
Immaginatevi i momenti che precedono l’inizio di una esecuzione musicale. Prima dell’ingresso del direttore d’orchestra in una sala da concerti. Ebbene questi momenti fanno parte in realtà del concerto stesso. L’attesa viene interrotta (quando il pubblico ha ormai preso posto in platea e nelle gallerie o nei palchi) da una flebile nota di un oboe che quasi nessuno riesce a percepire se non, forse, un orecchio “assoluto”.
È il primo segnale di vita dell’orchestra, è il “la” che l’oboe suggerisce timidamente al primo violino che insiste sulla nota facendo scorrere a lungo l’archetto su una delle quattro corde dello strumento. È, questo, il momento cruciale dell’accordatura di tutti gli strumenti che intervengono, settore dopo settore, creando lunghi momenti di anarchia musicale, una sorta di caos armonico nella cornice della sua apparente disarmonia.
Un’“esplosione” di suoni che ci ha più di una volta fatto venire alla mente il caos della creazione, il mito della nascita del mondo e delle stelle. “To-hu, wa-bo-hu”. Senza forma e vuoto. Dice il Genesi 1:2. “Te-hom”. Abisso senza forma, senza melodia.
L’onda confusa dei suoni, delle note che non trovano un accordo, un’armonica intesa, si placa poi lentamente fino a trasformarsi in silenzio, la “nota” che non si sente ma dalla quale tutto comincia e nella quale tutto finisce. “Un vento di Dio [cioè fortissimo] si agitava sulla faccia dell’acqua” (Gen 1:3). “Ye’hi Or”. Sia la luce. Dio disse.
TEMPO DI INQUIETUDINE
Al centro di ogni crisi
c’è uno spazio interiore
così profondo, così invitante,
così improvvisamente e audacemente vasto,
che sembra un universo,
sembra Dio.
Quando l’impensabile accade
e non si placa,
cadiamo attraverso la nostra arroganza
verso un flusso interiore,
un’oscurità duratura e rinascente
che ci fa sentire a casa.
—Barbara Holmes, “What Is Crisis Contemplation?”
La crisi inizia senza preavviso, manda in frantumi le nostre convinzioni su come funziona il mondo e cambia la nostra storia e le storie dei nostri vicini. La realtà che ci era così familiare è improvvisamente scomparsa e non sappiamo cosa sta succedendo. Ritorna il caos. “To-hu, wa-bo-hu”. Abisso, senza melodia.
All’improvviso le nostre routine quotidiane e i nostri sogni di ordine e stabilità sono interrotte e la nostra illusione di normalità vanno in frantumi. La nostra vita “ordinaria” viene interrotta da circostanze fuori dall’ordinario. Mi riferisco a oppressione, violenza, pandemie, abusi di potere o disastri naturali e perturbazioni planetarie.
Fino al momento in cui inizia la crisi, ti senti relativamente al sicuro e sistemato. All’improvviso, tutto cambia. Vieni rapito dal tuo villaggio, dalla tua casa, e ti trovi messo in catene e caricato su navi dirette nelle Americhe per essere venduto come schiavo. Oppure, vieni rastrellato, messo su treni diretti a un campo di sterminio tedesco: Auschwitz, Treblinka, Bergen-Belsen o Dachau. Oppure, fuggi dal tuo paese perché la tua vita e della tua famiglia è minacciato per le persecuzioni politiche nel tuo paese, o dalla fame e dalla mancanza di lavoro, e ti trovi sbattuto in un campo profughi o internato da qualche parte in Albania. Oppure all’improvviso l’incanto della tua città, Kyev in Ucraina, con la cupola dorata della sua cattedrale di Santa Sofia, viene distrutta bombarda, e tu devi fuggire via, senza sapere dove andare. Oppure sei palestinese, e avevi di nuovo trovato il coraggio a ricostruire la tua casa e la tua vita quotidiana, pezzo dopo pezzo, e all’improvviso tutto di nuovo è annientato e ti senti distrutto fuori e dentro di te.
Dal disaccordo degli eventi e dall’inquietudine che ci rende vulnerabili, quasi distrutti, rispunta l’inizio di un accordo, ancora una volta rispunta la voglia di vivere. Ferita che è feritoia
È una crepa, la rottura e la frantumazione del sé, della tua comunità, delle aspettative e delle presunzioni su come funziona il mondo, e ancor più la tua vita.
“Tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto” (Romani 8, 20).
Dopo l’urlo primordiale, sprofondati nell’abisso dell’ignoto, e dopo la necessità di sopravvivere insieme al trauma, attraverso tutto questo, riemerge l’inizio di un accordo.
“Lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili, e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito” (Rom 8:26-27).
Lo scrittore francese Julien Green così scrive: «finché sono inquieto posso stare tranquillo».
Viviamo inquieti, abitando una terra che è senza forma, avvolta dalle tenebre e sull’orlo di un abisso. L’inquietudine delle acque. L’onda confusa dei suoni, delle note che non trovano un accordo
E poi dal Silenzio tutto inizia con un tocco. In principio. Qualcosa o Qualcuno che le religioni hanno dato il nome di Dio o Vuoto.
«Non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti”. Dice Papa Francesco. Inquietudine, Pazienza, Silenzio
In questa inquietudine del nostro tempo possiamo ascoltare il suono che dall’abisso emerge, la Nota, la Voce. Lo Sguardo che mi guarda, perché ha a che fare con Me. Mi riguarda.
Così annota nel suo diario, 8 giugno 1941, una domenica mattina, alle nove e mezzo, Etty Hillesum, deportata nel campo di sterminio di Auschwitz, con la sua famiglia, benché avesse avuto la possibilità di salvarsi. Ma decise, forte delle sue convinzioni umane e religiose, di condividere la sorte del suo popolo.
“Mi guarderò dentro, per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, ‘sprofondare in se stessi’. Si può anche chiamare meditazione; ma questa parola mi dà ancora i brividi. E del resto, perché no? Una quieta mezz’ora dentro me stessa. Non è però una cosa semplice, quella stille Stunde, ‘ora quieta’; bisogna impararla. Prima è necessario spazzare via dall’interno tutte le insignificanti preoccupazioni, i detriti. In fin dei conti, persino in una testolina così piccola c’è sempre una montagna di distrazioni irrilevanti. É vero che ci sono anche sentimenti e pensieri edificanti, ma il ciarpame è sempre presente. Sia questo, dunque, lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista. Così che qualcosa di Dio possa entrare in te, come c’è qualcosa di Dio nella Nona di Beethoven.”
La fisica quantistica ci sta dischiudendo una visione della realtà in cui tutto è inter-connesso. Entangled. Intrecciato. Impigliato. Stretto l’uno con l’altro. Terra e Cielo. Uomo e Natura. Grano e Zizzania. E tutto questo viene “osservato”, guardato. “Signore, tu mi scruti e mi conosci. Per te le tenebre sono come luce” (Sal 139).
“Neanche uno di essi cade a terra senza che il Padre vostro lo voglia, lo sappia” (Mt 10,29).
Sì, questo è un tempo di inquietudine. Tutto sembra e appare “aggrovigliato” come i fili di trama di un tappeto, di cui non vediamo ancora il disegno, ma forse perché non vogliamo vedere dall’altra parte. Rivoltare, Capovolgere la prospettiva. “Fate attenzione a come ascoltate, a come vedete” (Lc 8,18). Il termine greco per ribaltare è “katà-strofè”. Le crisi capovolgono il nostro modo di guardare, ma le crisi hanno bisogno di quiete, abbiamo bisogno di ascoltare la “voce interiore”, sich versenken, sprofondare nell’abisso di noi stessi e degli eventi.
Il nostro pensiero è incompleto, tendiamo a dividere e separare la realtà: buoni e cattivi, nero e bianco, vita e morte. Una “di-visione” della realtà. Manca la “visione”. Frantumiamo tutto in pezzettini per poterci meglio comprendere e poter meglio analizzare la realtà, le nostre crisi, ma così tutto si sottrae alla “visione”.
TEMPO DI FIDUCIA
“Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,26-28)
“Confidate, soprattutto, nel lavoro lento di Dio.
Siamo per natura impazienti di concludere
ogni cosa senza ritardi.
Vorremmo saltare le fasi intermedie.
Siamo impazienti di metterci in cammino
verso qualcosa di ignoto, qualcosa di nuovo.
Eppure è la legge di ogni progresso
che esso si compia passando attraverso
alcune fasi di instabilità –
e che possa volerci molto tempo”
(Teilhard de Chardin, Paziente fiducia).
C’è uno sguardo nel profondo di me e dentro ogni altra cosa (come ci ricordano le scritture sacre).
“nemmeno le tenebre per te sono tenebre
e la notte è luminosa come il giorno;
per te le tenebre sono come luce” (Salmo 139).
“Mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo” (Salmo 139)
Sprofondando in questo infinito mare di amore e compassione, percepiamo che nella notte dell’inquietudine, traspare la luce. Come le stelle il cui splendore si contempla nella notte.
Nell’abbandono di Gesù in croce; in quella sua domanda “Perché mi hai abbandonato”, l’inquietudine dell’umano si fa Parola nel grido, si incarna in quell’uomo scarnificato, ma che si lascia sprofondare nelle mani del Padre, nelle mani della Vita. Un salto nel buio dell’abisso?
Dall’anarchia musicale, da quella sorta di caos di suoni, disarmonici tra loro, tutto inizia dallo sguardo diretto e fulmineo che il direttore d’orchestra dirige agli orchestranti. A tu per tu. L’abisso dischiude l’armonia dell’amore. Tutto concorre al bene, di coloro che amano Dio. Tutto è una sinfonia per coloro che si abbandonano, con fiducia. E lì dimora la quiete. Inquietum cor meum donec requiescat in te domine.


