Materia e spirito: oltre il divorzio.

La materia è una parola chiave nel linguaggio della cultura tecnologica moderna, poiché è intimamente legata alla crescente conoscenza scientifica dell’uomo sull’universo fenomenico. La teologia, d’altra parte, è il discorso su Dio, che presuppone sia la rivelazione sia la conoscenza della fede. Tuttavia, ciò che la parola “materia” denota nel suo uso moderno rientra nell’ambito della rivelazione nelle categorie scritturali del cielo e della terra (Genesi 1,1) o delle cose visibili (Colossesi 1,16), e nell’ambito della teologia nella categoria metafisica dell’essere materiale. Questo articolo tratta prima dell’insegnamento della rivelazione e della teologia sulla materia, e poi delle questioni teologiche che emergono dalla nuova conoscenza scientifica dell’uomo sulla materia.

La materia ha un ruolo all’interno del disegno divino del cosmo, che è la manifestazione della gloria di Dio. Pertanto, la Chiesa rifiuta la posizione gnostica assunta dall’Origenismo, secondo cui il posto della materia nell’opera di Dio è accidentale, relativo alla caduta dell’essere spirituale, e scomparirà con il restauro finale dell’essere spirituale. La comprensione della Chiesa, nella fede, dell’insegnamento della rivelazione sulla materia include anche la relazione istituita da Dio tra la materia e l’uomo. La materia è una dimensione dell’essere umano (Genesi 2,7), è l’oggetto del comando divino dato all’uomo (Genesi 2,16), è il significato dato da Dio alla storia secolare (Genesi 1,28), ed è coinvolta nella situazione dell’uomo all’interno della storia della salvezza (Genesi 3,17; Romani 8,19-23). Contro il Docetismo, la rivelazione cristiana proclama la realtà (1 Giovanni 4,2) e la primazia, nell’opera di Dio, della natura umana con la sua dimensione materiale in Gesù Cristo (Colossesi 1,19-20). Quod non est assumptum non est sanatum.

Per rendere intelligibile ciò che è conosciuto dalla rivelazione riguardo alla materia, la teologia scolastica utilizza il concetto metafisico di potenzialità. Questo concetto, insieme al suo correlativo concetto di attualità, è applicato all’essere creato; e la distinzione tra essere materiale e spirituale è vista come quella tra potenzialità dell’essere e attualità dell’essere. Nell’unità del cosmo, materia/carne e spirito sono gradi dell’essere, partecipazioni ordinate dell’Essere assoluto, ciascuna a suo modo manifestando la perfezione dell’Essere assoluto.

Uno dei teologi contemporanei che si è interessato maggiormente e sistematicamente alla rilevanza teologica della materia è il teologo gesuita Karl Rahner. In vari suoi saggi affronta la questione della rilevanza che ha la materia per la teologia, specialmente per rendere possibile un fruttuoso dialogo tra scienza e fede.

Rahner vede la creazione e l’incarnazione strettamente unite in un unico atto di auto-comunicazione divina. La creazione è vista come un momento parziale dell’evento comunicativo in cui Dio esprime se stesso nella carne (verbum caro) e quindi si fa materia (deus materia): “per tutta l’eternità non possiamo concepire il Verbo se non in quanto si è incarnato nella materia” (La festa del futuro, 232). Dio non solo ha dato se stesso al creato, ma ha reso possibile che attraverso l’evoluzione il creato trascendesse se stesso verso la pienezza di Dio. Questa posizione di sé (Dio) come altro da sé (non Dio) non fa sì che il cosmo sia da considerare una mera apparenza di Dio, un vestito o una maschera in cui Dio si nasconde o semplicemente vi appare:

“la realtà posta è una realtà genuina diversa da Dio e non una semplice apparenza dietro cui si nascondono Dio e la sua realtà. La dipendenza radicale e la realtà genuina dell’esistente derivante da Dio crescono in misura uguale e non in misura inversa” (Corso fondamentale sulla fede, 113).

Tale comprensione del creato come realtà genuina distinta da Dio ma allo stesso tempo destino di Dio influisce sul modo con cui la “materia” viene compresa come “manifestazione del Logos in quanto tale, quindi dello spirito” (L’unità vigente tra spirito e materia nella concezione cristiana, 284). Nell’assunzione della carne di Gesù, tutta la materia dell’universo è stata assunta da Dio. Per questo si può parlare di “una reale unione ipostatica con la materia, vera incarnazione che investe e coinvolge la materia come tale, cioè come potenzialità radicale del mondo” (La cristologia e l’odierna interpretazione dell’uomo e del mondo, 298). La materia costituisce la potenzialità radicale del mondo ed è un momento intrinseco della creatività dello spirito, tanto che questa non è più definita come potenza puramente passiva ma attiva e creativa, portatrice di potenzialità.

La Vita – afferma Teilhard de Chardin – rappresenta il termine di una trasformazione di grande ampiezza (Il fenomeno spirituale, 118). In questa trasformazione cosmica che conduce verso lo Spirito, la Materia si interiorizza. Il passaggio graduale dall’inconscio al cosciente, dal cosciente all’autocosciente, diventa “un cambiamento di stato cosmico”. Riprendendo dal punto di vista teologico le grandi intuizioni di Teilhard de Chardin, la teologia contemporanea riconosce che il cosmo procede per stadi sempre più elevati di auto-trascendenza: dalla materia inorganica alla vita organica, dalla vita senziente alla vita cosciente. Ora, in questa evoluzione della materia appare un soggetto in cui la materia trascende se stessa e diventa spirito autocosciente. Questo soggetto è homo sapiens. Questo è l’essere in cui la materia prende coscienza di sé. La materia è spirito in potenza: “spirito incapsulato, quasi congelato” (Rahner, L’unità vigente tra spirito e materia, 281). Lo spirito, invece, è materia realizzata.

Rahner è d’accordo con l’insegnamento della Chiesa che afferma che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio. Questa azione immediata e diretta riguarda, però, tutta l’azione creatrice di Dio e comprende tanto la materia quanto lo spirito. Si tratta di un agire trascendentale e non categoriale di Dio, il quale tutto sostiene e fa sì che la materia continuamente si auto-trascenda verso lo spirito in virtù dell’attività creatrice di Dio. Bisogna, quindi, concepire la creazione dell’anima non come un’eccezione dell’agire creativo di Dio ma come il caso più rappresentativo dell’auto-trascendenza della materia. Tanto lo spirito quanto la materia sono creati da Dio, benché entrambi siano tra loro in relazione dialettica: lo spirito proviene dall’evoluzione della materia. Questo passaggio dal meno (materia) al più (spirito) è possibile in virtù dello Spirito creatore che partecipa alla materia, e quindi al finito, la capacità di auto-trascendersi. La materia è capace di far emergere qualcosa di nuovo, che non era precedentemente presente e quindi non riducibile allo stato precedente ed inferiore.

Uno degli snodi più delicati in cui è presente la questione del rapporto tra materia/carne è quando si parla della fisicità della resurrezione di Gesù e delle sue apparizioni. È il momento in cui la teologia non può rispondere in maniera esclusivamente autoreferenziale. Per la fisica quantistica la materia non è composta da atomi ma da “energia”. Per questo Rahner ribadisce che la continuità tra il corpo terreno e quello risorto di Gesù non è salvaguardata dalla certezza che “qualche particella materiale del corpo terreno si ritrovi ancora nel corpo glorificato” (A proposito dello ‘stato intermedio’, 565). L’identità del corpo risorto è data, adesso e in futuro, è data dalla piena trasformazione della carne in corpo spirituale, ciò che in lingua tedesca si indica con il termine Leib.

Perciò neppure l’esperienza empirica del cadavere (ciò che in lingua tedesca si indica, invece, con il termine Körper) nel sepolcro può più costituire un argomento per dire che la risurrezione non ha ancora avuto luogo. Una tomba piena (con il cadavere di Gesù) non contraddirebbe affatto la risurrezione. Il teologo Hans Kessler, riprendendo le riflessioni di Rahner, afferma che

“la risurrezione di Gesù non avvenne cronologicamente solo dopo la sua morte; avvenne nella sua morte, ma divenne cronologicamente manifesta più tardi ai suoi discepoli mediante le automanifestazioni del risorto” (La risurrezione di Gesù Cristo, 464).

Senza voler darne una spiegazione scientifica, Carlo Molari ha tentato anche lui di mediare la comprensione della risurrezione attraverso una categoria, affermando che questo è un evento di

“irradiazione istantanea di tutta l’energia conservata nel corpo: tutta l’energia sarebbe esplosa. Questo fenomeno sarebbe dovuto all’amore che Gesù ha esercitato nella morte. Quel normale processo di trasformazione energetica, che sempre inizia e si prolunga nel tempo dopo la morte, in Gesù sarebbe avvenuto in modo istantaneo” (Il Cammino spirituale del cristiano, 297-298).

In questo evento singolare che è la risurrezione di Gesù – centrale per la fede cristiana – la scienza entra in dialogo non solo intra-disciplinare ma trans-disciplinare con la fede. È ciò che sollecita fare l’esortazione apostolica Veritatis gaudium (Prologo, 4c).

Una recente riflessione teologica, denominata Deep Incarnation (Incarnazione profonda), sta riflettendo sull’incidenza evolutiva e cosmica che ha la materia – e non solo la carne – nell’unione ipostatica del Verbo. La Deep Incarnation intende comprendere la dimensione cosmica della carne di Gesù, alla luce anche dell’attuale concezione della materia così come è data nella fisica quantistica e nell’evoluzione biologica. Tutti noi siamo fatti della stessa materia delle stelle. Tutti noi deriviamo dalla Materia-Energia e la nostra “carne” è dotata di informazione. La genetica evolutiva ci dice che noi creature della terra apparteniamo alla stessa comunità ecologica e condividiamo una storia comune.

Tenendo presente lo sfondo cosmico del Prologo di Giovanni, si può dire che il Logos divino, nell’incarnazione, si è unito alla sostanza fisica dell’universo ed è presente nel cuore della materia. Il Logos nel Prologo svolge una funzione analoga a quello che ha l’informazione nella fisica quantistica e nella biologica. Come è stato per il modello platonico-agostiniano dell’esemplarismo divino e delle rationes seminale, così il Logos è principio informatico della realtà. Il Logos è modello per la realtà: il progetto di Dio, il codice divino, la matrix informativa per tutte le forme concrete che emergono ed emergeranno nella creazione.

L’intera creazione, quindi, è fin dall’inizio (Big Bang) e fin nel più profondo (quanta) posta in condizione di diventare il destinatario dell’auto-espressione di Dio. L’incarnazione non è il dono che Dio fa di sé, successivamente a un mondo che è considerato semplicemente come creato da Dio. Al contrario, la creazione è posta, in quanto disposta a diventare Colui al quale tende (divinizzazione). Dio si è fatto uomo, perché la carne diventasse spirito.

“L’incarnazione di Dio è il caso supremo dell’attuazione essenziale della realtà umana, attuazione consistente nel fatto che l’uomo è colui che si abbandona al mistero assoluto che chiamiamo Dio” (Rahner, Corso fondamentale sulla fede, 285).

Ciò significa che la materia evolve verso quella pienezza di Dio che è lo spirito, assimilandosi sempre di più a Lui.

Alla domanda “Chi sono io?” e qual è la mia identità più profonda, è possibile dare una risposta facendo riferimento al fatto che la realtà è essenzialmente relazionale e dialetticamente dinamica, unione tra carne “e” spirito, tra creatura “e” Creatore, tra umano “e” divino. In questa congiunzione (non reciproca, ma asimmetrica) risiede l’identità propria dell’essere umano e di tutto il cosmo. Questa connessione (“e”) diventa, nella risurrezione, copula (“è”). La carne diventa spirito, l’umano diventa divino, il creato diventa increato.

La relazione trascendentale tra il finito e l’infinito – nella temporalità vissuta come congiunzione dialettica di spirito in potenza (materia) e di materia realizzata (spirito) – raggiunge il suo stato ultimo e definito (Ω), quello dell’origine eterna e originaria (A) di identità relativa con Dio stesso (A = Ω).

Se con il numero10” indichiamo Dio e con l’operazione della moltiplicazione tutte e ciascuna delle creature, si comprende che 10 = 5×2. Differenza (il numero non è l’operazione, ma il valore è lo stesso). Questo è ciò che “appare” nella risurrezione: fu così in Gesù, e sarà così per ciascuno di noi e per tutto il cosmo. Dunque, l’indiamento dell’umano in Dio, della carne nello spirito, del singolare in quell’universale concreto che è il corpo di Cristo.

ὁ θεὸς πάντα ἐν πᾶσιν.

Il Dio sarà, dunque/perché “è”, tutte le cose in tutte le cose (15, 28)

Come una Nube

L’Orazione di Quiete è un momento di silenzio e presenza in cui ci si distacca dalla frenesia della vita quotidiana per entrare in contatto con una dimensione più profonda dell’essere. Questo stato di quiete non è semplicemente assenza di rumore, ma un’esperienza attiva di presenza, in cui si presta attenzione al respiro, al corpo e al momento presente.

Nella vita quotidiana, rappresentata simbolicamente dal colore blu, siamo costantemente immersi in un flusso di eventi, pensieri ed emozioni che ci condizionano. Siamo come una bottiglia su un camion, trasportati da un luogo all’altro, soggetti a urti e fratture. La mente è spesso occupata da preoccupazioni, desideri e paure, e diventiamo “cose tra le cose”, perdendo di vista la nostra essenza più autentica.

Nell’Orazione di Quiete, invece, ci si distacca da questo flusso. Come suggerito da Meister Eckhart e dalla tradizione mistica, il distacco non è un rifiuto del mondo, ma un modo per osservarlo da una prospettiva diversa. È come sedersi sulla riva di un fiume: mentre l’acqua scorre, portando con sé pensieri, emozioni ed eventi, noi restiamo fermi, osservando senza essere trascinati. Questo distacco ci permette di accedere a una dimensione più profonda, quella dell’“Io-Sono”, in cui siamo presenti a noi stessi e alla realtà senza essere condizionati dalle cose esterne.

San Giovanni della Croce, nella sua poesia In una Notte oscura, descrive questo processo attraverso una serie di paradossi che invitano a superare l’attaccamento alle cose e ai desideri:

  • Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.
    Non è necessario rinunciare al piacere, ma riconoscere che il vero gusto emerge dall’“esserci”, dalla presenza autentica.
  • Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.
    Il possesso non è più legato alle cose materiali, ma scaturisce da un’esperienza interiore di pienezza.
  • Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.
    Non siamo “cose” da definire o possedere, ma esseri che trascendono le categorie del mondo.
  • Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.
    La vera conoscenza non è accumulo di informazioni, ma un’esperienza diretta della realtà.
  • Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.
    La vita non è fatta solo di momenti piacevoli, ma anche di difficoltà che vanno accettate e attraversate.

Questi insegnamenti ci invitano a superare l’attaccamento alle cose piacevoli e a confrontarci con le zone d’ombra della nostra esistenza. Solo attraversando il “niente”, il fallimento e l’ignoto, possiamo accedere a una dimensione più autentica, rappresentata dalla “nube della non conoscenza” dei mistici.

L’Orazione di Quiete è un’esperienza di distacco e presenza che ci permette di osservare la vita senza esserne travolti. Attraverso il silenzio e l’ascolto interiore, possiamo accedere a una dimensione più profonda, in cui l’“Io-Sono” si manifesta come essenza autentica del nostro essere. Questo processo richiede di abbandonare l’attaccamento alle cose e di accettare la vita nella sua interezza, con i suoi momenti di luce e di ombra.

Adhuc aliquid de persona dei non omittendum

Dio è personale. Tutto dipende da cosa si intende con tale parola. Per il teismo classico, Dio rappresenta la pienezza di tutta la realtà. Tutto ciò che esiste nel mondo, da noi percepito, esistaein modo più pieno e vero nella realtà essenziale di Dio. In questa visione, l’essenza di Dio include anche la personalità, ma Dio è infinitamente personale, più di quanto lo siamo noi. Noi, al contrario, siamo frammenti isolati di relazioni personali, incomplete almeno in questa vita.

La mia obiezione è rivolta a coloro che pensano Dio come un grande soggetto psicologico, qualcuno che attraversa cambiamenti di temperamento, che compie scelte o che prova pathos per essere considerato una persona. Tuttavia, nessuna delle tradizioni teistiche nega la natura personale di Dio nel senso più profondo, ovvero che Dio conosce, ama ed è in relazione con noi. Se pensi alla persona come capacità di relazione, allora la nostra personificazione è piuttosto imperfetta: siamo soggetti psicologici che spesso trattengono, non possono conoscere pienamente l’altro e non possono donarsi completamente.

L’ego psicologico empirico è spesso nemico dell’esistenza personale, non il suo fondamento. Coloro che vengono chiamati personalisti teistici, secondo il filosofo cristiano Brian Davies, riducono il concetto di persona all’idea di personalità così come l’intende la psicologia, cioè all’ego empirico. Penso che questa sia una nozione inadeguata non solo di Dio, ma anche della persona in sé.

Nell comprensione della persona, è importante collegare ad esso quella del tempo. Dio è al di fuori del tempo, Dio è eterno e vede in un unico istante tutto ciò che accade in ogni tempo. Se Dio fosse un essere temporale che attraversa cambiamenti e che potrebbe dire in un momento di volere una cosa e in un altro momento di volerne un’altra, allora sarebbe un soggetto psicologico. Questo lo renderebbe più simile alla concezione di persona così come la intendono alcuni filosofi e teologi del processo, o del teismo relazionale e personale. Tuttavia, se Dio è temporale, è anche un essere contingente, condizionato dall’esistenza. Per questo tipo di teismo, l’“eternità” diventa un tipo di necessità fattuale, ma ciò non basta per definire Dio. È necessario distinguere tra necessità assoluta e necessità contingente. La necessità logica è intrinseca a qualsiasi corretta definizione del divino. In tal senso, un Dio che si determina, anche a livello personale in relazione reciproca con gli esseri che lui stesso ha creato, diventa un Dio che soggiace al tempo, piuttosto che essere creatore del tempo. Meglio ancora, in quanto dell’essere, ed essendo l’essere essenzialmente temporale, creatore del tempo stesso.

Oltre al tempo, un altro elemento distintivo – per concepire il tipo di persona che vada predicato di Dio – è la nozione di passibilità. Nelle relazioni umane, amare spesso comporta passività: proviamo dolore per simpatizzare con qualcuno. Dio, invece, non richiede pathos; il Suo amore è l’atto infinito di ciò che Egli è. Egli ama senza bisogno del negativo, senza limitazioni.

Molti filosofi teistici moderni credono che Dio debba apprendere da noi per essere personale. Tale connessione tra persona e negatività non è affatto evidente. Non segue logicamente che l’essere persona, cioè relazionalità, implichi la nozione di negatività. In una certa e diffusa ontologia trinitaria, viene fondata questa intima connessione tra persona e negatività nelle distinzioni trinitarie. Poiché il Padre non è il Figlio, e viceversa – e così per tutte le altre persone trinitarie – ne segue che la negatività coabita in seno alla Trinità. Si fonda, quindi, su questa “negatività” trinitaria la passibilità di Dio nei confronti delle creature. Dio è capace di mutare, poiché è costituito dalla negatività, nel suo essere Dio personale.

In quanto perfezione, Dio è la negazione di ogni limite, di quella “negatività” che costituisce il finito in quanto tale. Gli esseri finiti, in quanto finiti e cioè determinati, partecipano dell’essenza infinita di Dio, indeterminata di Dio, nella loro costitutiva negatività. Quando il monismo relativo afferma attraverso l’equazione che lo rappresenta (x = x + y), che y = 0 cioè che l’essere finito non solo è creato dal nulla, ma permane nel nulla, vuole indicare tutto ciò che il finito “è”, lo è nella sua relatività all’infinito. Nel quarto dei suoi sermoni tedeschi, Meister Eckhart afferma che «tutte le creature sono un puro nulla. […] Esse sono un puro nulla. Ogni cosa non ha essere per sé, non è. Le creature non hanno essere poiché il loro essere dipende dalla presenza di Dio. Se Dio si ritirasse dalle sue creature anche per un solo istante, esse cadrebbero nel nulla. […] Se uno avesse l’intero mondo e Dio, egli non avrebbe nulla di più che se avesse solo Dio».

A questo punto, è importante una essenziale connessione tra le distinzioni intratrinitarie e la differenza ontologica tra Dio e il mondo. A proposito della creatura, si diceva poc’anzi che il nulla costituisce la creatura (y = 0). Il “nulla” in riferimento alla sussistenza della creatura è una indicazione della sua relatività-a-Dio. In se stesso, il nulla non è. In una ontologia relazionale, il nulla non è in se stesso (sarebbe una contraddizione), ma è “relatività”. Ne segue, quindi, che il nulla – anche nella Trinità – è la stessa relatività delle persone, e non la differenza tra le persone: il Padre “non-è” (1) il Figlio, il Figlio “non-è” (2) il Padre, il Padre “non-è” (3) lo Spirito santo, lo Spirito Santo “non-è” (4) il Padre e il Figlio”, il Figlio “non-è” (5) il Padre e lo Spirito, etc… Se seguiamo questa strada di identificazione della differenza con la negatività, segue logicamente che la Trinità non è costituita da tre persona ma certamente più di tre.  È una via questa, “differenza = negatività”, che non può essere utilizzata in ontologia trinitaria. La negatività non fonda la differenza, come affermano ontologie trinitarie in voga tra i teologi. La differenza, invece, è fondata dalla relatività. È una relatività differente. Una relatività che pone la differenza.

Il “nulla” non costituisce la trinità. È la relatività che la fonda. La relatività “è” la sussistenza di Dio. Dio è “relatività assoluta”. Che sia persona, lo è in relazione alle creature. Dall’eternità Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo secundum creaturam. Queste ipostasi sono modi di dire, metafore per indicare che l’identità di Dio è la sua stessa relazione alle creature. Da quanto detto, ne segue che non si può fondare la passibilità di Dio sulla negatività intra-trinitaria. Non è predicabile a Dio una reciprocità nella sua relazione alle creature, perché così facendo non solo si nega la creatività di Dio, ma si  “sostanzializza” il “nulla” affermandone l’alterità, e così affermando che il “non essere è” (contraddizione!), laddove, invece, non è il nulla che deve essere sostanzializzato, ma è la relatività della creatura che va sostanzializzato. La creatura è esse ad nel suo proprio essere.

Bisognerebbe ricordare quanto Karl Rahner disse in un suo saggio dedicato all’Agnosticismo cristiano.

A questo punto il teologo specialista e forse anche il cristiano normale sarà tentato di puntare minaccioso il dito e di dire: tu parli di un Es impersonale, che non è Dio personale, che ci parla e ci ama e che io prego. Tale obiezione può mettere in luce un pericolo insito nelle parole dette (e che forse fa sentire i suoi effetti nella mistica orientale), ma non coglie quanto intendevamo realmente dire. Esiste naturalmente un Dio personale, anche se riguardo a questa proposizione bisogna ricordare come, secondo il Concilio Lateranense IV, non possiamo affermare di Dio alcuna somiglianza con noi (quindi neppure quella di «persona»), che non sia superata da una più grande dissomiglianza del Dio «ineffabile».

Se si riflette su questo, non si ha più il diritto di deprezzare la menzionata esperienza come quella di un Es impersonale, ma siamo invitati a lasciar cadere ancora una volta la valida ‘personalità’ di Dio nell’incomprensibilità di Dio. Ovviamente bisogna subito aggiungere: noi accettiamo realmente tale incomprensibilità di Dio solo se preghiamo il Dio incomprensibile e gli diamo del ‘tu’. Qui possiamo lasciar da parte la questione se la possibilità di una simile relazione personale reciproca tra noi e Dio rientri già da sempre nell’essenza spirituale dell’uomo o sia resa possibile solo mediante la ‘grazia’, se in altre parole la pura umanità senza la grazia potrebbe legittimamente rimanere indifferente nei confronti del mistero incomprensibile. Di fatto noi ci sperimentiamo come coloro che sono chiamati da questo mistero, come coloro che possono e debbono avere l’incredibile coraggio di andare incontro – sperando, amando e pregando – a questa incomprensibilità di Dio come al mistero che ci accoglie. Se non voltiamo le spalle e non fuggiamo davanti a questo mistero, che sembra sollecitarci in maniera mortale, ma esigiamo da noi l’incredibile convinzione che esso ci si dona in quanto tale e un giorno sarà la nostra stessa perfezione, allora crediamo. Allora accogliamo il Dio ‘agnostos’, che è il fondamento del nostro vero agnosticismo, come il vero compimento”[1]


[1]   Karl Rahner, Motivazione della fede in un mondo agnostico, in Id., Scienza e fede cristiana. Nuovi saggi IX, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 184-191, ivi 188-189.


Della relazione “reciproca”

Sovente mi viene chiesto: Dio è persona? Cosa mai vuol dire che Dio è “trans-personale” e non personale?

Rispondo prima “no” e poi “sì”.

Dio è “essere”, “intelligenza e “volontà” ma non è “ente”, “intellig-ente” e “vol-ente”. Non fa delle scelte, decide qualcosa, e poi qualcosa d’altro. Non reagisce alle creature e “muta” ciò che ha deciso e pensato, a seconda di come le creature reagiscono. Pensare così la relazione “creatrice” tra Dio e mondo, è fondamentalmente aporetica. Contraddice l’essenza di Dio, se pensiamo questa essenzialmente “creatrice”.

Questa visione di Dio che agisce e reagisce alle creature che sono opposte/davanti a lui come “altre” (coram deo), è antropomorfa. Perché Dio sia coinvolgente, si finisce per renderlo troppo umano.

La reciprocità sussiste tra esseri dello stesso ordine ontologico: tra creature. In tal caso “A” interagisce con “B”, e “B” con “A”, proprio perché “B” è tale non senza la totalità di “non-A”. Questa totalità di non-A si dà come relazione di reciproca determinazione. Ma tra l’intero della totalità determinata – che è Dio – e una delle determinazioni della totalità, non si dà reciprocità. Se Dio è essenza creatrice, per cui “Dio” è ciò senza del quale nulla è, e la creatività informa sia l’essere che il suo agire, allora non si può dire che Dio sia in relazione reciproca con le creature. Non tanto perché Dio non voglia o sia distante, semplicemente perché non può, dato che è “Ciò senza del quale nulla è”. Se Dio è essenza creatrice, pensare altrimenti Dio significa contraddirsi. Pensare Dio senza che sia essenza creatrice. Infatti, cosa è mai “creatività” se non costituire l’altro come relazione a Dio nel suo totale essere. Se l’altro è nel suo essere costituito interamente dalla relazione a Dio, significa che non c’è alcun momento o attività in Dio per cui la sua creatività cessi di essere tale. Affermare che Dio è creatore e allo stesso tempo dire che Dio si lascia coinvolgere dalle creature, significa che Dio, essenza creatrice, non è Dio.

Non si rispetta così il principio di creazione. Cosa è mai tale principio se non affermare che tutto l’essere della creatura consiste nella relazione-a-Dio? Tale costituzione “ontologica” della creatura non cessa dal momento in cui è creata. Continua ad essere creata da Dio, il che vuol dire che da sempre e per sempre, la creatura è relazione totale a Dio. Questa relazione a Dio è ciò che rende la creatura “autonoma” e “relativamente” indipendente da Dio, cioè che la sua “in-dipendenza” non è altro che la relatività ontologica del suo essere. La creatura è tutta in questa relatività. Propriamente non c’è alterità “davanti” a Dio della creatura, in quanto la creatura sussiste tutta in Dio, cioè sussiste in quella relazione che Dio ha con la creatura. Qui è l’essenza del pan-en-teismo. Tutto il creato, e tutto dell’essere del creato, è “in” Dio. Ciò significa che se tutto è in Dio, non c’è dell’altro “fuori” di Dio, ma allo stesso tempo, non c’è “altro” che possa essere aggiunto a Dio. Il “tutto”, cioè la “totalità” è tutta in Dio. Dio è l’intero. Null’altro può essere aggiunto a Dio.

Dio + Mondo = Dio

Affermare che Dio continuamente si lascia determinare dalle creature, per cui da in-determinato diventa determinato, significa dire che Dio non è “già” Dio, ma lo diventa. Se Dio diventa Dio, perché le creature lo fanno diventare Dio, significa concepire la relazione tra Dio e le creature in maniera “reciproca”. Ciò significa, però, comprendere Dio senza il principio di creazione, cioè comprenderlo senza ciò che qualifica essenzialmente il suo essere, come di colui che fa essere le cose dal nulla. Non è un caso che la filosofia del processo, in particolare Whitehead, negano il principio della creatio ex nihilo.  Per questo finiscono per pensare Dio come finito tra i finiti, in reciproca relazione. Dio è creatore delle creature, le creature sono creatrici di Dio.

Vi sono teologi, però, che tentano di conciliare la prospettiva di Whitehead, affermando che la relazione tra Dio e creato è sì reciproca – per cui Dio si lascia coinvolgere dalle creature nella sua attività salvante – ma fino “ad un certo punto”. Qual è questo punto? Fino alla relazione creatrice di Dio, poiché in questo caso, ponendo totalmente in essere la creatura, Dio non può entrare in relazione reciproca con le creature, perché queste non vi sono “ancora”. E aggiungono, dato che porre nell’essere ex nihilo la creatura significa costituire questa come “altra” da Dio, ne segue che da quel momento in poi, la creatura entra in relazione “reciproca” con Dio. Ci chiediamo: ma la creatura non rimane sempre un “nulla” davanti a Dio, cioè tutta identica alla sua relazione-a-Dio? Potete ben capire che questi teologi passano da un’aporia ad un’altra in continuazione.

Ci possiamo chiedere: è possibile che ci sia una relazione reciproca tra Dio e la creatura che eviti l’aporia sopra menzionata? Sì, è possibile, ma solo se affermiamo che è Dio che si de-finisce. In tal caso Dio si determina come finito. Ponendo la sua “determinazione”, si finitizza come uno tra i finiti. Tale finito è l’espressione di Dio. Sua eterna manifestazione e rappresentazione. La creatura, manifestazione e determinazione di Dio, del suo esse-intelligere-volle, è eterna.

Non sono forse pieni della loro vecchiezza  quanti ci dicono : “Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti, continuano, stava ozioso senza operare, perché anche dopo non rimase sempre nello stato primitivo, sempre astenendosi dall’operare? Se si sviluppò davvero in Dio un impulso e una volontà nuova di stabilire una creazione che prima non aveva mai stabilito, sarebbe ancora un’eternità vera quella in cui nasce una volontà prima inesistente? La volontà di Dio non è una creatura, bensì anteriore a ogni creatura, perché nulla si creerebbe senza la volontà preesistente di un creatore. Dunque la volontà di Dio è una cosa sola con la sua sostanza. E se nella sostanza di Dio qualcosa sorse che prima non v’era, quella sostanza viene chiamata erroneamente eterna. Che se poi era volontà eterna di Dio che esistesse la creatura, come non sarebbe eterna anche la creatura?” (Sant’Agostino, Le Confessioni, Cap. XI, 10.12) .

L’eternità della sostanza di Dio non è risolvibile con la totalità degli enti. Se il tutto fosse ciò da cui sorgono le cose e poi ci ritornano, la totalità “aumenterebbe” con l’aggiunta di sempre nuove parti, così come “diminuirebbe” con la perdita di parti. Il tutto è sempre condizionato dalle parti, e le parti dal tutto.

Può Dio essere questo tutto, oppure Dio è “altro” dal tutto? Qui si differenziano le risposte teoretiche. La prima afferma che Dio non è altro che il tutto, per cui Dio diviene continuamente. È un infinito potenziale. Dio “sarà” Dio, ma ora non lo è ancora.  La seconda, invece, afferma che Dio è “già” Dio. Dio è l’intero che contiene il tutto che diviene continuamente. Dio è l’infinito attuale, l’intero, che include l’infinito potenziale ma non si risolve in esso. Il cosmo ( = il TUTTO) è “in” Dio e Dio è nel tutto come quella creatività che fa sì che l’infinito potenziale si realizzi sempre di più. L’intero non è il tutto. Dio non è il cosmo, e il cosmo non è Dio. Ma il cosmo è “in” Dio. Dio è l’intero come relazionalità assoluta da cui emergono tutte le cose e la totalità stessa come infinito potenziale. La relazionalità assoluta “tiene insieme” ogni cosa e fa sì che le cose tra loro siano unite, e non separate. L’intero è logos. Il logos è relazionalità assoluta, potenza creatrice di tutto. È assoluta (ab-soluta) perché sciolta, senza essere a sua volta legata ad altro che a se stessa. Distaccata e incondizionata. Quiete, deserto, silenzio. Trasparenza. “Sostanza, essenza, natura divina, la quale è, essa sola, principio di tutte le cose, e fuori della quale non se ne può trovare altra. Essa non genera, non è generata, non procede” (Concilio Lateranense IV).

In questo modo, Dio non entra in relazione reciproca con le sue manifestazioni, per il semplice fatto che sono già le sue manifestazioni. Per questo motivo Tommaso d’Aquino afferma che tra Dio e le creature c’è una relazione non reciproca, ma una relazione “logica” nel senso che questa è nel suo logos, nella sua essenza creatrice da sempre.

Se nel caso dei teologi processuali, Dio viene determinato dalle creature e quindi queste “aggiungono” ulteriori determinazioni all’essere divino che prima non vi erano ancora, nel secondo caso, Dio non deve aggiungere “altro” di quello che é, poiché la totalità di tutte le determinazione è già da sempre “in” Dio. Panenteismo.

Affinché la verità del coinvolgimento di Dio con le creature sia pensato senza contraddizione, è necessario che Dio si finitizzi nella creazione, cioè diventi creatura, e come creatura interagisca con le altre creature. Questa finitizzazione di Dio è la sua de-finizione. Dio “diventa” un finito tra i finiti, creatura tra le creature. Ma cosa è mai mai definizione creaturale di Dio se non la sua “incarnazione”? Deus creat assumendo, assumendo creat (Agostino). In questa definizione di Dio, resosi finito tra i “finiti”, Dio è in relazione reciproca con il mondo e le sue creature, ma non in quanto Dio creatore, ma Dio incarnato. Come creatura, Dio si lascia coinvolgere dai finiti, in quanto finito lui stesso. La de-finizione di Dio è l’incarnazione. Affermando che Dio crea, non si aggiunge nulla all’essere di Dio, poiché Dio è essenza creatrice. La creatura, in cui Dio si esprime e si rende presente (deus creatus), è l’espressione e l’immagine di Dio (deus creator).

Così ritorniamo alla questione iniziale. Si può dire che Dio è “persona”? Rispondo di sì,  ma non che sia intelligente e volente, che decida di volta in volta qualcosa in risposta alle creature, per cui continua a determinarsi in relazione alle creature. Dio è esse, intelligere et volle. Dio diventa “ente”, “intelligente” e “volente” solo come creatura tra le creature. In questo modo è una “persona che intende”, vuole e decide. Ente tra gli enti. Finito tra i finiti. Dentro all’orizzonte del finito, è possibile  predicare una relazionalità reciproca. In quanto esse, intelligere et volle (essere, comprendere e volere), Dio è trans-personale.

Come rispondere all’obiezione per cui si può dare una relazione reciproca tra Dio e la creazione, dato che Dio si relazione “reciprocamente” così come lo fanno le persone divine nella Trinità? Rispondo dicendo che la relazionalità divina informa la relazionalità creaturale, senza che questa “contraddica” quella. Senza confusione e senza mutamento, ex parte dei. “Dio” trinità si relaziona alle creature e Dio Trinità è essenza creatrice. Tuttavia, tale relazione è logica, cioè del logos divino, della mente divina, eterna come l’essere di Dio. Senza separazione e senza divisione, ex parte dei. Il principio di creazione si regola secondo la grammatica di Calcedonia, cioè dell’incarnazione. Tra Dio e creatura, così come tra divinità e umanità c’è una unione senza confusione e senza mutamento, senza separazione e senza divisione. Deus creat assumendo, assumit creando.

CONTENTO SENZA CONTENTINO

Sono contento di questo, era ora! Essere contento non significa basta il contentino.

Liberi di vivere la fede nessuno lo può impedire. Tuttavia, la fede dice VITA e DOTTRINA. La dottrina cattolica non ha ancora accolto ciò che i cattolici LGBT vivono nella loro fede, cioè che quella loro relazione omoaffettiva (fides quae), è credibile, cioè conforme alla fides catholica.

La libertà religiosa è stata riconosciuta ad ogni persona dalla Dignitatis Humanae, ciò non vuol dire che l’islam – per esempio – è la dottrina cattolica.

I cattolici LGBT+ possono vivere la loro fede ma non credere che ciò che vivono sia di fede. Mi chiedo “vivere una fede che non è di fede” non si avvalora il soggettivismo? Vivete come volete, ma ciò che credete di vivere non sta nel Catechismo, dunque non è di fede.

Da un lato si combatte il soggettivismo, la spiritualità senza carne, e poi si invita a credere senza dottrina. Cioè essere uomini e donne “spirituali” senza la carne.

Doppio messaggio? Ma no…. un piccolo passo avanti.

Di questo sono contento. Il contentino non mi basta.

Stravolgimento della fede?

Fra le varie critiche rivolte al post-teismo, quella più comune e, direi, più efficace è stata quella di rimproverare ai post-teisti (benché varie siano le forme di post-teismo in circolazione) di “stravolgere” la fede cristiana.

Secondo costoro, l’interpretazione post-teista conduce a un cambiamento radicale e distorsivo della fede cristiana, alterandone profondamente la natura originaria, togliendo equilibrio e coerenza tra i vari contenuti di fede (cioè i “dogmi”) e rendendola irriconoscibile rispetto alla sua forma iniziale (cioè il kerygma, l’annuncio di Gesù).

Si tratta di uno stravolgimento che deforma l’essenza del cristianesimo, più che riformarla.

Ci sono post-teisti (ma io non sono tra questi) che non si lasciano scalfire da questa critica. Chi sta da una parte, chi dall’altra. Due mondi opposti. È come se si parlassero due lingue diverse, usando le stesse parole, ma dando loro significati completamente diversi.

Per esempio. I teisti dicono che Dio è la Vita del mondo. Il Verbo della Vita (il Logos presso Dio Padre) è Colui (= PERSONA !!!) che ha creato tutti gli esseri viventi.

No, non è così… La Vita è Dio, dicono i post-teisti. Con “Vita” , intendendo la forza creatrice immanente al cosmo che dà origine, mantiene in vita e agisce in tutte le cose. Come l’acqua dell’oceano è la Vita per tutti gli organismi, così il Mistero (che può essere chiamato “Dio”) è l’energia che dà forma a tutte le cose del cosmo. Una sola parola, “Vita”, ma usata in modo diverso. Solo una debole analogia tiene ancora insieme questi due significati, evitando che l’uno imploda nell’altro. Energia diventa Dio, Dio diventa Energia. “Post -….cristianesimo”.

Tutto questo mi addolora. Crux intellectus

Ci troviamo a una fase di “fraintendimento” . Il linguaggio limita la nostra comprensione della realtà, ma anche reciproca. Fischi per fiaschi. Siamo in bilico tra l’equivocità e l’analogia. È bene rendersene conto. Le opposte interpretazioni vengono viste parziali, ma nella maggior parte dei casi, errate. Tu hai torto, miscredente (i teisti ai post-teisti); Tu sei immaturo e mitico (i post-teisti ai teisti).

Questo fraintendimento non è intenzionale, ma è dovuto a una certa incapacità o difficoltà di cogliere il significato autentico delle parole usate da entrambe le parti. Sarebbe necessario dare spazio al praesupponendum di Ignazio di Loyola che al n. 22 degli Esercizi dice:

Bisogna presupporre che ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare una affermazione del prossimo che a condannarla; e se non può salvarla, cerchi di sapere in che senso l’intenda, e se l’intendesse in modo sbagliato, lo corregga con amore; e se non basta, cerchi tutti i mezzi convenienti perché, intendendola rettamente, si salvi. 

È necessario andare oltre ciò che è stato frainteso. Stravolgimento, fraintendimento verso un trascendimento che porti a un significato più alto e autentico.

Questo processo di stravolgimento, fraintendimento e trascendimento si verifica anche nella comprensione dell’essenza del cristianesimo.

I due termini coinvolti sono “umanizzazione di Dio” e “divinizzazione dell’uomo”.

Possono essere messi insieme? Cosa viene prima: l’umanizzazione o la divinizzazione? L’andare di Dio verso l’uomo (umanizzazione del divino) o l’andare dell’uomo verso Dio (divinizzazione dell’umano)? Si tratta di due facce della stessa medaglia, oppure di due realtà profondamente diverse e inconciliabili?

L’incarnazione di Dio è l’essenza, il cuore, l’ubi consistam del cristianesimo. Senza questo evento, singolare e unico del Verbo che si è fatto carne, la fede cristiana diventa un mito, come tutti gli altri miti, dei greci, degli gnostici e indù!

L’evento è storico – dicono questi teisti – sì, il Verbo si è fatto carne. Senza questo fatto storico, senza questo incontro, non si ha fede cristiana.

Ed è vero… Gesù è un evento storico. Neanche un ateo lo mette in dubbio. Ma chi è questo Gesù? Come mai siamo finiti a considerarlo “Dio”?

L’umanizzazione del divino è ciò che caratterizza la religione, è l’essenza del mito che riduce Dio a immagine dell’uomo, proiettando su di Lui caratteristiche e limiti umani. Così con San Nicola (che diventa Babbo Natale), così con Gesù (che diventa il Verbo di Dio).

Questo processo è un camuffamento o un’astrazione che oscura la vera natura dell’Assoluto, trasformando Dio in un’entità antropomorfizzata. Una rivelazione del vero che si vela di mito. Questa prospettiva, già criticata da Feuerbach, comporta un oscuramento dell’umano e una visione distorta della relazione con Dio.

Ben lo sapeva Tommaso d’Aquino per il quale nell’incarnazione non è Dio che si è unito alla creatura, ma la creatura è stata unita a lui, senza mutamento di Dio (STH III, q. 2, art. 7, ad primum). Solo secondo il nostro modo di pensare, dal “nostro” punto di vista, si viene a dire e a pensare l’incarnazione “come se” Dio fosse divenuto uomo. Un dio disceso sulla terra.  Parlandone così e pensando che sia davvero così avvenuto, il credente diventa un ascoltatore di miti e non più della Parola di Dio. In Nome di Dio è necessario distruggere l’idolo “devoto”, attraverso la de-mitizzazione e la riforma del teismo caricaturale (teismo aperto e personale).

Dove sta il fraintendimento? Non si tratta di due entità (Dio e cosmo), ma di due punti di vista totalmente differenti.  

In realtà, non è il Dio che si è fatto uomo, ma l’umano che è stato trasformato, realizzando pienamente la sua condizione creaturale. La “divinizzazione” è il modo proprio con cui esprimere la novità del Natale, non dal “nostro” punto di vista (secundum rationem) ma dal punto di vista della fede (secundum fidem), cioè dal punto di vista di Dio.

Per noi che stiamo sulla terra, è naturale vedere che il sole sorga e poi tramonti. Sale e scende. Se fossimo “fuori” dalla terra e fossimo sul sole “dentro al sole”, “tutt’uno con il sole”, vedremmo la terra girarci attorno, non vedendo più il sole, perché ci saremmo dentro. Divenendo Dio, avremmo realizzato la fede… E il sole sarebbe scomparso. Dio non sarebbe più coram nobis, sed in nobis. Erimus sicut deus.

Qual è il punto di vista “vero”? Quello della terra o del sole? Se la terra è l’umano, e il sole è il divino, ne segue che dal punto di vista umano, secondo la nostra ragione, è naturale che Dio discenda e poi salga in cielo. Per la ragione (mitizzante) è Dio Colui che si muove, diventando ciò che non era. Ma dal punto di vista di Dio, che è quello della fede-che-tende-alla-visione-divinizzante, Dio né scende, né sale. Dio non diviene! Siamo noi che ci muoviamo, e diventiamo ciò che non eravamo. L’umanizzazione di Dio è un’astrazione! Appunto una “(c)-astrazione” mentale. Sacrificium mentis. Una bella favola come quella di Babbo Natale. Con l’obbligo però di crederci, altrimenti si diventa atei!

È meglio diventare atei che (…) astrarsi la testa e il cuore.

E Pascal preferiva seguire le favole della fede, piuttosto che l’evidenza della ragione che rischiarava la fede (fides quaerens intellectum).

Il carattere unico del cristianesimo non è la riduzione antropomorfica del divino propria della religione e della ragione mitica.

Questo è lo stravolgimento del cristianesimo! Ed è ciò che i post-teisti non fanno!

Invece, sono alcuni teisti che rendono Dio così umano da farlo uno di noi, miserabile come noi, dicendo così di onorare il Dio vero, senza accorgersi che è riconoscendo l’innalzamento dell’umano alla dimensione divina nella ragione (mistica) che si diventa uomini di fede.  

Dio è sempre stato umano (ab aeterno in aeternum), e mai lo è divenuto e diverrà (deus non fit homo). Questa convinzione vitale è il cuore della mistica. Vivere in/di Dio.

La divinizzazione dell’umano è il cuore del cristianesimo. L’essenza della fede cristiana mira a far vivere l’umano in pienezza, in modo assoluto e trasparente, grazie a quella identità divina (numero “10”) di cui l’umano ne è l’espressione (5 x 2). Dio sono io, siamo noi, tutto il cosmo è Dio.

Dio è il Dio vivente, in cui credo ed è Colui che la Vita, e conduce alla Vita il mondo – come confessa il Credo. Il divino non è qualcosa che soffoca l’umano, appesantendolo con codici e norme, vincoli sacri e favole mitizzanti il Dio, ma è la vita più profonda di ciò che sono (10 = 5×2).

Vivere l’umano in modo “divino” significa essere pienamente uomini.

Senza stravolgimento o fraintendimento. Ma solo, trascendimento dell’umano nel divino.

I tre principi fondamentali

Questi sono i tre fondamentali principi del Monismo Relativo

  1. Intrascendibilità della consapevolezza
  2. Intranscendibilità della relazione
  3. Intrascendibilità di ciò di cui non si possa pensare il maggiore che è ciò senza del quale nulla è – ciò che comunemente viene chiamato “Dio” –

L’intrascendibilità della consapevolezza.

Il dato di partenza è l’esperienza. Nulla si dà di ciò che conosciamo che non sia un dato di esperienza, e se è un dato di esperienza, ciò significa che “appare” nella Consapevolezza.

Affermare che Qualcosa (di materiale o spirituale, inorganico o organico, animale o personale) c’i sia al di fuori e al di là della consapevolezza, è compiere un puro e semplice “atto di fede”.

Dunque, è “per fede” che affermo che c’è la materia o Dio là fuori oltre la consapevolezza, poiché ciò che sperimento è innanzitutto dell’esperienza ovvero un contenuto di esperienza.

Ci si può chiedere: tutto ciò che accade nell’orizzonte della consapevolezza è anch’esso “consapevolezza”, cioè ontologicamente “mentale”? A tale domanda, rispondo: l’evidenza immediata è che ciò che appare nella consapevolezza è un dato di esperienza, nel senso di genitivo soggettivo. È qualcosa dell’esperienza, è un suo contenuto di esperienza. Poiché l’esperienza è “mentale”, anche il suo contenuto è mentale.

Tutto ciò che appare nella consapevolezza è “fatto” di mentalità, cioè è “immateriale”.

Il contenuto di esperienza (gen. Soggettivo) è nonmateriale.

Affermare la non-materialità del contenuto di esperienza significa che la determinazione e la discrezione di tale contenuto è una interpretazione dell’esperienza: «questo vuol dire che i modi della coscienza costituiscono i modi dell’apparire dell’essere. Il problema non è allora se vi sia dell’altro dalla coscienza, bensì con quale senso l’altro si dia a coscienza» (Virgilio Melchiorre, Dal principio di Parmenide alla fenomenologia trascendentale, Milano 2013, 9).

Che ci sia “materia” fuori della coscienza è una interpretazione del dato vissuto, esperito. Nel caso in cui tale “oggetto”, fuori e al di là della coscienza, sia considerato come il fondamento della realtà stessa, il cosiddetto “assoluto” che spiega tutto, tale realtà ultima può essere determinata come “materiale” (fisicalismo) o come “nonmateriale” (religionismo). Il fisicalismo afferma che tutto è riducibile alla materia, al non mentale, anche la coscienza, il mentale non è altro che il risultato di processi quanto più complessi della materia, ma sempre riducibile alla materia. Tutto è materia, e nient’altro che materia. Il religionismo, invece, afferma che tutto è riconducibile all’atto creatore di Dio. In virtù del concetto di creazione, creatio ex nihilo, ciò che è al di fuori della coscienza, non è solo “al di là e fuori” dalla coscienza, ma anche “separato”. Dio è realtà assolutamente trascendente. In tal caso l’atto di fede con cui viene affermato il Qualcosa al di là della consapevolezza è accresciuto a motivo della separatezza di Colui che è creatore.

La relazionalità costitutiva della realtà, quindi della consapevolezza.

Ri-conoscere l’intrascendibilità della consapevolezza significa affermare anche l’intranscendibilità della relazione. Infatti, nel riconoscere la consapevolezza, dico anche della relazione tra il mio atto di esserne consapevole e la consapevolezza stessa. L’immediatezza di questa consapevolezza dice che una relazione in-dicibile e im-pensabile si dà nella consapevolezza. Nella sua immediatezza si dà questa consapevolezza; proprio nell’essere già coinvolto nella relazione si dà l’intranscendibilità della relazione. Se non ci fosse relazione (implicita) non sarei consapevole della consapevolezza.  

Solo in questo modo si può affermare che la relazionalità non solo della mia consapevolezza e del mio essere, ma dell’essere in generale, è una relazione intrinseca, essenziale: «essere è relazione» (p. 114). «Essere in relazione vuol dire essere in movimento, nel senso di quella tensione verso altro che attraversa ogni cosa. È a partire da qui che può essere meglio compresa la possibilità di ciò che abbiamo chiamato “coinvolgimento”» (p. 114).

«L’identità è costituita dalla relazione. Prima di ogni determinazione […]» (p.115); «io sono altro (intendendo di nuovo il verbo “essere” come essere in relazione ed essere relazione)» (p. 116). L’identità, così anche l’essere, è compresa come una rete (con): intrinseco coinvolgimento di identità e alterità. Ma se è vero che l’essere è compreso come una rete e questa rete di connessioni è la relazionalità costitutiva dell’essere, e la relazionalità (relatio) è l’identità, l’essenza, la sostanzialità di tutte le cose, ne segue che i nodi che si stringono e si sciolgono di questa rete, sono le soggettività/oggettività.

L’origine, l’assoluto, proprio perché è pensato, è “implicitamente” relazione: non è assolutamente trascendente, ma trascendenza relativa. L’ “esplicitazione” della relazione avviene attraverso la determinazione dei suoi termini (terminus a quo e terminus ad quem). In tal caso la relazione si realizza, si attua. Esce dalla sua possibilità ed entra “in relazione”. “La medietà della relazione non è però quella del terzo tra due sostanze, ma di quel processo che viene prima e che realizza l’apparire dei fenomeni” (Filosofia delle relazioni (= FR), 15)

L’universale non va pensato come qualcosa di astratto e ab-solutum (s-legato), ma intrisecamente vincolato al concreto e alla situazione.  Fabris fa notare che proprio qui si rivela la novità cristiana.  Se il Verbo si è fatto carne significa che l’universale logos  non è più da concepirsi astratto e separato ma concreto. L’assoluto è rinvenibile e riconoscibile nel particolare e nel singolare. «Infatti non è il relativo, qui, che cerca salvezza con riferimento a un assoluto, lontano e separato da esso, ma è l’assoluto che si fa relativo, e che anzi è tale, pur restando assoluto, e proprio per questo salva; non è l’astratto che si manifesta allo sguardo contemplativo del concreto in tutta la sua lontananza ed estraneità, ma esso, piuttosto, nel concreto s’incarna, in esso agisce, pur non eliminandone la concretezza» (p. 125).

Nella contingenza del concreto, nell’accidentalità storica, l’assoluto si fa singolare, tra i singolari, senza discriminare gli altri singolari, o preferendo uno rispetto ad un altro. Tale differenza avviene nella storia, nella contingenza, senza presupporre una scelta dell’assoluto.   

Il carattere “divino” dell’orizzonte intrascendibile della consapevolezza

L’intuizione di Sant’Anselmo consiste nell’aver tematizzato l’inseparabilità e l’intrascendibilità del pensiero di Dio. Pensando l’essere di Dio, ciò di cui non si può pensare qualcosa di maggiore, il pensiero, sporge oltre se stesso. Il pensiero, infatti, intenziona Dio, ciò di cui non si può pensare il maggiore. Dio trascende il fatto di essere una semplice rappresentazione, un  contenuto semplicemente pensato. È più che un pensiero, benché il pensiero di ciò che è la realtà più grande. Allo stesso tempo, è pur vero che pensando Dio, questa “alterità” che Dio rappresenta per il pensiero, non è assoluta ma relativa, proprio perché viene pensata dal pensiero. Il pensiero, quindi, rimane “intrascendibile”, nulla si dà al di fuori e oltre il pensare, anche nel caso del pensiero di Dio.  

Ripetendo: Dio è Qualcosa di cui non si può pensare qualcosa d’altro di più grande. È l’assoluto. Ma possiamo chiederci: è più grande anche rispetto al pensiero che lo pensa oppure pensando l’Assoluto, il pensiero si accorge di esserlo, l’assoluto. È a questo punto che il pensiero finito si accorge di essere compreso dal pensiero infinito.

Se Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore, significa che l’essere di Dio è “intrascendibile” ed è “inseparabile” da pensiero stesso. Tra Dio e pensiero c’è originaria identità. “Dio è ciò di cui non si può pensare il maggiore. E tuttavia l’intelletto, l’intelletto finito, come tale appunto lo pensa” (p. 42).

Laddove, il pensiero finito va oltre se stesso, lì c’è l’essere (di Dio). Dio è il limite del pensiero. Tuttavia, pensando questo limite, il pensiero si avvede che certamente è limitato dall’essere di Dio che pensa, ma “pensandolo” il pensiero finito si avvede di essere “Ciò che viene pensato”. Si accorge non solo che Dio e pensiero si implicano vicendevolmente, ma che il pensiero pensa se stesso in quanto limitato dall’essre di Dio poiché “risiede” nel pensiero infinito di Dio.  

Nella dimostrazione di Sant’Anselmo, il pensiero si trova già in una relazione originaria che è alloquium, cioè preghiera. La dimostrazione di Dio, l’aderenza tra pensiero ed essere che implica adesione, si realizza all’interno di quella relazione tra Dio e uomo che è la preghiera, ovvero la fede come modalità di coinvolgimento.

L’intuizione anselmiana del pensiero proseguirà nel cogito di Cartesio. Con Cartesio, l’alterità dell’alloquium viene ridotto al cogitatum:  lo sfondo del pensiero non è più il Tu ma il cogito. Ciò porterà al trascendentalismo kantiano dell’Io penso e allo Spirito assoluto di Hegel. L’essere è posto dal cogito ed è il Soggetto a dare senso a tutto.

Ma se io do senso a tutto (cogito, ergo sum), chi dà senso al cogito?

L’origine del pensiero è apofatico, non-detto, ma è ciò che fonda il detto. Per comprendere meglio dove risiede l’origine del pensiero potremmo servirci della figura del Padre. Per la fede cristiana, il Figlio è la Parola. Ne segue che il Padre – che è origine della Parola – è non-Figlio, non-Parola: dunque, Silenzio. L’origine del pensiero è il Silenzio. L’originario “Tu” della relazione è il Silenzio.  “Il Padre è il silenzio da cui la Parola è generata. Cristo – afferma sant’Ignazio – è «il Verbo procedente dal Silenzio». La creazione avviene attraverso la Parola ma questa emana dalla profondità del Silenzio“(Ignazio di Antiochia, Ad Magnesios, 8). Per Ignazio di Antiochia, «il Signore lo si conosce nel suo silenzio» in quell’«incavo», in quella caverna, che è il grembo di tutte le cose. Dimensione costitutiva non solo della parola umana ma del logos divino. «Il principio è dato nel suo dare senso. Ma, appunto, è semplicemente dato. Senza un perché» (Adriano Fabris, TeorEtica, p. 66). Il Silenzio fonda il senso s-fondandolo. Prima di ogni dire c’è la possibilità della relazione. La relazione come Possibilità. Relatio est possest, con Nicolò Cusano. Sì è vero. Le radici del nichilismo possono essere qui. Il Silenzio che precede la Parola è senza volto, non ha un senso, nella triplice accezione della parola: senso come significato, direzione e sentire che implica coinvolgimento.  «[…] senso è ciò che è proprio in quanto coinvolge, proprio perché è relazione in atto» (p. 76). Ciò di cui Adriano Fabris non si accorge è che il coinvolgimento – parola ripresa dal teologo tedesco Dio, Jürgen Werbick, in uno dei suoi libri… più coinvolgente, appunto dal titolo: Un Dio coinvolgente. Dottrina teologica su Dio – è il modo attivo in cui si dà la relazione incondizionata, apparendo nel suo dire, cioè nella sua Parola.

A questo punto vorrei far riferimento a quel silenzio evangelico in cui è immerso il Gesù crocifisso e abbandonato da Colui che è invocato come Padre. Sulla croce non appare un “convolgimento” del Padre. Tutto tace. La domanda “Mio Dio , mio Dio, perché mi hai abbandonato” è quella domanda della Parola, La Parola che si fa domanda, e viceversa. Nel domandare, la Parola si approfondisce nel Silenzio, si rituffa nell’oceano del silenzio d’origine, senza alcuna risposta.

Questi tre fondamentali principi

  • Intrascendibilità della consapevolezza
  • Intranscendibilità della relazione
  • Intrascendibilità di ciò di cui non si possa pensare il maggiore che è ciò senza del quale nulla è – ciò che comunemente viene chiamato “Dio” –

ci permettono di superare le aporie non solo del fisicalismo ma anche del religionismo. Tale interpretazione conferma quanto affermavo prima a proposito dell’aporia del fisicalismo. Tutto ciò esiste esiste nella consapevolezza e non oltre di essa. Nulla esiste al di fuori della coscienza, poiché affermarlo vorrebbe dire contraddirsi, poiché si affermerebbe di sapere che qualcosa esiste al di là della percezione senza averlo percepito.

Nel religionismo come nel fisicalimso, abbiamo una fede, non tanto nel mondo materiale ma in Dio, che è “creatore” di questo mondo (materiale e non-materiale). A differenza del fisicalismo che crede nel mondo materiale, la religione crede nel mondo divino, nel mondo non-materiale. Possiamo a questo punto riferire della “fede” quanto prima dicevamo dell’osservazione (“scientifica”). 

Come il fisicalismo afferma che un mondo materiale esiste senza averlo percepito, per cui esercita un atto di fede, così la religione afferma che un Dio esiste senza avere fatto esperienza, per cui esercita un atto di fede. Ma che cos’è mai un atto di fede? È un atto consapevole, innanzitutto. So di credere.

La consapevolezza è orizzonte intrascendibile sia della percezione “di contenuti mondani” (la materia) che dell’esperienza “di contenuti non-mondani” (il non-materiale).

La consapevolezza è “ciò senza del quale nulla è”. Per questo è orizzonte “intrascendibile”. Ogni esperienza “avviene” nell’orizzonte della coscienza. Ogni tipo di esperienza. A questo punto tale carattere ultimativo della consapevolezza è ciò a cui ogni esperienza con i suoi contenuti va ridotta. Le esperienze sono manifestazione della consapevolezza.

Come l’esistenza della “materia” è creduta “oltre” la coscienza, così l’esistenza di un “Dio” che non sia la stessa consapevolezza – in cui ogni cosa avviene ed è esperita – è un atto di fede in qualcosa di altro dalla consapevolezza. Ma tale atto di fede è pur sempre un’esperienza e quindi avviene nella consapevolezza. 

La religione “astrae” (così come fa anche il fisicalismo) il contenuto proprio dell’esperienza religiosa “il divino” dalla condizione in cui si dà esperienza che è quello della Pura consapevolezza.

La religione è nata dall’aver separato la pura consapevolezza o “Io Sono” da Dio. Ciò senza del quale nulla è, non è altro che Dio, tale Dio (Essere) è Pura Consapevolezza (Noein).

Aveva quindi ben ragione Martin Lutero nel suo Commento alla lettera ai Galati – e prima di lui il mistico Angelus Silesius – che la fede è “creatrice” della divinità, cioè l’esperienza di fede è ciò che crea il divino. “Ma che cos’è Dio, che cosa vuol dire avere un Dio? Le due cose, la fede e Dio, non si possono disgiungere. Ed in verità è tuo Dio ciò a cui dài il cuore ed in cui confidi”.

Ci troviamo in una fase importante del dialogo tra scienza e religione. Il superamento del fisicalismo con la sua aporia, cioè che esiste un mondo esterno a noi da cui emerge il mentale, porterà anche a superare il religionismo, cioè la credenza che esista un Dio creatore che produce un mondo e noi con esso esterno al suo essere.

Post-fisicalismo e post-religionismo sono due momenti dello stesso kairòs che stiamo vivendo. La transdisciplinarietà di cui parala Papa Francesco è far convergere quanto avviene nella scienza e nella spiritualità, ed anche nella filosofia, verso un rinnovato interesse per la coscienza, la consapevolezza. Mettendo in dialogo scienza e fede, ma anche tradizione mistiche dell’oriente e dell’occidente.

Una comprensione nonduale di Dio

Una valutazione critica della reciprocità tra Dio e la creazione. Oltre la teologia del processo e il teismo aperto

Comprendere la relazionalità come reciprocità significa riconoscere che la tensione verso l’altro provoca una risposta reciproca, che riguarda tre dimensioni: l’io, il tu e la relazione stessa.
Se ci fosse una relazione veramente reciproca tra Dio e la creazione, significherebbe che Dio, la creazione e persino la natura stessa del creato sono tutti modificati. Tuttavia, se comprendiamo appieno che cos’è il creato, vediamo che non può essere alterato in alcun modo. Il creato non è una “cosa” a cui si aggiunge un’altra relazione; è una dipendenza totale e radicale da Dio. Di conseguenza, non può essere “modificata”, né può diventare “più dipendente” da Dio, perché tale dipendenza è assoluta.

Da parte di Dio, la realtà di Dio è immutabile, il che significa che la creatura non può cambiare Dio in qualcos’altro. Se ciò fosse possibile, Dio non sarebbe più l’Unico “senza il quale nulla è”. Se la creazione potesse modificare Dio, qualcosa di esterno avrebbe potere su Dio. Ciò implicherebbe che questo “qualcos’altro” non dipende totalmente da Dio, quindi Dio non sarebbe più “ciò senza il quale nulla esiste”.

Chi sostiene che Dio non può essere cambiato dalla creazione, ma può essere cambiato parzialmente, è incoerente. Secondo le Scritture, Dio si lascia muovere dalla compassione per le creature. Dio ama, e questo comporta non solo amare, ma anche essere amato e colpito dalle creature. Quindi, come rivela la Bibbia, Dio è effettivamente colpito e spinto alla vulnerabilità.

Alcuni, come Blaise Pascal, suggeriscono di “abbandonare” la nozione puramente filosofica di Dio a favore di quella biblica. Egli notoriamente osservava: “ Dieu parle bien de Dieu” – solo Dio parla veramente di Dio. Tuttavia, è possibile tenere insieme l’immutabilità di Dio (affermata dalla filosofia classica) e la testimonianza biblica dell’apparente “cambiamento” o emozione di Dio in relazione alla creazione, se comprendiamo che Dio è l’essere-con-creazione da tutta l’eternità.
La relazione eterna di Dio con la creazione è logica piuttosto che “reale” in senso strettamente metafisico.

Dicendo questo, non stiamo suggerendo che Dio sia indifferente al mondo o distante in idee elevate, privo di compassione e amore – tutt’altro. Parlare di Dio come di una “relazione logica” con il mondo significa che il logos stesso di Dio è “essere-con-creazione”; la natura stessa di Dio (logos ed esse) include questa eterna relazione con il mondo, perché “esse est relatio”. Dio non diventa “più reale” quando la creazione emerge dal nulla attraverso la causalità divina efficiente. In altre parole, l’essenza di Dio non è separata dalla relazione creativa con il mondo, perché l’essenza divina stessa è creatività. Questa relazione eterna è ciò che intendiamo per amore incondizionato di Dio.

Tommaso d’Aquino coglie questo principio nell’affermazione Creatura in Deo est creatrix essentia (“La creazione in Dio è l’essenza creatrice”). Ciò implica che l’“alterità” della creazione può essere vista come parte dell’essenza di Dio, purché non si aggiunga a Dio. Senza la creazione, Dio non sarebbe “meno” o “più” Dio. Se Dio potesse diventare “meno” o “più” in relazione alle creature, allora Dio sarebbe finito e quindi condividerebbe una proporzione con il creato. Ma finitum ad infinitum nulla proportio– tra finito e infinito non c’è proporzione. Di conseguenza, dobbiamo considerare il rapporto tra Dio e la creazione in modo non competitivo (non a somma zero). Le idee di “più” o “meno” si applicano solo all’essere creato (esse creatum), non all’essere increato (esse increatum).
Possiamo mantenere sia la “creazione che la creatività” in senso non duale, non affermando una dipendenza reciproca tra Dio e il mondo, ma sostenendo contemporaneamente la creazione del mondo e la creatività eterna di Dio. La creazione di Dio non è un’aggiunta a Dio. Piuttosto, essa preserva sia la libertà divina che la contingenza creata, a tre condizioni fondamentali:

  1. Dio non può essere Dio senza creazione.
  2. La creazione non si aggiunge a Dio in modo tale che Dio diminuisca o aumenti.
  3. Il creato non è uno strato aggiuntivo posto su un mondo altrimenti autosufficiente. Al contrario, il mondo esiste solo in relazione a Dio. Al di fuori di questa relazione, la creazione è “nulla”, priva di ogni realtà.

Pertanto, il senso assoluto in cui la creazione sussiste è in Dio. L’essenza stessa di Dio comprende l’essere della creazione. Da qui l’affermazione di Bernardo di Chiaravalle: “ Deus est suum ipsius esse et omnium esse” (“Dio è l’essere proprio di Dio e l’essere di tutte le cose”). Poiché l ‘essere increato (dei suum esse) è anche l’essere creato (omnium esse), il Dio “filosofico” e il Dio “biblico” non devono essere contrapposti. Al contrario, possono essere intesi come una cosa sola, purché si comprenda che l’essenza immutabile di Dio include intrinsecamente la creatività divina, pur rimanendo radicalmente distinta dalla realtà creata.

Pertanto, affermare una relazione reciproca o mutua tra Dio e il mondo significa di fatto negare sia la creazione del mondo sia la divinità di Dio. Il concetto di essere non è qualcosa che comprende Dio e la creatura. L’essere non è un concetto onnicomprensivo di realtà che include allo stesso modo sia Dio che la creazione. Se così fosse, l’essere di Dio e l’essere del mondo potrebbero essere comparati (più o meno) e confrontati (l’uno davanti all’altro, coram). Dio potrebbe in qualche modo “aumentare” nell’essere. Invece, è l’essere di Dio – e non l’essere tout court, esse ut genus – che abbraccia la relazione tra Dio e il creato. Se l’essere di Dio include sia Dio che la creatura, allora l’essere della creatura (esse creatum) è lo stesso essere di Dio (esse increatum). L’esse di Dio è la stessa relazione. È la relazione (di Dio) che fa la differenza. Non è la differenza – tra Dio e creatura – che fa la relazione. L’essere di Dio è differente. È la relazione che dà origine alla differenza. È la relazione che differenzia. È relazione differente. Proprio in questo essere “ente” differ-ente, che distingue l’essere dal nulla. Dio è essere, ed è essere relazionale. Qui ha origine l’ontologia relazionale che propongo. Questa è l’ontologia relazione del Monismo Relativo.

Quindi, l’essere di Dio non è la somma di Dio e del mondo. Piuttosto, l’essere di Dio (x) è la “sostanza”, o il fondamento, della relazione tra Dio e il mondo (x + y). Questo porta all’affermazione x = x + y. La “y” non aggiunge nulla che “manchi” a Dio, proprio perché Dio è “ciò senza cui nulla è”. Per risolvere l’apparente contraddizione, per cui il mondo “non è” in sé eppure “è”, dobbiamo intendere la “y” come “relazionalità a Dio”. Dio è la sostanza dell’essere di Dio stesso; la sostanza del mondo è la sua relazionalità con Dio. Nel frattempo, la sostanza stessa dell’essere di Dio si esprime nell’eterna relazione di Dio con la creazione. L’essere di Dio è creatività; l’azione creativa è la sostanza divina. Questa azione divina non è una relazione reciproca, ma creativa: Dio sostiene liberamente il mondo. Come insegna Bernardo di Chiaravalle, Dio è l’essere di Dio stesso e anche l’essere di tutte le cose.

A Nondual Understanding of God

A critical appraisal of Reciprocity between God and Creation. Beyond Process Theology and Open Theism

Understanding relationality as reciprocity means recognizing that tension toward the other provokes a reciprocal response, affecting three dimensions: the I, the you, and the relationship itself.

If there is a truly reciprocal relationship between God and creation, it would mean that God, creation, and even the very nature of createdness are all modified. However, if we fully understand what createdness is, we see that it cannot be altered in any way. Createdness is not a “thing” to which another relationship is added; it is a total and radical dependence on God. Consequently, it cannot be “modified,” nor can it become “more dependent” on God, because such dependence is absolute.

On God’s part, God’s reality is immutable, meaning the creature cannot change God into something else. Were that possible, God would no longer be the One “without whom nothing is.” If creation could modify God, something external would have power over God. That would imply this “something else” is not utterly dependent on God—so God would no longer be “that without which nothing exists.”

Those who claim that God cannot be changed by creation, but can be changed partially, are being incoherent. According to Scripture, God allows Godself to be moved by compassion for creatures. God loves, and this entails not only loving but also being loved and affected by creatures. Thus, as revealed in the Bible, God is indeed affected and moved to vulnerability.

Some, like Blaise Pascal, suggest we should “abandon” the purely philosophical notion of God in favor of the biblical one. He famously remarked, Dieu parle bien de Dieu—only God truly speaks of God. Yet it is possible to hold together God’s changelessness (as affirmed by classical philosophy) and the biblical witness of God’s apparent “change” or emotion in relation to creation, if we understand that God is being-with-creation from all eternity.

God’s eternal relationship to creation is logical rather than “real” in the strictly metaphysical sense. By saying this, we are not suggesting that God is indifferent to the world or distant in lofty ideas, devoid of compassion and love—far from it. To speak of God as being in a “logical relation” to the world means that God’s very logos is “being-with-creation”; God’s own nature (logos and esse) includes this eternal relatedness to the world, because “esse est relatio”. God does not become “more real” when creation emerges out of nothing through efficient divine causality. In other words, God’s essence is not detached from the creative relation to the world, because the divine essence itself is creativity. This eternal relatedness is what we mean by God’s unconditional love. Thomas Aquinas captures this principle in his statement, Creatura in Deo est creatrix essentia (“Creation in God is the creative essence”). This implies that the “otherness” of creation can be seen as part of God’s essence so long as it does not add to God. Without creation, God would not be “less” or “more” God. If God could become “less” or “more” in relation to creatures, then God would be finite and thus share a proportion with the created. But finitum ad infinitum nulla proportio—between finite and infinite there is no proportion. Consequently, we must view the relationship between God and creation in a non-competitive (non-zero-sum) way. Ideas of “more” or “less” apply only to created being (esse creatum), not to uncreated being (esse increatum).

We can maintain both “creation and creativity” in a nondual sense—not by affirming a reciprocal dependence between God and the world, but by upholding simultaneously the world’s createdness and God’s eternal creativity. God’s creation does not come as an addition to God. Rather, it preserves both divine freedom and created contingency, under three key conditions:

  1. God cannot be God without creation.
  2. Creation does not add to God in such a way that God would decrease or increase.
  3. Createdness is not an extra layer placed upon an otherwise self-sufficient world. Instead, the world exists only in relationship to God. Apart from that relationship, creation is “nothing,” lacking all reality.

Thus, the absolute sense in which creation subsists is in God. God’s very essence encompasses the being of creation. Hence Bernard of Clairvaux’s statement, Deus est suum ipsius esse et omnium esse (“God is God’s own being and the being of all things”). Because uncreated being (dei suum esse) is also the created being (omnium esse), the “philosophical” God and the “biblical” God need not be set in opposition. Instead, they can be understood as one and the same, so long as we grasp that God’s unchanging essence inherently includes divine creativity, while remaining radically distinct from created reality.

Therefore, to affirm a reciprocal or mutual relation between God and the world is effectively to deny both the world’s createdness and God’s divinity. The concept of being is not something that God “understands together” with the creature; being is not an all-encompassing concept of reality that includes both God and creation in the same way. If that were the case, God could somehow “increase” in being. Instead, God’s own being embraces the entirety of reality. If God’s being includes both God and the creature, then it cannot be a being distinct from God’s; it must be God’s own being.

Hence, God’s being is not the sum of God plus the world. Rather, the being of God (x) is the “substance,” or the ground, of the relationship between God and the world (x + y). This leads to the statement x = x + y. The “y” does not add anything that God “lacks,” precisely because God is “that without which nothing is.” To resolve the apparent contradiction—how the world “is not” in itself yet “is”—we must understand “y” as “relationality-to-God.” God is the substance of God’s own being; the substance of the world is its relationality to God. Meanwhile, the very substance of God’s being is expressed in God’s eternal relationship to creation. God’s being is creativity; creative action is the divine substance. This divine action is not a reciprocal relation but a creative one—God freely sustains the world. As Bernard of Clairvaux teaches, God is God’s own being and also the being of all things.

Voi stessi date

La Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci

L’epifania è la festa della Luce del Signore sulla e dal di dentro della nostra umanità. In quel bambino nato nella mangiatoia di Betlemme appare la manifestazione di Dio. La “teo-fania”. Quel bambino lì, ci fa vedere le cose in un modo diverso. Differente.

La luce dell’epifania ci fa vedere quello che già Dio stava e sta compiendo. La luce di Dio ci fa vedere ogni cosa come Epifania. Teofania del divino è il mondo. Quel bambino lì è come un anemoscopio. Fa vedere dove si dirige il vento, ma non muove il vento.

Questa dinamica epifanica continua nella scena evangelica di Matteo 6,34-44. Gesù invita i discepoli, loro stessi a dare da mangiare. Non è Gesù l’attore principale del cosiddetto miracolo della moltiplicazione. Ai discepoli vengono lentamente aperti gli occhi affinché ringraziando, focalizzandosi sui dettagli della realtà possano comprendere agire nella luce di un cuore libero che sappia condividere. Senza avere paura.

La gente è invitata a sedersi in piccoli gruppi. Perché per vedersi in faccia, gli uni gli altri. Solo dopo Gesù fa il cosiddetto miracolo. Ringraziando e offrendo per la condivisione, i discepoli si rendono conto che il vero miracolo non è tanto che Dio faccia delle cose, ma che loro facciano nel mondo. Dio fa sì che le cose si facciano.

A Sant’Ignazio viene attribuita questa frase: “Prega come se tutto dipendesse da Dio. Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio” (cfr Pedro de Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loyola, Milano 1998).

Cosa è mai la preghiera? Non tanto che Dio sia invocato perché faccia qualcosa, ma che noi siamo resi consapevoli che Qualcosa già si sta facendo e così possiamo anche noi collaborare con il farsi delle cose… spontaneamente, con gentilezza e fiducia.

Tutti mangiarono a sazietà.