprirai che l’amore autentico, in tutte le sue forme, è un’espressione del “sì vissuto all’appartenenza”. Amare il prossimo come noi stessi non significa “come se fossimo noi”, ma “perché siamo noi”. Il sé del nostro prossimo è il nostro stesso sé.

Da Gesù al Cristo

Molti cristiani e teologi – in particolare i cristologi – riconoscono l’unicità ed esclusività di Gesù come Salvatore e Redentore dell’umanità espressa nel termine “Figlio di Dio”, e ancor più “Figlio unigenito del Padre. L’espressione “FIGLIO UNIGENITO” deve essere compresa alla luce del contesto della Bibbia ebraica. In quel contesto, può significare un figlio che non ha fratelli, ma può anche essere utilizzata per sottolineare il grande amore del genitore per un figlio che ha dei fratelli.

Nel capitolo 22 della Genesi, ad esempio, Isacco è chiamato “figlio unigenito” di Abramo, sebbene anche suo fratello faccia parte della storia. “Unico amato” sarebbe una traduzione inglese più accurata e meno fuorviante. “FIGLIO UNIGENITO”, nel senso di “unico amato”, non porta con sé alcuna connotazione di esclusività; ogni figlio di un genitore è “unico amato”, indipendentemente da quanti figli ci siano.

La figliolanza divina di Gesù non è esclusiva, ma include ogni singolo essere umano. Tutti coloro che confidano, almeno implicitamente, nell’amore e nella compassione come il bene supremo, sono—insieme e con Gesù, Figlio di Dio—figli e figlie di Dio, che è Amore. “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Giovanni 1:12). La relazione tra Dio e Gesù Cristo non è forse unica? Certamente lo è. Ma lo è anche la tua. La relazione tra Dio e ogni essere umano è unica e insostituibile, in infinite e sempre nuove variazioni del tema del Cristo. “Perché Cristo gioca in diecimila luoghi, meraviglioso nelle membra, e meraviglioso negli occhi non suoi al Padre” attraverso i tratti dei nostri volti umani” (G. M. Hopkins).

La Prima Lettera di Giovanni esprime meraviglia: “Vedete quale amore ci ha dato il Padre, perché siamo chiamati figli di Dio, e tali siamo” (1 Giovanni 3:1). Tutto ciò che Gesù rappresenta è riassunto nel chiamare Dio “Padre” (Abba), e scaturisce dalla sua esperienza di intimità con Dio, espressa in questo termine affettuoso. Questo è il motivo per cui “Figlio di Dio” esprime meglio di qualsiasi altro titolo non solo il suo rapporto con Dio, ma anche con noi. Egli è “il primogenito tra molti fratelli” (Romani 8:29). Tre concetti fondamentali della tradizione cristiana nascono dall’intimità filiale di Gesù con Dio: il Vangelo, il Regno di Dio e la Salvezza.

Il Vangelo è un termine che riassume l’insegnamento centrale di Gesù, radicato nella sua esperienza di Dio come Abba, Padre amorevole. La Prima Lettera di Giovanni riassume il Vangelo in modo conciso: “Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui” (1 Giovanni 4:16).

Il Regno di Dio è il mondo—quella parte del mondo che “dimora nell’amore”. Con il poeta Gary Snyder, che parla della “Casa della Terra”, potremmo chiamare il Regno di Dio la “Casa di Dio”. Parlando di una casa, evitiamo l’equivoco secondo cui Gesù avrebbe semplicemente sostituito un sistema di dominazione secolare con uno sacro. Al contrario, egli visse e morì per superare qualsiasi forma di sistema di dominazione. L’opposto totale è ciò che si intende con “Regno di Dio”. La Casa della Terra è la Casa di Dio—eccetto per noi esseri umani. La Casa di Dio non conosce dominazioni inutili, oppressioni ingiuste o sfruttamenti egoistici. Solo noi esseri umani, come il Figlio Prodigo nella parabola (Luca 15:11-32), che lasciò la casa per “una terra straniera”, siamo diventati alienati.

La Salvezza è il ritorno a casa. Quando l’amore, e non il potere, regna supremo, l’alienazione da noi stessi, dagli altri e da Dio viene guarita. Nel momento in cui ci rendiamo conto che non possiamo mai cadere fuori dall’amore di Dio, “ritorniamo a noi stessi” come il figlio smarrito nella parabola—ritorniamo al nostro vero Sé, a casa nella Casa di Dio come membri unicamente amati della famiglia. Ora diventiamo catalizzatori per la salvezza del mondo intero, trasformandolo dal potere e dalla dominazione al servizio e all’amore. La salvezza—e questo deve essere sottolineato—non è una questione privata.

Tutto ciò è implicito quando parliamo di Gesù Cristo come FIGLIO UNIGENITO DI DIO. Non ci limitiamo a dire qualcosa su Gesù, ma proclamiamo che ogni essere umano è figlio o figlia di Dio.

Meta-fisica spirituale

Vorrei con voi applicare il modello quantistico alla comprensione della realtà secondo la prospettiva metafisica, cioè utilizzare il modello quantistico e compiere questo passaggio dalla fisica alla metafisica, vedendone anche le conseguenze nella visione spirituale sulla realtà umana.

Partiamo allora dal modello quantistico. Voi vedete qui l’emergere delle particelle dal fondo o sfondo della realtà probabilistica della fisica quantistica, cioè quello che viene normalmente chiamato il collasso dell’effetto onda. È il passaggio dalla probabilità all’attualità, l’emergere degli eventi quantistici.

Come vedete, questa realtà continuamente emerge, passando quindi dal “non-apparire all’apparire”, e questa emergenza caratterizza la realtà quantistica. Ciò che vedete che emerge è dalla realtà più profonda di possibilità, di probabilità; alcuni vedono anche il “Quantum Vacuum”, cioè questa realtà da cui tutta la realtà emerge, che può essere vista come un modello per comprendere la realtà.

Quello che noi chiamiamo “cose” non sono altro che queste “emergenze” da questa rete di probabilità che costituiscono i campi quantistici. Questa correlazione, questo intreccio, questa trama, può essere inteso come “trama processuale di connettività”. Questa è la realtà da cui emergono le particelle, cioè le cose.

Questa realtà di possibilità ci rappresentata la “mente” divina, la mente “cosmica”. Che cosa è la mente divina? La mente divina è proprio questa realtà della consapevolezza da cui emergono quelle che sono le cose, e queste cose le possiamo intendere come “gli intelligibili”. Cioè, dalla mente divina emergono queste idee. Questi intelligibili sono le “creature”.

Esse est percipi“, affermava il filosofo vescovo anglicano Berkeley. Le cose “sono” nel loro “essere percepite” dalla mente divina. Dunque, l’essenza divina è questa realtà più profonda di potenzialità da cui emergono le creature, e queste creature sono gli intelligibili.

Quindi vedete che le “cose” (in inglese: thing) sono, perché dalla mente divina emergono, cioè gli intelligibili. Questi intellegibili sono le idee divine e queste non sono altro che l’essenza divina, poiché nell’essenza divina non si dà una “differenza reale” tra essenza divina e mente divina. Gli intelligibili, le idee divine, in quanto “sono percepite”, ciò che abbiamo identificato come “le creature”, sono la stessa essenza divina. La creatura è l’essenza divina.

Facciamo un esempio numerico. Indichiamo con l’operazione della moltiplicazione la creatura “5 x 2” mentre con il numero “10” l’essenza divina. Tra l’operazione numerica, cioè la moltiplicazione (5 x 2), e il numero “10”, c’è una differenza poiché il numero “10” non-è l’operazione della moltiplicazione. Tuttavia, l’operazione “5 x 2” è “10” così come “10” il numero a cui fa riferimento. Cioè, la creatura fa riferimento all’essenza divina. In questo riferimento-alla-essenza divina consiste la sua creaturalità. L’essere della creatura sta tutto in questa relazione-alla-essenza divina, ma la creatura – proprio nella sua referenzialità – è l’essenza divina, così come il “5 x 2” non è in parte (partim) “10” ma tutto (totum) l’essere della creatura “è” l’essenza divina, benché non sia totalmente l’essenza divina. Come l’operazione (creatura) non-è il numero (essenza divina), così la creatura non-è totalmente (totaliter) l’essenza divina.Se lo fosse, infatti, l’operazione della addizione “8 + 2” non sarebbe “10”, mentre lo è. Per evitare la contraddizione, è necessario affermare la differenza tra la creatura (operazione) dall’essenza divina (numero), affinché sia possibile che l’essenza divina sia tutta presente in ciascuna creatura, nella molteplicità delle creature.  Con un termine filosofico, potremmo dire che la molteplicità delle operazioni è compresa, sta “nel” numero “10”, benché questa o quella creatura non è totalmente l’essenza divina in cui “è”.

Si tratta della visione filosofico-teologica del “panenteismo”. Tutte gli enti (= le creature) “sono” nella essenza divina, e così ciascun ente, senza che questo o quell’ente (in inglese: thing) sia l’essenza divina. Per evidenziare questa “differenza” – che è formale  e “non” reale – indico l’essenza divina come “ni-ente” (in inglese: no-thing). L’essenza divina è nulla, il niente. Ed è nulla poiché l’essenza divina è l’infinita possibilità di questo o quell’ente, senza che sia la sua determinata attualità o realtà.

In questo vediamo l’analogia con la fisica quantistica. Nella teoria quantistica dei campi, lo stato di vuoto quantistico, “quantum vacuum”, è lo stato quantistico con la più bassa energia possibile e definito come punto “zero”, così l’essenza divina è il “ni-ente”, il vuoto da cui emergono le forme, gli enti, le creature, che si riferiscono all’essenza divina.  Il passaggio dalla possibilità all’attualità “accade” nella mente divina, pura consapevolezza divina, da cui “emergono” le cose, gli enti, le creature. Poiché la pura consapevolezza dell’essenza divina non è “determinata” ma dà origine alla determinazione, non si può affermare che l’essenza divina sia necessitata a creare. Se lo fosse, significherebbe che l’essenza divina sia determinata, cioè ente tra gli enti, mentre l’essenza divina è ”ni-ente”, possibilità degli enti che sono sempre “determinati” dall’essenza divina dall’eternità. In questo preciso senso, le creature sono enti eterni che mai son nati e mai muoiono. Non sono provenienti dal nulla e al nulla ritornano, se non nel senso della essenza divina che è “ni-ente” delle determinazioni (cf le operazioni numeriche), ma rispetto a questo  o quell’ente, “è”. Puro essere di consapevolezza pura. Pura consapevolezza di assoluta libertà non necessitata a creare, poiché le creature “sono eternamente” nell’essenza divina.

Tutte le cose, e ciascun cosa, sono “modi”, “forme” – come direbbe Spinoza – modi della sostanza divina. Ma essendo modi, sono “relati” all’essenza divina. Le creature, gli intelligibili, non hanno una loro sussistenza. Ciò che sussiste è appunto la sostanza divina, la consapevolezza divina, la mente divina da cui emergono tutte le cose.

Tutte le cose sono sporgenze che appaiono e poi scompaiono; appaiono dal niente, se vogliamo così dire, dell’essenza divina, appaiono come ente e poi ritornano non nel niente ma nel ni-ente dell’essenza divina. Tale “apparire e non-apparire” è dal punto di vista del finito, della creatura – “sub specie creaturae” – ma dal punto di vista dell’essenza divina non c’è “passaggio” dall’apparire al non-apparire, perché tutto-è-presente – “sub specie dei” – alla mente divina. Il passaggio o divenire degli enti è la comprensione della nostra mente finita che “traduce” o “interpreta” la differenza formale tra essenza divina e creatura come differenza reale, e in tal modo, comprende le creature, cioè il mondo, “separato” ontologicamente da Dio. A questo riguardo, la mente “mente” sull’ente, poiché gli asserisce qualcosa che non è, cioè una provenienza dal nulla e un suo naufragare nel nulla, mentre non c’è né nascita, né morte, per chi si comprende non con/attraverso la mente “finita” ma nella mente divina. Nella pura consapevolezza, dalla prospettiva della mente divina, le cose non sono qualcosa che appaiono e poi scompaiono, ma le cose “sono” eternamente in quella essenza divina che è eterna e non diviene.

La mente divina può essere paragonata all’attività di un oceano, dove vi sono onde che appaiono e scompaiono. La mente divina può essere paragonata ad un cerchio e questo cerchio rappresenta l’infinità di questa essenza, non è un infinito “statico” ma è “dinamico”. La parola greca “dynamis” indica “la potenza”, la capacità, l’infinita “energia” dell’essenza divina. Questa energia è sede delle infinite potenzialità e possibilità (cf. dynamis) con cui la mente divina si esprime, si de-finisce, e definendosi, si determina. Ogni ente esprime la capacità dell’essenza divina, della potenza/potenzialità dell’essenza divina, l’infinita energia divina, che è infinita attività.  Quando diciamo e parliamo dell’Atto puro divino, che cosa intendiamo attraverso quell’aggettivo “puro”? Un’attività infinita della essenza divina che non è realizzata, nel senso che “realizzare” rimanda alla “res” alla cosa (in inglese: thing). L’essenza divina non è una cosa, ente, thing o res. La m-ente divina non mente. on una staticità; L’essenza divina è un’attività infinita della mente divina che è attività creatrice che fa essere le cose, e fa sì che le cose si facciano (cf. Teilhard de Chardin), cioè conferisce agli enti la potenza stessa dell’essenza divina. In questo e solamente in questo preciso senso, si può affermare che essenza divina è “onnipotente”, cioè che l’essenza divina è “onni-potente”. In latino la parola “onni-“ rimanda a “omnia”, tutte le cose. L’essenza divina è onni-potente, perché rende tutte le cose (omnia) potenti della stessa capacità creatrice che è attribuita alla essenza divina.

L’attività della “mente” divina si localizza in quella che chiamiamo la “mente” finita. La mente infinita si localizza, si finitizza, determina se stessa nel punto di vista del finito. La mente finita è la prospettiva con cui la creatura vede l’attività della mente divina e si relaziona alla mente divina attraverso l’interfaccia della propria corporeità, cioè il corpo. La “finitizzazione” e “localizzazione” della mente divina nella mente finita fa sì che la mente finita si comprenda come “distinta” (ma non staccata) dall’essenza divina oppure come “separata” da questa e dalla pura consapevolezza divina. Si decide qui il destino fondamentale della creatura. Vedere “sé” staccata dall’essenza divina, e così dalla molteplicità degli enti in cui l’essenza divina si esprime, oppure vede sé nell’essenza divina come sua espressione e gli altri enti come manifestazione (teofania) di questa. La mente finita può veder-si non-staccata” dall’essenza divina, se lascia essere e riflettere in sé questa essenza. Attraverso il “di-stacco” da sé e dalle creature rende possibile che il sé non si stacchi dall’essenza divina. Incominciare questo radicale e lento distacco dalle cose mette in luce come vi sia una sovrapposizione tra sé e l’immagine che il sé ha “prodotto” di sé. Questa produzione dell’immagine di sé è ciò che normalmente viene chiamato “ego”. Il risveglio inizia dallo svelamento a sé della immagine con cui il sé si è identificato. Riconoscere la propria immagine e lentamente/pazientemente distaccarsi da questa significa iniziare il cammino di liberazione e discernere l’essenza divina che siamo.

È questo il cammino spirituale che comporta inevitabilmente anche il distacco da quel “dio” da cui la creatura si sente, vede e percepisce come “separata”. La mente dualizzante vede l’essenza divina “in noi” fuori di noi, come Qualcosa, un Ente, benché supremo, tra gli enti. È il “dio” della religione che ci distacca dalla nostra essenza più vera.

Continuare a vivere “distaccati” dall’essenza divina significa pensare, sentire e vivere “attaccati” alla propria immagine, e quindi alle cose, con cui ci riflettiamo e ci cosifichiamo. Ci sentiamo realizzati, coltivando l’ignoranza della essenza divina che continuamente ci abita.

Il pensare, sentire e vivere distaccati dall’essenza divina ci rende “separati” da noi stessi e dal mondo. Che cos’è il mondo fisico? Il mondo materiale esterno, fisico, non è altro che l’attività della mente divina vista a partire dalla mente finita, cioè a partire da un punto prospettico che è quello dell’io psicofisico, cioè l’ego. Questa realtà che emerge attraverso la dualizzazione della mente costituisce una specie di filtro. La mente dualizza l’attività della essenza divina che tutto interconnette. L’attività dualizzante della mente filtra e media l’unità dell’essenza divina, per cui il mondo che “io sono” viene compreso e visto come mondo fisico. Le nostre percezioni ed emozioni, le nostre sensazioni e i nostri pensieri, sono l’espressione della “mente” (finita). La mente “proietta” e “sovrappone” sull’unità essenziale della realtà qualcosa di molteplice, contraddistinto dalla separazione degli enti tra di loro, da noi stessi e da Dio. La mente “comprende” – a motivo di e attraverso il filtro della sua attività dualizzante – la molteplicità dell’infinita espressione dell’essenza divina come qualcosa di separato.

La corporeità gioca un ruolo essenziale in questa attività dualizzante della mente che separa e interrompe l’unità essenziale del tutto. Il nostro corpo, infatti, dà origine alla demarcazione tra il dentro e il fuori, tra me e il mondo, tra soggetto e oggetto. Benché siamo circondati e abitiamo nell’essenza divina, il nostro corpo demarca e delimita chi siamo. Tra mente e corpo c’è un’intrinseca relazione. Dove c’è il corpo, c’è la mente. Dove c’è la mente, c’è anche il corpo con le sue sensazioni e percezioni, emozioni e pensieri. L’io psico-fisico (ego) emerge da questa stretta appartenenza del corpo alla mente, e viceversa.

Da una parte la mente divina continuamente “agisce” nella realtà, poiché la realtà è l’attività della mente divina. Dall’altra parte, delimitando se stessa attraverso il corpo, la mente finita esperimenta questa attività della mente divina come la pressione di un mondo “esterno”. Per la mente “de-limitata”, l’attività della mente divina è vissuta come una pressione a cui la mente finita fa resistenza. Ci sentiamo così “separati” dal mondo “esterno”, da noi stessi – il mondo “interno” –e dall’essenza divina, vista come un Ente (il dio) fuori di noi e dal mondo.

Questo mondo esterno ha certamente una sua dimensione fisica, perché è la rappresentazione dell’attività della mente divina a partire dalla prospettiva della mente finita. Ma di fatto questo mondo esterno è, nella sua realtà più profonda, “qualcosa” di astratto. La mente continuamente astrae dall’attività divina che è la realtà, rappresentandosi questa come un mondo astratto, fatto di equazioni e informazioni. Il mondo fisico è pura rappresentazione mentale. È la mente divina che viene rappresentata alla mente come qualcosa di fisico.

A questo punto chiediamoci. Che cos’è mai questa mente divina che ci circonda? Non è altro che la realtà dell’Io Sono. Ecco, l’Io Sono è la realtà profonda, la soggettività sostanziale di cui “io” e “il mondo” è fatto. La dimensione profonda della realtà è spirituale e non è affatto statica, ma dinamica e attiva.

Come avevo già accennato prima, la mente divina – cioè l’Io Sono – si localizza, si de-finisce e dà vita a quello che noi normalmente chiamiamo appunto l’attività cerebrale. Il cervello è la localizzazione corporea dell’oceano infinito della mente divina.

La diga della delimitazione corporea dà origine ad un bacino che è la nostra mente. Questa localizzazione dell’Io Sono attraverso il corpo fa sì che lo Spirito infinito diventa da Spirito il “mio” spirito. Questo “spirito” si esprime nella complessa attività cerebrale, così come ci spiegano non soltanto i neurologi ma anche i filosofi della mente. Si dà origine all’ego che è principio organizzativo della realtà. L’ego è la risultante dell’attività neurologica, della complessità neurologica cerebrale, a motivo del gioco delle sinapsi e delle intercomunicazioni neurologiche.

L’ego è principio organizzatore sia di ciò che è il mondo interiore che di quello esteriore. Contemporaneamente all’emerge dell’unità egoica, c’è anche l’apparire di un mondo: il mio mondo fisico. L’attività cerebrale organizzatrice dell’ego, espressa dalla complessità dell’attività neuronale, in alcune situazioni può “diminuire”, rendendo così possibile che la diga, il limite posto dalla mia corporeità e che è all’origine della demarcazione tra “dentro” e “fuori”, il mio “io” e il mondo, perde di consistenza, abbia delle falle e faccia comunicare il mondo interiore con quello esteriore.

Tale diminuzione dell’attività cerebrale disintegra la divisione tra il mondo interno cerebrale e il mondo esterno. Il mondo esterno non è più percepito come “fuori-da-me” ma una cosa sola con il mio mondo “interiore”. È l’esperienza della unità profonda o comunione con il tutto.   

Quand’è che questo avviene? Avviene in vari modi: nel momento in cui l’attività cerebrale diminuisce, si intensifica la comunicazione appunto con quel mondo, tra virgolette, “esterno” che è la pura consapevolezza. È “esterno” perché così ce lo rappresentiamo, mentre è della stessa “stoffa” di cui siamo fatti. L’essenza di quel mondo “fisico” è percepibile da quel soggetto che è certamente fisico – io sono un essere corporeo e parte del mondo fisico – ma capace di cogliere la natura di questa fisicità “rappresnetata” attraverso l’attività di auto-consapevolezza. Io sono la realtà fisica che “sa” di se stessa. Sa di essere nonmateriale, ma mentale. Io sono un essere spirituale che attinge nelle sue profondità l’essenza divina in cui tutta la realtà è costuituita.

La riduzione dell’attività cerebrale che avviene della meditazione, ma anche nelle esperienze di pre-morte, è indicazione di quanto qui si è detto. Tra queste, ci sono anche le esprienze psichedeliche, come testimoniano i recenti studi. Si è potuto constatare, infatti, che in coloro che hanno assunto sostanze psichedeliche diminuisce l’attività cerebrale, e con questa diminuzione, si intensifica la capacità esperienziale dei soggetti, come è attestata nei resoconti scientifici.

Anche nell’esperienza mistica o di intensa meditazione corrisponde alla diminuzione dell’attività cerebrale una intensa esperienza soggettiva. Questi sono fenomeni importanti che bisogna ancora studiare di più ma ci attestano che laddove vien meno l’attività organizzatrice della mente, l’ego si disintegra e si dissolve nella mente divina.  

Questa dissoluzione dell’ego avviene certamente nell’esperienza della morte. Nell’esperienza della morte si dissolve l’ego nella sua dimensione psicofisica. Il venir meno di questo ego, attraverso la corruzione del corpo, cioè della barriera delimitante l’interno e l’esterno, rende possibile la realizzazione dell’Io Sono. Certamente permane la distinzione e la molteplicità nell’Io Sono, come l’onda permane nell’oceano, ma non è più compresa a partire dalla realtà psicofisica, ma dalla realtà dell’Io Sono. L’ego diventa il sé, espressione del Sé.

Il modello quantistico, a cui accennavamo all’inizio, ci permette di capire che la mente divina può essere vista in maniera analoga allo sfondo della realtà, profondità di possibilità, punto zero, “quantum vacuum”, da cui emergono tutte le cose. La mente divina è il luogo – lo dico in maniera metaforica – in cui tutte le cose sono, le creature sono, e sono in quanto riferite all’essenza divina eterna. Sono eterne – le creature – poiché “sono” manifestazione dell’essenza divina.

Questa è la proposta e l’intenzione del monismo relativo: far comprendere dal punto di vista ontologico che la realtà più profonda, ciò che analogicamente i modelli della fisica quantistica lo studio della spiritualità non duale, ci fanno comprendere.

Dualità / Nondualità

L’immagine rappresenta un confronto tra due prospettive filosofico-teologiche distinte: “Dualità” e “Nondualità”, ciascuna con implicazioni ontologiche e metafisiche sul rapporto tra le creature e Dio. Queste due visioni rispecchiano due modalità differenti di intendere la relazione tra il mondo creato (la molteplicità delle creature) e l’essenza divina.

“Dualità” (sub specie hominis)

Nella parte sinistra del diagramma, troviamo il concetto di “Dualità”, qui definito come “sub specie hominis”, ovvero dal punto di vista umano. Questo approccio mette in evidenza una netta distinzione tra la “molteplicità delle creature” e l’“Essenza di Dio”.

– “Molteplicità delle creature”: Rappresentata da una moltitudine di piccoli punti colorati, questa parte simboleggia la diversità e la pluralità delle forme di vita e delle entità create, tutte esistenti separatamente.

– “Essenza di Dio”: Rappresentata da un blocco giallo chiaro, l’Essenza di Dio è posta in un rettangolo separato dalla molteplicità delle creature, suggerendo che Dio e la creazione siano essenzialmente distinti e separati.

– “Interpretazione teologica”: Le creature, in questo paradigma dualistico, sono considerate “fuori” di Dio, ossia esistono in modo autonomo rispetto all’Essenza divina. Sono “distinte realmente (in re)” e “ontologicamente separate” da Dio. Questo significa che, pur dipendendo da Dio per la creazione, le creature hanno un’esistenza indipendente e distinta da Dio, in linea con la visione classica teista dove Dio crea il mondo e lo mantiene, ma rimane separato da esso.

“Nondualità” (sub specie dei)

Nella parte destra del diagramma, troviamo invece il concetto di “Nondualità”, qui definito come “sub specie dei”, cioè dal punto di vista di Dio. Questo approccio dissolve la separazione tra la molteplicità delle creature e l’Essenza di Dio.

– “Molteplicità delle creature”: Anche qui è presente la stessa varietà di punti colorati, ma in questo caso, la molteplicità delle creature è “immersa” nell’Essenza di Dio. I punti, infatti, sono sovrapposti e quasi fusi con lo sfondo giallo, indicando una mancanza di separazione ontologica.

– “Essenza di Dio”: Non c’è più un blocco separato come nella dualità, ma l’Essenza di Dio avvolge e contiene la molteplicità delle creature, suggerendo che tutte le cose esistono in Dio e come parti dell’essenza divina stessa.

– “Interpretazione teologica”: In questa prospettiva non dualistica, le creature sono viste come “idee nella Mente di Dio”, esistendo “in Dio”. Sono distinte “formalmente (in ratio)”, cioè dal punto di vista logico o concettuale, ma non “realmente” da Dio. In altre parole, le creature non hanno una separazione ontologica dall’Essenza divina: ciò che esiste, esiste in Dio e come una manifestazione di Dio stesso. Questa visione è più vicina al panenteismo o a certe tradizioni mistiche, dove il creato è una manifestazione del divino e non separato da esso.

Confronto tra “Dualità” e “Nondualità”

1. “Distinzione Ontologica vs. Fusione Ontologica”:

   – Nella “Dualità”, c’è una chiara separazione ontologica tra le creature e Dio: le creature esistono “fuori” da Dio e hanno una loro individualità distinta. Dio è il creatore, ma distinto dalla sua creazione.

   – Nella “Nondualità”, al contrario, le creature sono immerse nell’essenza divina. Non c’è una vera separazione ontologica, poiché tutto esiste all’interno e come parte di Dio stesso.

2. “Prospettiva Umana vs. Prospettiva Divina”:

   – La “Dualità” è definita come “sub specie hominis”, cioè vista dal punto di vista dell’uomo. Gli esseri umani percepiscono se stessi e il mondo come separati da Dio, coerentemente con un approccio che enfatizza l’individualità e la distinzione tra creatore e creatura.

   – La “Nondualità” è “sub specie dei”, ovvero dal punto di vista divino. Dal punto di vista di Dio, non esiste una vera separazione tra la creazione e Dio stesso; tutto è parte della sua essenza. Questo implica una visione della realtà come un tutt’uno, dove Dio e la creazione sono inestricabilmente legati.

3. “Implicazioni esistenziali e religiose”:

   – La “Dualità” porta a un approccio più classico al rapporto tra Dio e le creature, dove l’essere umano è distinto da Dio e deve cercare una relazione con Lui dall’esterno. C’è una separazione da colmare attraverso la preghiera, l’adorazione e la mediazione.

   – La “Nondualità”, invece, suggerisce che la relazione con Dio è già intrinseca, poiché ogni creatura è parte della mente divina. Non esiste una separazione da colmare, ma solo una realizzazione della propria unità con Dio. Questo tipo di visione è più comune nelle tradizioni mistiche e contemplative.

Conclusione

L’immagine esplora il contrasto tra due visioni fondamentali della realtà: una “dualistica”, dove Dio e le creature sono essenzialmente separati, e una “nondualistica”, dove ogni cosa esiste in Dio e come manifestazione di Dio. Dal punto di vista umano, la separazione è evidente (dualità), mentre dal punto di vista divino, tutto è interconnesso (nondualità). Queste due prospettive non si escludono necessariamente a vicenda, ma offrono due modalità diverse di interpretare la relazione tra il creatore e la creazione.

Scientia ancilla theologiae?

L’immagine illustra il cambiamento in atto nella relazione tra la filosofia/scienza e la teologia, evidenziato dalle frasi chiave: “Philosophia (scientia) ancilla theologiae” e “Philosophia (scientia) amica theologiae”.

Da una citazione biblica (Gv 15,15):


La citazione è molto significativa e introduce il tema della trasformazione relazionale: “Non vi chiamo più servi, ma amici”. In questo contesto, Gesù parla ai suoi discepoli, spiegando che non li considera più come semplici servitori, ma come amici, confidando in loro il progetto divino. Questo passaggio dalla subordinazione all’amicizia introduce il concetto centrale dell’immagine: la transizione della filosofia/scienza da “ancella” a “amica” della teologia.

“Philosophia (scientia) ancilla theologiae”:

    • “Ancilla” (in latino, “serva”) riflette una concezione storica medievale secondo cui la filosofia, e in seguito la scienza, era subordinata alla teologia. Durante il Medioevo, in particolare con pensatori come Sant’Anselmo e Tommaso d’Aquino, la filosofia era vista come uno strumento utile per sostenere e spiegare la teologia. La filosofia, dunque, serviva a illuminare e chiarire i concetti teologici, ma era considerata inferiore e subordinata.
    • L’idea di filosofia come “ancilla” implica una dipendenza gerarchica, in cui la filosofia/scienza esisteva per supportare le verità teologiche, ma non per aggiungere indipendentemente nuove conoscenze o sfidare l’autorità della teologia.

    Freccia verso il basso:
    La freccia rappresenta la transizione da un paradigma antico a uno nuovo. Il movimento discendente suggerisce che non si tratta semplicemente di un rifiuto della concezione precedente, ma piuttosto di un’evoluzione in una relazione più paritaria tra filosofia/scienza e teologia. La freccia può anche simboleggiare un progresso o un avanzamento nella comprensione della natura della conoscenza e delle discipline. “Philosophia (scientia) amica theologiae”:

      C’è un cambiamento di paradigma nella comprensione delle relazioni tra queste discipline. Non c’è più una gerarchia rigida, ma una nuova visione in cui filosofia/scienza e teologia possono coesistere come partner alla pari. Questo nuovo paradigma riconosce l’importanza sia della ricerca scientifica e filosofica che della riflessione teologica. Entrambe le discipline contribuiscono alla comprensione della realtà, e possono imparare e beneficiare l’una dall’altra.

      L’immagine rappresenta una riflessione sul cambiamento storico nella relazione tra la filosofia/scienza e la teologia. Il passaggio dalla subordinazione (ancilla) all’amicizia (amica) simboleggia un nuovo approccio alla conoscenza, in cui teologia e filosofia/scienza collaborano come pari. Questo suggerisce un riconoscimento della validità delle discipline scientifiche e filosofiche nel dialogo con la teologia, eliminando la visione di una scienza o filosofia subalterna alla religione, e puntando verso una collaborazione costruttiva per comprendere la realtà più profondamente.

      L’età in cui stiamo vivendo – dopo il Concilio Vaticano II – sta promuovendo un’idea di dialogo interdisciplinare in cui scienza, filosofia e teologia lavorano insieme in una relazione paritaria, superando un vecchio schema di subordinazione e inaugurando un nuovo paradigma di reciproca influenza e cooperazione. È un dialogo che Papa Francesco precisa ulteriormente con la categoria di “trans-disciplinarietà”

      Trans-disciplinarietà

      Nella lettera apostolica Ad theologiam promovendam, Papa Francesco sottolinea che “l’arduo compito per la teologia è di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica.”[1] Il diagramma di Venn qui rappresentato mostra come la “relazione” sia la categoria a cui fanno riferimento le varie discipline.


      Analisi dei concetti principali:

      1. “Teologia”:

         – Posizionata in alto, la teologia è legata alla concezione di Dio come “”Dio Uni-trino”“ (probabile riferimento alla Trinità cristiana) e si occupa di temi come la “creazione”, la “cosmologia” e l’“antropologia”.

         – La teologia si sovrappone con “Filosofia”, “Spiritualità”, e “Scienza”, indicando che i concetti teologici sono collegati alla visione filosofica dell’essere, alla spiritualità e alla connessione con le scienze moderne (fisica quantistica).

         – La sovrapposizione con la spiritualità include la dimensione mistica e lo spirito, mentre con la scienza tratta questioni sull’origine dell’universo e la mente, suggerendo che anche questioni spirituali e teologiche possono essere studiate scientificamente.

      2. “Filosofia”:

         – La filosofia è legata al concetto di “”Essere”“, ovvero la ricerca sulla natura fondamentale dell’esistenza. Si interseca con la “Teologia”, la “Scienza” e in parte la “Spiritualità”, sottolineando che le indagini filosofiche toccano temi spirituali, scientifici e teologici.

         – Nella sovrapposizione con la teologia, la filosofia indaga questioni sull’essere di Dio e la relazione tra il creato e il creatore. Con la scienza, affronta temi relativi alla mente e alla coscienza, suggerendo che la filosofia esplora anche concetti come l’origine dell’universo e la natura della realtà, intrecciandosi con la fisica quantistica.

      3. “Scienza”:

         – In basso, la scienza è rappresentata con un focus sulla “”Fisica Quantistica”“, una disciplina che sfida molte delle concezioni tradizionali del mondo fisico. La scienza si interseca con la filosofia, la spiritualità e la teologia, mostrando come le scoperte scientifiche moderne affrontino questioni fondamentali su energia, vita, mente e cosmo.

         – Nella sovrapposizione con la spiritualità, la scienza esplora concetti legati alla “vita” e all’“energia”, suggerendo che anche questi fenomeni possono essere studiati scientificamente, pur mantenendo una componente spirituale.

         – La sovrapposizione con la filosofia e la teologia indica che la scienza e queste discipline condividono il desiderio di comprendere il funzionamento dell’universo e della coscienza, indicando un’interconnessione tra pensiero filosofico, religioso e scientifico.

      4. “Spiritualità”:

         – A sinistra, la spiritualità è associata al concetto di “”Spirito”“ e si interseca con la “Teologia”, la “Scienza” e la “Filosofia”. Essa comprende la dimensione mistica e trascendente, ma si sovrappone anche alla scienza per quanto riguarda l’energia e la vita.

         – La sovrapposizione con la teologia evidenzia l’aspetto “mistico”, in cui lo spirito è centrale. Con la scienza, la spiritualità si collega alla vita e all’energia, suggerendo che lo spirito e la materia possano essere visti come due aspetti interconnessi della stessa realtà.

      Sovrapposizioni e Relazioni:

      1. “Teologia e Filosofia”:

         – La sovrapposizione tra teologia e filosofia riguarda la ricerca sull’essere e sul creato. Le due discipline si occupano di questioni fondamentali su Dio, la creazione e l’esistenza stessa, dimostrando che i confini tra pensiero teologico e filosofico sono sfumati.

      2. “Teologia e Spiritualità”:

         – La teologia e la spiritualità si sovrappongono sul concetto di “misticismo” e “spirito”. Questo suggerisce che, oltre alla dottrina, la teologia abbraccia anche un’esperienza personale del divino, in cui la spiritualità assume un ruolo fondamentale nel modo in cui le persone percepiscono Dio.

      3. “Teologia e Scienza”:

         – Teologia e scienza si sovrappongono nel campo della “cosmologia” e delle origini dell’universo, così come nel rapporto tra mente e cervello. Questo potrebbe riflettere l’interesse per le questioni cosmologiche e la ricerca su come mente e spirito interagiscano con la realtà fisica.

      4. “Filosofia e Scienza”:

         – La filosofia si sovrappone alla scienza nel contesto della “mente” e dell’“origine dell’universo”, suggerendo che entrambe le discipline indagano la natura della coscienza e l’origine della realtà. La filosofia cerca di comprendere i concetti che stanno dietro ai fenomeni studiati dalla fisica quantistica.

      5. “Scienza e Spiritualità”:

         – La sovrapposizione tra scienza e spiritualità evidenzia la connessione tra “vita” ed “energia”, suggerendo che la scienza può esplorare questi concetti attraverso la fisica, mentre la spiritualità li interpreta come manifestazioni dello spirito o della coscienza universale.

      6. “Filosofia e Spiritualità”:

         – Nella loro sovrapposizione, la filosofia e la spiritualità si occupano del “senso dell’essere” e della natura dell’esperienza spirituale. La filosofia cerca di dare un fondamento concettuale a molte delle esperienze spirituali e ai concetti di trascendenza.

      Centro del diagramma: “Realtà/Relazione”:

      Al centro del diagramma c’è il concetto di “”Realtà”“ o “”Relazione”“, che funge da punto di intersezione tra tutte le discipline. Ciò suggerisce che, nonostante le differenze tra teologia, filosofia, scienza e spiritualità, tutte queste discipline cercano di comprendere la realtà e la relazione tra i diversi aspetti dell’esistenza (materiale, spirituale, mentale).

      Scala laterale: Materia e Idealismo:

      Come nel diagramma precedente, sulla destra troviamo una scala che va dalla “Materia/Fisicalismo” (in basso) fino all’”Idealismo” (in alto). Questo rappresenta una progressione che va dalle concezioni più fisiche della realtà verso visioni più immateriali o spirituali. Anche qui, si suggerisce che la “fisica quantistica” e i concetti di “mente” e “coscienza” fungano da ponte tra il mondo materiale e quello ideale o spirituale.

      Conclusione:

      Il diagramma rappresenta una visione trans-disciplinare che collega le varie discipline del pensiero umano (teologia, spiritualità, filosofia e scienza), mostrando come esse si sovrappongano in modo significativo attorno al concetto centrale di “Realtà” e “Relazione”. Le sovrapposizioni mostrano chiaramente cosa è la “trans-disciplinarietà”. Nel Proemio alla Veritatis gaudium (n. 3), Papa Francesco sottolinea che è necessario riscoprire “il principio dell’interdisciplinarietà: non tanto nella sua forma ‘debole’ di semplice multidisciplinarità, come approccio che favorisce una migliore comprensione da più punti di vista di un oggetto di studio; quanto piuttosto nella sua forma ‘forte’ di transdisciplinarità, come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio”[2]. Le varie discipline, sebbene distinte, condividono domande e preoccupazioni simili riguardo alla natura dell’esistenza, dell’essere e del cosmo, suggerendo che una comprensione completa della realtà richiede il dialogo e l’integrazione di più prospettive. Con tale metodo epistemologico la teologia esce da una sua auto-referenzialità, e si pone non solo in ascolto degli altri sapere ma si lascia permeare da questi, pur mantenendo la loro differenza epistemica.


      [1] Papa Francesco, Lettera apostolica in forma di Motu Proprio di Papa Francesco Ad theologiam promovendam 2023.Ognuna di queste aree esplora una diversa prospettiva su aspetti fondamentali dell’esistenza, ma ci sono delle sovrapposizioni che evidenziano il dialogo tra queste discipline.

      [2] Papa Francesco, Veritatis gaudium, Proemium, 4c; Papa Francesco, Discorso del Santo Padre Francesco ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 2022.

      Orientarsi tra i post-teismi

      Il diagramma di Venn rappresenta diverse concezioni filosofiche e religiose che si intersecano attorno al concetto di “φύσις” (natura), suggerendo una rete di relazioni e sovrapposizioni tra idee legate al divino, alla realtà e alla natura. Tale diversità rende ragione della pluralità delle forme di post-teismo che sono attualmente presenti nel panorama contemporaneo.

      Analisi dei singoli concetti:

      1. “Monismo (Relativo)”:

         – Posizionato in alto, rappresenta una visione in cui tutta la realtà è riconducibile a un unico principio fondamentale. Il termine “relativo” indica che questa unità non è assoluta, ma contestualizzata rispetto ad altre dottrine.

         – Il “Monismo” si sovrappone al “Panenteismo” e al “Post-teismo”, indicando che condivide elementi con queste due visioni: l’idea di un’unica realtà fondamentale (Monismo) si intreccia con l’idea che Dio sia sia trascendente sia immanente (Panenteismo) e con un approccio che va oltre il teismo tradizionale (Post-teismo).

         – Tuttavia, “non si interseca con il Naturalismo religioso”, suggerendo che il monismo non abbraccia una visione esclusivamente naturalistica della realtà e si distanzia da una concezione della natura come unica e ultima fonte di sacralità.

      2. “Panenteismo”:

         – Situato a sinistra, il Panenteismo sostiene che Dio è immanente nell’universo ma anche trascendente. Si sovrappone significativamente con il “Monismo” e il “Naturalismo religioso”, indicando che ha punti di contatto con l’idea di una realtà unitaria e al tempo stesso con una visione che vede la natura come sacra.

         – La sovrapposizione con il “Post-teismo” suggerisce che il panenteismo include anche un’evoluzione rispetto al teismo tradizionale, integrando idee di divinità che vanno oltre il Dio personale.

      3. “Post-teismo”:

         – Situato a destra, il Post-teismo rappresenta una visione filosofica che va oltre la concezione tradizionale di Dio. Si sovrappone al “Monismo”, suggerendo che l’idea di un’unica realtà può evolvere o trasformarsi in una visione post-teistica, in cui il divino non è più visto come un’entità separata o personale.

         – La sua sovrapposizione con il “Panenteismo” mostra che anche dopo il teismo tradizionale rimane uno spazio per una concezione del divino che pervade tutto ma che non si limita a una singola entità divina tradizionale.

      4. “Naturalismo religioso”:

         – Posizionato in basso, il Naturalismo religioso rappresenta una visione del sacro incentrata sulla natura stessa, senza ricorrere a entità trascendenti. Si sovrappone con il “Panenteismo” e il “Post-teismo”, ma non con il “Monismo”.

         – Questo indica che, pur condividendo con il panenteismo l’idea che la natura possa essere permeata dal divino, e con il post-teismo un rifiuto di Dio come entità personale tradizionale, il naturalismo religioso si distingue dal monismo perché non abbraccia un principio unificante che trascende la natura stessa. In altre parole, mentre il monismo cerca un principio unico dietro tutta la realtà, il naturalismo religioso si limita a vedere la natura come l’unico fondamento sacro.

      Sovrapposizioni e relazioni:

      1. “Monismo e Panenteismo”:

         – La sovrapposizione tra questi due concetti suggerisce che entrambi condividono l’idea di una realtà unitaria che include tutto ciò che esiste. Tuttavia, il “Monismo” potrebbe interpretare questa unità in modo più assoluto, mentre il “Panenteismo” permette l’idea che Dio sia sia immanente che trascendente.

      2. “Monismo e Post-teismo”:

         – L’intersezione tra queste due visioni indica una relazione filosofica dove il post-teismo evolve dalla visione monistica di un unico principio, ma rifiuta l’idea di Dio come entità personale. Questo può suggerire una continuità tra il pensiero monistico e le versioni più evolute del pensiero religioso, come il post-teismo.

      3. “Panenteismo e Naturalismo religioso”:

         – Questi due concetti si sovrappongono in modo significativo, indicando che entrambi riconoscono la natura come un elemento fondamentale di sacralità. Tuttavia, mentre il “Panenteismo” include un Dio che è trascendente e immanente, il “Naturalismo religioso” si ferma alla natura come realtà ultima, senza bisogno di riferirsi a un principio divino trascendente.

      4. “Post-teismo e Naturalismo religioso”:

         – Anche qui troviamo una sovrapposizione che riflette una comunanza nella critica al teismo tradizionale. Tuttavia, il “Post-teismo” potrebbe mantenere l’idea di un divino, anche se ridefinito, mentre il “Naturalismo religioso” si concentra sulla sacralità intrinseca della natura stessa.

      Colonna laterale: Materia e Idealismo

      A destra, c’è una scala che va dal “Materia/Fisicalismo” (in basso) allo “Spirito/Consapevolezza/Mente/Idealismo” (in alto). Questa scala rappresenta una progressione che passa da una visione materialistica della realtà a una più immateriale e idealistica. Probabilmente, suggerisce un continuum concettuale tra le visioni più fisiche della realtà, come il “Naturalismo religioso” e il “Panenteismo”, e quelle più astratte, come il “Monismo” e il “Post-teismo”.

      Commento finale:

      Il diagramma mostra chiaramente come concetti diversi di realtà e divino si intersecano e si influenzano reciprocamente. La “φύσις” al centro funge da punto di riferimento per tutte queste visioni, che differiscono nel modo in cui vedono la relazione tra natura, divino e realtà unitaria. Il “Monismo” rimane separato dal “Naturalismo religioso” perché si basa su una realtà unitaria trascendente, mentre il “Naturalismo religioso” riconosce la sacralità del mondo naturale senza andare oltre. Tale diverse concezioni modellano varie forme di post-teismo .

      Un modo di pensare il post-teismo

      Le tre fasi. Ogni essere creato, senziente – cosciente – autocosciente, è spinto a trascendere se stesso. È in quanto è capace di andare “oltre”-di-sé. Cosa è mai questo “oltre” a cui tende e come pensarlo?

      1. Questo “oltre” è inizialmente pensato come il “non” del finito. È l’infinito come “non-finito” . Ciò che non è ancora il finito ma a questo oltre tende. L’Oltre è pensato alla stregua di qualcosa che pur sempre è “finito”. È l’infinito come il non-finito del finito. Quando si parla di energia cosmica o del cosmo stesso come l’Oltre c’è il rischio di comprendere questo “oltre” come qualcosa che è ancora “finito”, immanente al mondo stesso e “non-altro dal mondo”. Questo primo modo di intendere l’Oltre esprime il “naturalismo religioso” come in Aldous Huxley o Carl Sagan.
      2. Un altro modo di intendere l’Oltre è quello del teismo. Il teismo vuole salvaguardare la differenza (ontologica) dell’Oltre, ponendolo “fuori” dal mondo, separato dal mondo. In tal modo, perché Dio – che è l’Oltre – possa farsi “presente” al mondo deve “intervenire” (dall’alto) di volta in volta. L’incarnazione è l’evento sommo di questo “intervento divino”. Dio è sì immanente (presente come causa creante in tutte le cose), ma allo stesso tempo è radicalmente trascendente. Il teismo concepisce l’Oltre come “altro-dal-mondo”.
      3. Il terzo modo di intendere l’Oltre è quello del post-teismo, almeno nella versione che sembra a me più convincente. L’Oltre ( = Dio) è l’infinito in cui è il finito con la sua auto-trascendenza. Dio non è semplicemente il nome per indicare la dimensione sacra del mondo (Stuart Kaufman). Dio non è Colui che è separato e Creatore del mondo e che interviene nel mondo e nella storia degli uomini. L’Oltre ( = Dio) è la Presenza trascendente, l’Atto puro dell’essere (Tommaso d’Aquino), il fondamento del mondo (Paul Tillich), la potenzialità infinita (il “possest” di Nicolò Cusano). Nell’infinito “sta”, “è” il finito ma non come in un contenitore, ma come goccia nel mare, la concentrazione di tutti i punti di una circonferenza in un punto solo.

      L’Oltre, l’Infinito non è né Qual-cosa (naturalismo religioso), né Qualc-uno (tesimo religioso). Per il post-teismo – così come l’intendo – è l’Oltre, è l’Infinito personalizzante di ogni cosa. Più che “persona” è un “personare” (se così si può dire il verbo del sostantivo “persona”) poiché Dio non è l’Ente supremo ma l’Essere sussistente (Ipsum esse subsistens). Non è solo un “Tu” ma ancor più un “Io Sono”. Con le parole del Cusano, l’Oltre per il post-teista è il “non-altro” dell’assolutamente Altro (teismo) senza essere nient’altro che il mondo (naturalismo religioso).

      Questo per me è un modo tra i molti per pensare il post-teismo.