Monismo Relativo e Advaita

L’Advaita, spesso indicato come Advaita Vedanta, è una scuola di filosofia indiana non dualistica che affonda le sue radici negli insegnamenti delle Upanishad, parte della più ampia tradizione vedica. Il termine “Advaita” significa “non due” in sanscrito, sottolineando l’unicità o la non-dualità dell’esistenza. La realtà ultima trascende ogni distinzione tra l’individuo e il divino, insegnando che ogni apparente diversità è un’illusione (maya) e che la vera realtà è una coscienza unificata e infinita – Brahman. L’Advaita insegna che Brahman è l’unica, immutabile, infinita ed eterna realtà. Brahman è il substrato di tutta l’esistenza. Il mondo, così come lo percepiamo, non è in definitiva reale, ma è una manifestazione di Brahman. Il mondo è costituito da relazioni reciproche, mentre la realtà ultima è in relazione unilaterale o non reciproca con il mondo. 

Adi Shankaracharya (VIII secolo d.C.) è il più importante sostenitore dell’Advaita Vedanta; Shankaracharya ne sistematizzò gli insegnamenti e scrisse commenti alle Upanishad, alla Bhagavad Gita e ai Brahma Sutra. Gli insegnamenti Advaita dell’Oriente e la filosofia scolastica dell’Occidente hanno una visione simile di Dio e della sua relazione con il mondo. Adi Shankara (Shankaracharya) e Tommaso d’Aquino, pur provenendo da tradizioni culturali e religiose diverse, intendono la Realtà Ultima come immutabile, infinita ed eterna. Secondo Shankara, i sensi umani percepiscono il mondo come manifestazione di Brahman e Brahman non è direttamente coinvolto nel mondo come entità personale e substrato di tutta l’esistenza. Secondo Tommaso d’Aquino, Dio è l’essere necessario e la causa di tutti gli esseri contingenti. Dio è assolutamente semplice, immutabile e infinito. 

Invece di utilizzare il concetto di “maya”, che significa “illusione” o “velo”, tra Dio e il mondo, Tommaso d’Aquino sottolinea che tutte le cose dipendono realmente da Dio per la loro esistenza, ma Dio non è realmente in relazione con esse. Il concetto di “creazione” è centrale nella comprensione cristiana del mondo. In quanto creato, il mondo è in relazione reale con Dio, mentre la relazione di Dio con il mondo è solo di ragione, una relazione puramente concettuale (relazione rationis tantum). Esiste una connessione tra “maya” e “creazione”.

Il concetto advaita di “maya” e quello teistico di “creazione” spiegano la dipendenza del mondo da una realtà superiore. Entrambi i punti di vista sostengono l’idea che la relazione di Dio con il mondo sia non reciproca e asimmetrica. Tuttavia, differiscono in modo significativo nel cogliere la consistenza del mondo. Parlare del mondo come “maya” significa intendere il mondo come illusorio e da trascendere per realizzare la verità non duale che Tutto è Uno. La “creazione” afferma un mondo reale e contingente, creato di proposito da Dio per condurre l’umanità verso la realizzazione divina. Secondo l’Advaita il mondo è irreale, secondo il Teismo classico il mondo è reale.

Qui si pone la questione: che cosa è “reale”, quali sono le “condizioni” della realtà? Nella comune comprensione filosofica della “relazione non ex aequo” (relazione non reciproca), Tommaso d’Aquino afferma che la condizione per la relazionalità “reale” del mondo è la relazionalità “non” reale di Dio; Shankara afferma che la relazione “reale” del mondo con Dio è “non” reale per Dio; quindi, è “maya”. È un’illusione o un’idea sbagliata del fondamento ontologico della “realtà” del mondo. È come la descrizione comune del sole che “sorge” all’alba e “tramonta” al tramonto. Questa descrizione comune è un’illusione dalla prospettiva eliocentrica ; è reale dalla prospettiva geocentrica. Quale delle due prospettive è vera? Da un punto di vista scientifico, la prospettiva eliocentrica è “reale”, quella geocentrica è “illusoria”. Secondo la prospettiva teologica della sacra dottrina, ogni cosa è trattata dal punto di vista di Dio (sub ratione Dei); o perché ha a che fare con la realtà di Dio, o perché è ordinata o in relazione a Dio stesso, come principio e fine.[1] L’infinito conosce la realtà del finito (sub ratione Dei); il finito conosce l’immagine, il velo della realtà. Ma questo non significa che sia falso e non veritiero. È illusoria solo dal punto di vista del finito . Hendrick Vroom spiega:

“Il termine Maya è stato tradotto con ‘illusione’, ma non riguarda l’illusione normale. Qui ‘illusione’ non significa che il mondo non sia reale e che sia semplicemente frutto dell’immaginazione umana. Maya significa che il mondo non è come sembra; il mondo di cui si fa esperienza è fuorviante per quanto riguarda la sua vera natura“[2] 

Lynn Foulston afferma:

“Il mondo è sia reale che irreale perché esiste ma non è ciò che sembra essere”[3]

Secondo Wendy Doniger,

”dire che l’universo è un’illusione (māyā) non è dire che è irreale; è dire, invece, che non è ciò che sembra essere, che è qualcosa in continua creazione. La māyā non solo inganna le persone sulle cose che pensano di sapere, ma, più fondamentalmente, limita la loro conoscenza.” [4] 

In sintesi, il quadro filosofico dell’Aquinate e di Shankara converge su diversi punti riguardanti la trascendenza di Dio, la dipendenza del mondo da Dio e la natura non reciproca della relazione tra Dio e il mondo. Anche se sembra che le loro concezioni sulla natura del mondo divergano, da una considerazione più approfondita della natura advaita di “maya”, entrambi i pensatori concordano nel vedere il mondo da due prospettive diverse: sub rations hominis/sub rationis Dei, Avidya (ignoranza)/Vidya (conoscenza).

[1] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Iª q. 1 a. 7. 

[2] H.M. Vroom (1996), No Other Gods, Wm. B. Eerdmans Publishing, 57.

[3] Lynn Foulston e Stuart Abbott (2009), Hindu Goddesses: Beliefs and Practices, Sussex Academic Press, 14-16.

[4] Wendy Doniger O’Flaherty (1986), Dreams, Illusion, and Other Realities, University of Chicago Press, 119.

Humanity, God’s evidence

God’s movement toward humanity did not begin with the Christian event. The Christian event, embodied in Jesus of Nazareth, represents the convergence of God’s desire for humanity and humanity’s longing for God.

Consider an analogy: a room may have electricity, but its presence is only known when the light switch is turned on. Electricity represents God’s desire for humanity, while turning on the switch symbolizes humanity’s response to God. Until the switch is activated, the room remains in darkness. It’s not the act of flipping the switch that “creates” electricity; rather, it enables the room to be illuminated. Similarly, my life is lit by God’s presence the moment I correspond to Him—when I say “yes” to life, to light, to God’s desire. This act of surrender doesn’t mean that God only then turns toward me, or begins to love me because I have shown goodness or made sacrifices. No! Such thinking reduces God to an idol or a transactional deity.

God has always and will always love me, regardless of what I do. However, I do not feel or experience this love in my heart, nor does it radiate from my face or shine through others, until I believe in Him. Faith is given to everyone. Yet if I refuse to accept it, to say yes and surrender to it, I will persist in claiming that faith is for others, not for me.

Jesus of Nazareth is the one who fully said “yes” to God. He believed in God completely, even to the point of preferring God’s will over his own. Because of this perfect correspondence, he became the Son of God—the living embodiment of God in the world, the symbol of God, the revelation of God. This is not Adoptionism, the idea that Jesus either elevated himself to divine status (apotheosis) or that God arbitrarily chose to consider him as His Son at some point. Not at all.

From eternity—ab aeterno—humanity has belonged to the very essence of God. God is not without humanity—not because God plus humanity equals a greater God, but because God’s TOGETHERNESS with humanity together reveal WHO GOD IS. If humanity “added” anything to God, then God would no longer be the all-encompassing Being without whom nothing exists. Humanity does not add something to God; rather, humanity is intrinsic to God’s very nature.

If humanity were not within God’s essence, we would not exist. Therefore, our very being testifies to God’s reality. Jesus of Nazareth embodies this eternal truth. He is the Truth of God and, therefore, the Truth of the world. As a human like him, I too can become the Truth of the world, the Light of the world, and – as Jesus – become SON OF GOD. I too belong, from eternity, to God’s essence.

This is the joyful message of Christmas: the revelation that in Jesus, we see the eternal truth of our belonging to God.

L’uomo è evidenza di Dio

Condivido ciò che dice il mio caro amico Giuseppe https://youtu.be/sj9unSff7pU?si=NuqgDF6nB5f5s394. Tuttavia, … non completamente.

  • Il movimento di Dio verso l’uomo non è “iniziato” con l’evento cristiano. L’evento cristiano, in Gesù di Nazareth, è la corrispondenza tra ciò che è il desiderio di Dio verso l’uomo con il desiderio dell’uomo verso Dio. Un esempio. In una stanza ci può essere elettricità. Ma io posso sapere che ci sia, solamente se e quando accendo l’interruttore. L’elettricità è il desiderio di Dio verso l’uomo, mentre l’accensione con l’interruttore è la risposta, la corrispondenza dell’uomo verso Dio. Fin quando non accendo l’interruttore, la stanza rimane al buio. Ci sono tenebre nella stanza, si va a tastoni. Orbene, non è l’accendere l’interruttore che “dà vita” all’elettricità. L’interruttore fa sì che ci sia luce nella stanza. La mia vita si illumina di Dio nel momento in cui gli corrispondo. Dico “sì” alla vita, alla luce, al desiderio di Dio. Mi abbandono. Ciò non vuol dire che “poi” Dio si converte a me, si volge verso di me. Non perché io gli voglio bene, allora Dio inizia a volermi bene. Non perché gli faccio vedere che sono bravo e faccio sacrifici, allora Dio si impietosisce. No! Questa è la religione che fa di Dio un bambolotto, un idolo. Dio da sempre e per sempre mi ha amato e continuerà a farlo, nonostante quello che faccia. Tuttavia, io non so, non ne faccio esperienza, non lo sento nel cuore, e non lo si vede sul mio volto e risplendere sul volto degli altri, FINTANTO che non inizio a credergli. A tutti viene data la fede… A TUTTI. Ma se non accolgo, dico sì, mi abbandono alla Fede, dirò sempre che la fede è data ad altri e non a me.
  • Gesù di Nazareth è Colui che ha detto sì a Dio. Ha creduto in Dio fino in fondo nella sua vita, fino al punto di preferire Dio a se stesso. Per questo è divenuto FIGLIO DI DIO. Cioè corrispondenza di Dio nel mondo, Simbolo di Dio, RIVELAZIONE DI DIO. Questo non è ADOZIANISMO, cioè che Gesù o si sia elevato al rango di Dio (APOTEOSI) oppure che Dio si è deciso ad un certo punto di considerare “questo” uomo come suo Figlio. Niente affatto.
  • L’umanità – da sempre, per sempre, ab aeterno – appartiene all’essenza di Dio. Non si dà Dio senza l’uomo, non perché [ Dio + uomo = Dio più grande] ma perché [ Dio + uomo = Dio ]. Dio non diventa un Dio più Dio assieme all’uomo. Se così fosse l’umano “aggiungerebbe” qualcosa a Dio. Nulla può essere aggiunto a Dio, poiché Dio è ciò senza del quale NULLA è. Se l’umano (creato) aggiungesse Qualcosa a Dio, Dio non sarebbe più “ciò senza del Quale nulla è”. [ Dio + uomo = non-Dio]
  • Se si risolve l’equazione, si ha che l’uomo non esisterebbe. La mia esistenza è l’evidenza di Dio. Se così è, significa che l’umanità – da sempre, per sempre, ab aeterno – appartiene all’essenza di Dio. Gesù di Nazareth è l’evidenza di questa VERITÀ di Dio. Per questo Gesù è la Verità del mondo. Ma io che sono uomo come lui, divento VERITÀ del mondo, LUCE del mondo, FIGLIO di Dio come lui. Anch’io appartengo dall’eternità all’essenza di Dio.

Questa è la buona notizia del Natale del Signore.

La voce fragile del Vangelo

Sì, sono d’accordo, ma solo in parte. C’è una mancanza di visione nell’analisi di Cacciari (Corriere della Sera, 24 dicembre, p. 9). Cos’è che ha portato a questo oblio nel cristianesimo? È l’indifferenza “morale”? Il cristianesimo è diventato così secolarizzato da aver dissolto la percezione del bene e del male?


Il cristianesimo moralista sembra essere giunto alla fine in Occidente: non è riuscito a salvare né il mondo fuori dalla chiesa né quello dentro la chiesa. Perfino le corde usate per flagellare e purificare il tempio di Dio si sono consumate. Tutti sono scappati. Ma dove sono andati?
“Dio è morto!”, ha detto Nietzsche. Ma questa affermazione non sembra più valida ai nostri tempi. Che Dio non interessi più, che sia vivo o morto, che sia nato o non si sia mai incarnato. Stiamo entrando in un’altra era. Non abbiamo più bisogno di fruste per punire, né di luci per scoprire chi ha ragione o torto. Né abbiamo bisogno di puntare il dito.


È tempo di ascoltare. È tempo di disseppellire il tesoro nascosto sotto terra di quanti sono fuggiti dal tempio. È tempo di togliere le ceneri di un Occidente ridotto in polvere, di riaccendere nell’uomo il fuoco sopito, ma non spento. È necessario restaurare la visione, lo sguardo di Dio sul mondo. Non “facendo” qualcosa, ma ricominciando dal centro. Non dal centro del cristianesimo – Roma – né dalle periferie degradate. Dal centro di noi stessi.
Il Vangelo è una voce. Una voce che grida nel deserto, che sussurra nel silenzio. Una voce debole, non per il suo contenuto, ma per il modo in cui parla. È infantile, senza parole. Eppure grida, come sulla croce.


Abbiamo perso lo sguardo, la visione, lo stupore. Lo sguardo dei pastori, lo sguardo degli astanti davanti al crocifisso. Ritornare a contemplare. Non per “fare”, ma per guardare. Non per stare a guardare, ma per sintonizzarci sulla voce debole dell’eterno adesso. Non la voce del “Tu devi”, ma la voce dell’“io sono”. In silenzio.

The frail Voice of the Gospel

Yes, I agree, but only in part. There is a lack of vision in Cacciari’s analysis ((Corriere della Sera, 24 dicembre, p. 9), and I regret this. There is no glimpse of God, not even of the “divine” that Cacciari often mentions. But what is it that has led to this oblivion in Christianity? Is it “moral” indifference? Has Christianity become so secularized that it has dissolved the perception of good and evil?


Moralistic Christianity seems to have come to an end in the West: it has failed to save either the world outside the church or the world inside the church. Even the ropes used to scourge and cleanse the temple of God have worn out. Everyone ran away. But where did they go?
“God is dead!” said Nietzsche. But this statement no longer seems valid in our time. That God is no longer of interest, whether he is alive or dead, whether he was born or never incarnated. We are entering another age. We no longer need whips to punish, nor lights to find out who is right or wrong. Nor do we need to point fingers.


It is time to listen. It is time to dig up the hidden treasure from the ground of all those who have fled the temple. It is time to remove the ashes of a West reduced to dust, to rekindle the dormant, but not extinguished, fire in man. It is necessary to restore the vision, the gaze of God on the world. Not by “doing” something, but by starting again from the center. Not from the center of Christianity – Rome – nor from the degraded peripheries. From the center of ourselves.
The Gospel is a voice. A voice that cries in the desert, that whispers in the silence. A voice that is weak, not because of its content, but because of the way it speaks. It is infantile, speechless. Yet it cries out, as on the cross.


We have lost the gaze, the vision, the wonder. The gaze of the shepherds, the gaze of the bystanders before the crucifix. But the courage to find the vision again is already with us. Not to “do”, but to look. Not to stand by and watch, but to tune in to the faint voice of the eternal now. Not the voice of “you must,” but the voice of “I am. In silence.

Perché l’incarnazione è importante

Fin dall’inizio dei tempi, lo Spirito di Dio ha rivelato la sua gloria e bontà attraverso la creazione fisica. I cristiani credono che questa presenza universale di Cristo sia stata in seguito “nata da una donna sotto la legge” (Galati 4:4) in un momento di tempo cronologico. Questo è il grande salto di fede cristiano!

Crediamo audacemente che la presenza di Dio sia stata riversata in un singolo essere umano, in modo che l’umanità e la divinità possano essere viste operare come una in lui – e quindi in noi! Invece di dire che Dio è venuto al mondo attraverso Gesù, forse sarebbe meglio dire che Gesù è uscito da un mondo già intriso di Cristo. La seconda incarnazione è scalata dalla prima, dall’unione amorevole di Dio con la creazione fisica.

Attraverso la sua presenza incarnata, Gesù ha offerto al mondo un esempio vivente di amore pienamente incarnato che è emerso da situazioni di vita ordinarie e limitate. Per me, questa è la vera importanza della dichiarazione di Paolo secondo cui Gesù era “nato da una donna secondo la legge”. In Gesù, Dio divenne parte del nostro piccolo mondo domestico ed entrò nei limiti umani e nell’ordinarietà, e rimase anonimo e in gran parte invisibile per i suoi primi trent’anni. Per tutta la sua vita, Gesù stesso non trascorse tempo a salire, ma molto tempo a scendere, “svuotarsi e diventare come tutti gli umani” (Filippesi 2:7), “tentato in ogni modo che siamo” (Ebrei 4:15) e “vivere nei limiti della debolezza” (Ebrei 5:2).

Gesù camminò, gode e soffrì l’intero viaggio umano, e ci disse che potevamo e dovevamo fare lo stesso. La sua vita ha esemplificato il mistero che si svolge in tutte le sue fasi, da una concezione nascosta e divina, a una normale vita adulta piena di amore e problemi, punteggiata da alcuni momenti di trasfigurazione e illuminazione, e tutti che hanno portato alla gloriosa ascensione e al ritorno finale. Come afferma Ebrei 4:15, “Poiché non abbiamo un sommo sacerdote che non sia in grado di simpatizzare con la nostra debolezza, ma abbiamo uno che è stato come noi in ogni modo, ha sperimentato ogni tentazione e non è mai tornato indietro”.

La vita di Gesù rivela che non dobbiamo aver paura delle profondità e delle ampiezze delle nostre vite, di ciò che questo mondo ci offre o ci chiede. Così diventiamo intimi con le nostre esperienze, e da esse possiamo imparare e scendere nella profondità delle cose, anche dei nostri errori, prima di cercare troppo rapidamente di trascendere il tutto in nome di una certa purezza o superiorità idealizzata. Dio si nasconde nelle profondità, anche nelle profondità dei nostri peccati, e non si vede finché rimaniamo sulla superficie di qualsiasi cosa.

La terza incarnazione è quella che continua fino alla fine del mondo quando tutto sarà trasformato nel mistero della morte/risurrezione di tutte le cose e che in Gesù è stato anticipato, e da lui rivelato. Sarà così che “la vita del mondo verrà” – come ci fa confessare il Credo – e tutte le cose saranno “piene” di Dio, poiché Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).

  • Prima incarnazione della materia/spirito nell’evento singolare del Big Bang;
  • Seconda incarnazione dell’umano e divino, nell’evento singolare dell’uomo Gesù;
  • Terza incarnazione nell’evento singolare di tutte le cose divenute Dio.

Vero, ma non troppo

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.

                  (Leopardi, La quiete dopo la tempesta)

Riconosciamo questa stupenda poesia di Leopardi. Ci ispira, ci apre l’immaginazione e il cuore. Con la poesia sentiamo in noi lo stesso cuore di Giacomo battere con il nostro cuore ed entrare in orizzonti infiniti.

Certamente ci possiamo chiedere. Ma è veramente successo quanto qui Leopardi descrive? In quale preciso giorno e anno ha vissuto questa tempesta. I meteorologi del tempo l’hanno registrata?

Sono queste le domande che si sarebbe posto anche Leopardi? Erano queste le intenzioni con cui scrisse questa poesia?  Possiamo indagare, verificare e ricercare. Arriveremo a fissare quel giorno nel settembre del 1829 a Recanati. Ma in quale giorno di settembre?

Una poesia è “poiein” cioè creazione, creatività. Non inganna, ma dischiude. E quando qualcosa si dischiude, c’è rivelazione. Si squarcia il velo che avvolge l’ordinario e appare lo straordinario, non al di sopra di noi (supra nos) ma per noi, in noi (ad nos, in nobis). È questo il Dictum Socraticum, che Martin Lutero riprende nel De servo arbitrio (1525), WA 18, 605, 20s. (=BoA 3, 100, 17). Le cose che sono sopra di noi, là in cielo, non sono per noi. Non ci riguardano.

Gli eventi della storia e della natura dischiudono il divino non sopra di noi, distante da noi, ma “tra” noi. Quae supra nos, nihil ad nos. La trascendenza? È il continuo approssimarsi di Dio a noi, fino al punto che diventiamo Dio. Continuamente siamo creati da Dio, qui e ora, abbandonati al Mistero, alla Vita divina, che sgorga, zampilla, emerge in noi. Risvegliando quel bimbo che viene alla luce nel mondo, nascendo per noi.

“Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna”.

Con questo stupore siamo invitati ad ascoltare, leggere, meditare, soffermarci sui testi dell’infanzia. Sono delle grandi narrazioni “poetiche”, simboliche, metaforiche. Chiederci: Ma è veramente successo? In quale anno, dove, come? La lettera chiude la porta del Mistero e non ci fa scendere nel nostro cuore. Quae supra nos, nihil ad nos. Lo spirito apre al Mistero, ci fa scendere nelle sue profondità. Come Alice nel paese delle Meraviglie, per entrare dove è passato il coniglio bianco, dobbiamo passare per una porta strettissima. Per farlo, dobbiamo rimpicciolirci, diventare piccoli, piccoli.

Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est.

Così scrisse uno scolastico fiammigo del secolo XVII che Hölderlin ha posto in esergo al suo Iperione: Non poter essere racchiuso dal massimamente grande, ed essere tuttavia contenuto dal massimamente piccolo è proprio di Dio”.  Verbum abbreviatum (Bernardo di Chiaravalle, Sermones super Cantica 59,9).

Il Mistero si fa piccolo, abbreviato nella carne di Gesù che è anche la nostra, nelle inter-azioni quantistiche, nella cruda materia di atomi, nella vita di molecole, cellule, nei neuroni di ogni sistema vitale, nei pensieri e immagini della mente.  “Parola-fatta-carne”. Che nasca a Nazareth o a Betlemme, qui o là, riguarda la lettera. Ma lo spirito non è mai “ipotetico” ma è poetico.  Dischiude gli occhi su quanto da sempre qui e ora accade sub specie aeternitatis. Il Cristo è la poesia di Dio e noi ne siamo le strofe. Parole abbreviate dell’unica Parola, nella quale Dio “ci ha detto tutto in una sola volta” e una volta per sempre (San Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo 2,22).

Nei racconti dell’Infanzia di Matteo1-2 e di Luca 1-12 tutto è vero, per lo spirito, ad nos, in nobis. Narrazioni simboliche che ci conducono nel profondo del Mistero di Dio che si abbrevia in noi, per farci diventare “grandi”, “maturi” e sicut dei.  “

Gesù rispose loro:

“Non è scritto nella vostra legge, ‘Io ho detto: Voi siete dèi?’. Se chiama dèi coloro ai quali la parola di Dio è stata diretta (e la Scrittura non può essere annullata), come mai voi dite a colui che il Padre ha santificato e mandato nel mondo, che bestemmia, perché ho detto: Sono Figlio di Dio?” (Gv 10,34-36)

Scriveva Nietzsche in Aurora:

“La realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato — cose, queste, che l’umanità più antica non sognava neppure” (Friedrich Nietzsche, Aurora, in Opere, ed. cit., vol. V, t. 1, p. 44).

A te, fratello e sorella, a cui la parola di Dio è stata diretta, rivolta, nihil supra nos, sed ad nos, in nobis, … la tempesta è passata. Ecco il sereno, rompe là dagli angoli oscuri della tua vita, e la campagna del tuo cuore si sgombra da cose e persone che l’occupavano, preoccupavano, e chiaro nella valle il fiume di Dio appare.

“Fons vivus qui non minoratur ex fluxu continuo” (Thomas Aquinatis, Super Evangelum Ioannis Lectura, caput 1, lectio 3, 20).

Incarnazione radicale

Il messaggio cristiano è che Dio è diventato carne [ sarx in greco o “materia”]—non una parte di Dio o un aspetto di Dio, ma l’intero infinito, eterno Dio Creatore è diventato materia. L’affermazione—Dio è diventato carne—è così radicale che è virtualmente impensabile e illogica. Il cristianesimo è la più radicale di tutte le religioni del mondo perché prende sul serio la materia come dimora della divinità.

Quindi tutti devono diventare cristiani per conoscere il Cristo?

Assolutamente no. “Cristo è più di Gesù”. Cristo è la comunione dell’amore personale divino espresso in ogni forma creata di realtà: ogni stella, foglia, uccello, pesce, albero, coniglio e persona umana. Tutto è cristificato perché tutto esprime l’amore divino incarnato. Tuttavia, Gesù Cristo è il “questo” di Dio, quindi ciò che Gesù è per natura tutto il resto è per grazia (amore divino). Ogni singola persona nasce dall’amore di Dio, esprime questo amore nella [sua] forma personale unica e ha la capacità di essere unita a Dio…Ogni essere umano è già riconciliato con ogni altro essere umano nel mistero del divino. Cristo è più di Gesù, compreso da solo. Cristo è l’intera realtà legata in un’unione d’amore.

Non possiamo conoscere questo mistero di Cristo come una dottrina o un’idea; è la realtà radice di tutta l’esistenza. Quindi, dobbiamo viaggiare verso l’interno, nella profondità interiore dell’anima dove il campo dell’amore divino è espresso nel “questo” della nostra vita particolare.

Ognuno di noi è una piccola parola della Parola di Dio, una mini-incarnazione dell’amore divino. Il viaggio verso l’interno richiede abbandonarsi a questo mistero nelle nostre vite, e questo significa lasciare andare i nostri “pulsanti di controllo”.

Significa morire a noi se stessi, a quei legami che ci tengono in ostaggio; significa abbracciare le sofferenze delle nostre vite, dalle piccole sofferenze a quelle grandi; significa permettere alla grazia di Dio di guarirci, sostenerci e darci forza per la vita; significa entrare nell’oscurità, nelle incognite delle nostre vite, e imparare a fidarsi dell’oscurità, perché la tenerezza dell’amore divino è già lì; significa essere disposti a rinunciare a tutto ciò che abbiamo per tutto ciò che possiamo diventare nell’amore di Dio; e infine, significa lasciare che l’amore di Dio ci guarisca dalle tensioni opposte dentro di noi. Quando possiamo dire a piena voce:

«Tu sei il Dio del mio cuore, il mio Dio e la mia parte per sempre» (Salmo 73,26), allora possiamo aprire gli occhi per vedere che il Dio che cerco è già in me… e in te. Siamo già Uno.

La com-“mozione” di Dio

Primo momento

Un anno fa un reporter della Reuters, Mohammed Salem, vinse il World Press Photo per aver scattato una foto in cui ritraeva l’immagine di una donna palestinese che tiene in braccio il corpo della sua nipotina, uccisa in un attacco nella Striscia di Gaza, all’ospedale di Nasser di Gaza.

Si vede Inas Abu Maamar che culla il corpo di sua nipote di 5 anni, Saly, uccisa insieme a sua madre e sua sorella da un missile che aveva colpito la loro casa.

“È un’immagine davvero profondamente commovente”. ha detto Salem.  “È come una sorta di messaggio letterale e metaforico sull’orrore e l’inutilità del conflitto e rappresenta un argomento incredibilmente potente a favore della pace”.

SOFONIA: “Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!

Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente”.

Guardando Gaza, Libano, Cisgiordania. Risentimento, rabbia, frustrazione, disperazione. Sconfitta e fine di Israele.

È Dio un Salvatore potente?

Guardando la tua vita, quante volte ci siamo sentiti impotenti, ancor più davanti un Dio onnipotente, che non è intervenuto nella mia vita?

Secondo momento

Il popolo era in attesa – Di che cosa? Diceva dunque alle folle che andavano a farsi battezzare da lui: “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente?” Una battaglia escatologica la grande JIHAD finale, tra Dio e il Male.

Del Messia (cioè il Cristo). Il vendicatore, colui che in mezzo al popolo è Salvatore potente, “con potenza”.

Tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo. Contro il potere romano, contro i pubblicani, i collaborazionisti, i falsi religiosi, pii e devoti,  che si lavano le mani e non fanno nulla per il Popolo.

Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo (Lc 3,18). Quale buona notizia?

Giovanni annunciava la venuta di Qualcuno più forte. “Brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile”. Il Messia che viene è “più forte di me”, brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile. C’è desiderio di vendetta, di giustizia, di colpire contro.

Ma anche al Messia che è venuto, a Gesù il Cristo, al Messia non andrà meglio. È lì crocifisso come un maledetto. “Mio Dio perché mi hai abbandonato?“.

“Ha disperso il tuo nemico.

Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,

tu non temerai più alcuna sventura” (Sofonia).

È questo il Signore, tuo Dio, che in mezzo a te è un salvatore potente?  Ma questa è più l’annuncio della sconfitta di un Dio che non riesce a far giustizia del suo popolo, e nemmeno di Inas Abu Maamar.

Terzo momento

Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. Così invita Paolo nella lettera ai Filippesi.

Così afferma Sergio Quinzio, La Sconfitta di Dio, p. 101.

“Vivere, dicevano i filosofi, significa ‘movere se ipsum’, Dio si modifica, si trasforma, attraverso il suo rapporto con gli uomini, fino a diventare un crocifisso risuscitato, fino a dover assumere un nome nuovo” (Ap 3, 12).

 “Deus intelligit et amat seipsum, […] quod Deus movet seipsum” (STH, Iª q. 9 a. 1 ad 1).

Dio muove se stesso, perché è un Dio VIVENTE. Dio vive, perché quanto più Dio si stringe al suo popolo, agli emarginati del suo e degli altri popoli della terra, Gaza e Israele, Russia e Ucraina, tanto più Dio diviene Dio. Tanto più Dio viene. E se Dio viene, quando Dio viene, quanto più Dio viene a Dio, tanto più Dio nasce nel suo popolo, in tutti gli altri popoli, in ciascuno di noi. Singolarmente in ciascuno di noi. In te, caro fratello e sorella, Dio viene a nascere, proprio in te perché tu diventi figlio e figlia di Dio.

Così prega Etty Hillesum in una domenica mattina del luglio 1942 ad Auschwitz, lì perché ha preferito essere deportata con il suo popolo piuttosto che rimanere da sola, nascosta da qualche parte ad Amsterdam, ma senza il suo popolo.

“Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano.
Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte.

Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi.

L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini.

Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio”.

Così pregava Etty Hillesum in quella domenica mattina. Poteva salvarsi e avere risparmiata la propria vita. Sì, sana e salva, ma da sola. Dunque salva, però senza essere salvata. Poiché ci si salva “insieme” non da soli. E così si trova pace nel cuore. E così ci si può anche rallegrare in un campo di sterminio, come a Auschwitz, così a Gaza.

Dio salva così.

Catholic diaspora and the end of “The God”

Are Catholics in a diaspora and absent from the secular public sphere? What might all this mean? Is it still sustainable to claim that the world lives and thinks “as if God did not exist”?
The real question to ask, in my view, is: which God is this statement referring to? The world lives and thinks as though “a certain” God does not exist. Yes, that God has now disappeared—that image of God who comes here and then goes there, who intervenes here but not there.

Do we truly live as if God “does not” exist?

There is an “other” God in whom we live and dwell, fully aware that “G*d exists”—but not as though God were here or there, intervening here but not there. G*D exists not in a way that occupies space or dwells in time. G*D exists, but not as a “point” on a circumference, but as its center.

Certainly, one could refer to the anonymous author of the Letter to Diognetus, who describes Christians as those who “live in the world, without being of the world.”

There is indeed a “spirituality of the diaspora”… but there is also a spirituality of the center.

I ask: Is this spirituality of the center a “worldly” spirituality, which worship “the god-of-this-world?

I respond to this question with Saint Augustine’s words:

True religion, which already existed, began to be called Christian. This is in our time the Christian religion—not because it did not exist before, but because later it took this name.”
(Augustine, Retractationes, lib. 1, c. 13, n. 3.)

Is it still sustainable to claim that the world lives and thinks “as if God did not exist”? This question compels us to revisit Dietrich Bonhoeffer, who in 1900 revisited and introduced again the assertion etsi Deus non daretur by the Dutch philosopher Hugo Grotius (1656).

The Lutheran pastor and martyr wrote from his cell in the concentration camp:

“We cannot be honest without recognizing that we must live in the world etsi Deus non daretur. Precisely this we recognize—before God! God Himself compels us to this recognition. The maturity of adulthood thus leads us to a true acknowledgment of our situation before God. God lets us know that we must live as men who can get along without God. The God who is with us is the God who forsakes us. […] The God who makes us live in the world without the hypothesis of God is the God before whom we are at every moment. With and before God, we live without God. God allows Himself to be pushed out of the world, onto the cross. God is powerless and weak in the world, and only in this way does He remain with us and help us.” (Letter, July 16, 1944)

I hold the view that this etsi Deus non daretur is the starting point for a theology of the 21st century. I would complete the assertion by Hugo Grotius with: etsi HIC Deus non daretur (“as if THIS God were not”).

Quid de Deo? What of God? Or, which God can still be spoken of?

A God (deus) who “gives Himself”, daretur which in Latin means: gives oneself. It is not the substantive “God” (deus) the way we may still speak of God in XXI sec. but a G*D as a Verb, a reflexive Verb, diffusivum seu donativum sui . In Italian we may use “diarsi, the Verb form for dio, which means G*D.

G*D is giving-ness, “G*Ding-ness”, diarsi (even before God’s self-communication)