Aristotele dice nella Metafisica al Libro VIII, 6 (1045a 8-10): “ἔτι δ’ ἐν πᾶσι τοῖς πολλὰ μέρη ἔχουσιν, καὶ μὴ ὥσπερ σωρός, ἀλλ’ ἔστι τι ὅλον παρὰ τὰ μόρια, ἔστιν αἰτία”. “Infatti, in tutte le cose che hanno molte parti e il cui insieme non è come un ammasso (σωρός), ma è un tutto (ὅλον ) che è qualcosa di più delle parti, c’è una causa (dell’unità)”. Aristotele qui sta trattando il concetto di unità nelle sostanze composte, distinguendo tra un aggregato casuale (come un mucchio di sabbia) e un tutto organizzato, che ha una causa che ne determina l’unità. Questa riflessione è centrale nella sua analisi della sostanza e della forma. Questa riflessione scaturisce da una intuizione rivoluzionaria: “l’intero è qualcosa di più delle parti”.
Questa frase non è un semplice aforisma, ma un invito a riconoscere che ciò che definisce un intero non sono le parti in sé, bensì la relazione dinamica che le lega. Aristotele distingue tra un “ammasso” casuale di elementi e un “intero” organizzato, sottolineando che quest’ultimo esiste solo quando le parti sono connesse in un sistema strutturato, una complessione, un organismo. La relazione, dunque, non è accessoria: è la condizione necessaria affinché le parti diventino un intero. Senza di essa, non vi è forma (eidos), né sostanza, ma solo frammenti inerti. Persino l’analisi più rigorosa delle componenti materiali fallirebbe nel cogliere l’essenza dell’intero, se non si includessero le relazioni che lo animano. La relazione, in altre parole, è prioritaria: precede logicamente e ontologicamente la definizione stessa dell’essere.
Questa visione trova un eco inatteso nella tradizione cinese, priva di metafisica classica ma radicata nel principio duale e relazionale dello yin e yang. Qui l’essere non si fonda su sostanze isolate, ma sull’interazione complementare di due polarità. L’ontologia implicita è già relazionale: non esistono entità autonome, solo dinamiche di connessione. Ciò che è “yin” lo è in relazione allo “yang”, e viceversa. La realtà stessa è un tessuto di interdipendenze, dove la relazione non è un attributo secondario, ma l’essenza primaria.
Rifondare l’ontologia oggi significa partire da qui: riconoscere che l’essere è relazione. Non esistono “cose” preesistenti che poi si relazionano; al contrario, sono le relazioni a generare gli enti, plasmandone l’identità. Un esempio semplice: le lettere A e B, prese isolatamente, sono segni vuoti. Solo quando si relazionano in AB o BA diventano sillabe, acquisendo un significato nuovo. La differenza tra AB e BA non sta nelle parti, ma nel modo di relazionarsi. Questo mostra che la relazione non è un ponte tra enti statici, ma un atto costitutivo: è la relazione a definire ciò che un ente è, internamente (come sistema di parti interconnesse) ed esternamente (come nodo in una rete più ampia). L’essere complesso, allora, non è un mosaico di sostanze, ma una gerarchia di relazioni che si auto-organizzano, dando vita a forme, strutture, sistemi.
Aristotele, critico del dualismo platonico, apriva la strada a un pluralismo relazionale: gli esseri non sono né idee pure né materia grezza, ma eventi (ἐόντα) generati da relazioni. La relazione, in questa prospettiva, non è né ideale né materiale: è un fatto concreto, fenomenico, che sfugge ai riduzionismi. Per comprenderla, occorre abbandonare l’ossessione per le “cose” e volgere lo sguardo alle connessioni che le fanno esistere. Il sociale, ad esempio, non è un aggregato di individui, ma l’insieme delle relazioni che li definiscono reciprocamente come soggetti. Allo stesso modo, un organismo biologico non è un insieme di cellule, ma l’equilibrio dinamico delle loro interazioni.
La filosofia della complessità, ispirata ad Aristotele ma proiettata oltre, fa della relazione il suo cardine. Il motto “l’intero è più delle parti” va letto non come un’aggiunta misteriosa, ma come il riconoscimento che la relazione è l’elemento mancante in ogni analisi riduzionista. Se vogliamo comprendere un sistema, non basta scomporlo: dobbiamo esplorare come le sue parti si influenzano, si modificano a vicenda, e generano proprietà emergenti. La sostanza stessa degli enti va ripensata: non è un nucleo immutabile, ma il risultato provvisorio di relazioni interne ed esterne.
In questa ontologia radicale, la relazione è auto-fondativa. Non c’è un “fondamento ultimo” al di là di essa: le relazioni creano gli enti, che a loro volta creano nuove relazioni, in un ciclo senza fine. L’essere non è un sostrato, ma un processo; non una staticità, ma una danza di connessioni. Questo ribaltamento mette in crisi le dicotomie tradizionali (interno/esterno, soggetto/oggetto, individuo/collettivo), mostrandole come astrazioni di una realtà intrinsecamente relazionale.
Il compito della filosofia diventa, allora, mappare questa trama di relazioni che costituisce il reale, riconoscendo che ogni strato dell’essere – dalla materia alla coscienza – è un livello di organizzazione relazionale. In questa luce, persino l’autocoscienza individuale non è un’isola, ma un nodo nella rete delle relazioni sociali, storiche e linguistiche che la plasmano. Essere, in definitiva, significa essere relazione.
L’essere è relazione. Ovvero, la relazione è l’intero, è l’Essere. La totalità delle interazioni è l’espressione di quell’intero che è la coscienza che è l’intrascendibile dell’esperienza. La realtà trascendente il mondo fenomenico (o dei contenuti di coscienza) che li fa apparire è l’assoluta relatività, relazione non reciproca e intrascendibile. Questo è l’intero. Relatio subsistens. In sé impensabile, poiché già pensarla è farne qualcosa che manifesta quella relazione che sta-sotto (hypó-stasis) e comprende (under-stand) la totalità delle determinazioni, la totalità dell’esperienza. La relatio subsistens, consapevolezza originaria e trascendente, è “quod omnes dicunt deum“.
Dio è l’intero della totalità (dell’esperienza), senza esserne cor-relato (reciprocamente). Dio è la relazione (ab-soluta) che rende possibile ogni forma di relazione, anche quella reciproca. Dio è sciolto, solutus, senza legami. Relazione incondizionata e in-dipendente.
Dal punto di vista dell’interpretazione classica di una metafisica cristiana , la creatura non è eterna in senso proprio, perché ha un inizio nel tempo ed è creata da Dio ex nihilo (dal nulla). Solo Dio è eterno nel senso assoluto, ovvero senza principio né fine, autosussistente e necessario. La creatura, invece, è contingente e dipendente da Dio per il suo essere.
Dal punto di vista della vita eterna della creatura (prospettiva escatologica cristiana), si può dire che la creatura umana partecipa all’eternità di Dio, ma in modo derivato e donato. L’anima umana, secondo la dottrina cristiana, è immortale e destinata a una vita eterna, ma non è eterna nel senso di essere senza inizio. Quindi, la creatura non è eterna nel senso assoluto di Dio, ma può partecipare all’eternità. Comunque l’annientamento è sempre presente in ogni momento dell’esistere: alla nascita, alla morte e durante la vita. Possibile anche dopo la vita, con l’annientamento dell’anima.
Ma è tutto qui ? In una prospettiva di Monismo relativo, in ascolto della tradizione teista classica e dei mistici, si può dire che ogni creatura è eterna così come eterno è Dio. L’essere di Dio (10) è ciò che costituisce l’essenza della creatura (5×2). In quanto creature, abbiamo sì un inizio e una fine. Secondo il nostro apparire, prima non c’eravamo, ora siamo e poi non saremo. Ma questo è il nulla del divenire che fa sì che non siamo. Ma proprio perché “siamo”, significa che il divenire non ci definisce dentro il perimetro del finito, ma ci immerge nell’oceano di quell’infinito che si definisce in ciascuno di noi e ci fa essere. Eternamente ci fa essere. La relazione della creatura al Creatore è eterna, visto che il suo fondamento, cioè l’azione creatrice, è eterna (Summa theologiae, I, 45, 3, ad 1). Noi siamo questa relazione eterna. Questa relazione eterna appare come tempo e spazio, questo o quello separati gli uni dagli altri, e dall’essenza che siamo. Ma essenzialmente non siamo mai nati e mai moriremo. Abitiamo l’apparenza, ma non ci appartiene. Noi siamo… Enti eterni nell’eterno Essere.
Vorrei presentarvi la comprensione che si può offrire nel monismo relativo del panenteismo, cioè l’idea che tutte le cose sono in Dio. Questa comprensione del panenteismo parte da alcune riflessioni che Emanuele Severino presenta nei suoi scritti, in particolare a partire dalla struttura originaria. È quindi una riflessione alla luce dell’ontologia di Severino che può aiutare a capire come, nella proposta che sto facendo di monismo relativo e anche alla luce del panenteismo, si possa partire da questa immagine: l’immagine con cui Parmenide descrive l’essere come una sfera tutta tonda, nella quale l’essere è presente.
Vorrei allora iniziare a riflettere sulla realtà dell’essere, che, come ben sapete, è il principio di Parmenide, poi diventato nella riflessione di Aristotele il principio di contraddizione: l’essere è, e il non essere non è. Dunque, qui è raffigurato l’essere nella sua interezza, l’essere che è, e il non essere che non è. L’essere è ciò senza del quale nulla è, ovvero l’essere è ciò che, senza di esso, nulla esiste. Vedremo poi in che modo l’essere si rapporta a ciò che non è l’essere e in che modo si può dire che c’è una distinzione tra l’essere e quello che qui chiamo gli enti.
Cosa sono gli enti? Gli enti sono determinazioni dell’essere, cioè l’essere nelle sue espressioni. Proprio perché l’essere è ciò che è, gli enti sono le sue espressioni. Per chi è già familiare con l’esempio numerico del 10 e delle sue molteplici espressioni (5 x 2, 12 – 2, 8 + 2, 3 + 7, e così via), con “essere” intendo qui il 10, e con “enti” intendo tutte le operazioni che esprimono l’essere. Quindi, l’essere degli enti sta a indicare il valore, la realtà più profonda degli enti, come appunto nel 5 x 2 che è 10, e 10 come lo è il numero 10, benché in due modi diversi: uno come numero (il 10), uno come operazione (5 x 2). L’essere degli enti, le espressioni dell’essere, in quanto espressioni, partecipano di quell’essere che è appunto l’essere. Gli enti, di fatto, noi li vediamo nella loro manifestazione diveniente. E cos’è mai questa espressione diveniente? Non è altro che una creazione continua.
Dunque, il divenire deve essere compreso e considerato non tanto nel modo consueto, cioè che le cose non ci sono e poi ci sono, ma come il venire continuo degli enti. Questo venire è espresso con una parola della tradizione monoteista, ma non solo: “creazione continua”. Cosa sta a indicare qui la creazione? Il principio di creazione non sta ad indicare altro che la relazione totale e radicale degli enti all’essere. Allora, possiamo intendere questo venire degli enti come la relazione degli enti all’essere. Senza questa relazione, nella quale si identificano gli enti, questi non ci sarebbero. Quindi, l’essere è ciò senza del quale nulla è, e il modo con cui gli enti si rapportano all’essere è quello della relazione. Gli enti sono la relazione. La relazione dice lo stato ontologico, cioè cosa sono veramente gli enti: sono relazione all’essere. Infatti, le espressioni, le determinazioni dell’essere che sono gli enti, non sono altro che relazione all’essere. È un po’ come l’immagine della montagna nel lago, che manifesta appunto la montagna, e l’immagine non è altro che la relazione alla montagna.
Vorrei ora introdurre quello che è il punto di vista, espresso qui da questa immagine: considerare gli enti a partire dall’esperienza, cioè che tipo di esperienza facciamo degli enti. Noi facciamo l’esperienza dell’apparire degli enti e del loro scomparire. Questo è il punto di vista, e il punto di vista considera questo apparire degli enti e il loro scomparire come un provenire degli enti dal nulla (creatio ex nihilo), cioè dal nulla vengono le cose e poi ritornano nel loro non apparire, cioè nel nulla. Questa è la considerazione dell’essere degli enti a partire da quel punto di vista che fa sì che gli enti vengano esperiti e quindi appaiano come provenienti dal nulla e poi ritornino nel nulla. Le cose nascono e le cose muoiono, ma l’essere degli enti, è ciò che è la sostanza degli enti, il valore degli enti, ciò che fa sì che l’identità degli enti sia. Quindi, gli enti esprimono l’essere, non esprimono se stessi. Ciò non toglie che gli enti sono in quanto enti, ma la sostanza degli enti, cioè l’essere, è l’essere eterno. Dunque, gli enti, essendo manifestazioni dell’essere che è eterno ed essendo le determinazioni dell’essere, sono anch’essi eterni.
Il provenire dal nulla e ritornare nel nulla, il nascere e il morire, è appunto il modo con cui, da un punto di vista, considero l’essere degli enti. Possiamo allora dire, alla luce dell’esperienza che facciamo degli enti, che l’essere, come vedete qui in questo cerchio, contiene gli enti. Dico “tiene” gli enti certamente non in senso reale, ma in senso metaforico, per esprimere quella presenza che è indicata nella parola “pan” (tutto) e “en” (in), cioè tutte le cose in Dio. L’essere di Dio, Dio, è questo essere. Cos’è allora l’essere degli enti? Non è altro che Dio, Dio che è immanente alle creature, presente intimamente nelle creature con la sua totalità. Come il 10 dice del 5 x 2, né più né meno, così Dio è l’essere di tutti gli enti. Con l’espressione di Bernardo di Chiaravalle, che ormai conoscete, possiamo dire che Dio è il suo essere e l’essere di tutte le cose, di tutti gli enti.
Ora, vorrei indicare cosa avviene quando il punto di vista viene meno, cioè quando il punto di vista si trasforma in quello che è il vedere, la visione, lo sguardo eterno. Considerare l’essere degli enti dalla prospettiva dell’eternità significa non più partire da un punto di vista parziale, temporale e prospettico, ma dalla totalità dei punti di vista, che è identificata con quella totalità che è appunto la visione di Dio. Il punto di vista parziale, temporale e prospettico, nella visione, si scioglie dall’ancoraggio del tempo, del prima e del poi, e anche dall’ancoraggio dell’esperienza, entrando nella visione che dice l’ontologia: l’essere delle cose non è più l’apparire, ma è il non apparire, è l’assoluta presenza, non più ad un punto di vista, ma in quell’occhio di Dio che è lo stesso occhio con cui la creatura contempla l’essere che è intero. Allora, l’essere viene visto nella sua interezza, Dio viene contemplato nella sua essenza, benché, come qui vedete, l’essenza di Dio non appaia nell’esperienza fenomenologica, che era appunto quella precedente, a partire da un punto di vista, ma viene contemplata nel nascondimento. Così possiamo dire che il mistero continua ad essere un mistero oscuro per quanto riguarda il punto di vista della creatura, ma questo mistero oscuro, nell’eternità, diventa manifestazione, cioè la gloria dell’essere. “Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3,3-4). Ciò che sta morendo è il “mio” punto di vista, con cui mi guardo. E così guardo anche Dio. È l’oscurità della fede. Ma allo stesso tempo la Gloria – la Manifestazione, il kavod (che significa il peso, la sostanza, in ebraico) – si rivela, e mi rende luce. “Alla tua luce vediamo la luce” (Sal 35,10). “Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).
È il mistero della Gloria, la Luce di Dio. L’oscurità del mistero può essere detta solo perché la creatura, cioè l’ente, non scompare. La creatura non è “annichilita” nel mistero di Dio. L’essere è tutte le sue determinazioni (enti), e ciascun ente singolo (ente). Le creature sono le espressioni di Dio che, nell’eternità, continuano ad essere. La creatura non scompare in Dio, ma appare nella luce. Il punto di vista della creatura continuerà a trascendersi nel suo dissolvimento e divenire la visione di Dio. La teologia spirituale di Gregorio di Nissa esprime questo continuo auto-trascendersi della creatura per divenire “Dio” con il termine dell’epektasis, in greco ἐπέκτασις che significa “estensione”, “progresso” o “tensione verso”. Gregorio utilizza questo termine per descrivere la dinamica dell’anima umana nel suo cammino spirituale verso Dio, un cammino caratterizzato da un progresso infinito e un desiderio sempre crescente. Esprime questo termine il desiderio infinito per Dio. Gregorio di Nissa afferma che l’anima, una volta iniziato il suo cammino verso Dio, sperimenta un desiderio sempre più intenso e inesauribile. Più l’anima si avvicina a Dio, più si rende conto della Sua infinita grandezza e della propria limitatezza. Questo genera un desiderio che non si placa mai, ma che anzi si intensifica continuamente. L’epektasis è quindi un movimento perpetuo dell’anima verso Dio, un “tendere verso” che non conosce fine, nemmeno nell’eternità. La perfezione spirituale, quindi, non è un traguardo statico, ma un processo dinamico e infinito. Gregorio si ispira a un passo della Scrittura, in particolare a Filippesi 3,13, dove san Paolo dice: “Dimentico ciò che mi sta alle spalle e mi protendo verso ciò che mi sta davanti”. Il verbo greco usato da Paolo, ἐπεκτείνομαι (epekteinomai). Dio è come un orizzonte che si allontana man mano che ci si avvicina. Più l’anima progredisce nella conoscenza e nell’amore di Dio, più si rende conto della Sua trascendenza e della Sua inesauribilità. Questo non è motivo di disperazione, ma di gioia, perché significa che l’anima è chiamata a una crescita infinita, a una partecipazione sempre più profonda alla vita divina.
Il punto di vista della creatura, il suo punto di vista, rimane anche nella eternità. Dio è come un orizzonte che si allontana man mano che ci si avvicina. Dunque, Dio continua ad apparire come il Dio nascosto, cioè il mistero oscuro. Dall’altra parte, questo mistero oscuro si dà in uno sfondo di gloria, cioè di visione, in cui l’oscurità è quella della luce intensa. È appunto con l’immagine di Paolo nella sua visione (Atti degli Apostoli, capitolo 9), quando la luce avvolge la gloria di Cristo, avvolge l’oscurità del suo punto di vista. Gli appare i la gloria che è la luce assoluta di Dio, che dice allo stesso tempo l’oscurità nella quale si trova ancora la creatura, che continua ad essere ente, quindi particolarità della determinazione di quel Dio, cioè dell’essere che è in se stesso indeterminato, in cammino eterno verso Dio. Se il desiderio di Dio non verrà mai estinto nell’eternità, significa che l’eternità è una continua trasformazione.
Un verso di Luis Rosales, ispirato a San Giovanni della Croce, recita: “Di notte, cammineremo nella notte, perché solo la sete ci guida verso la Fonte”.
Generalmente, ci rivolgiamo a Dio quando nella nostra vita regna l’oscurità, ovvero quando ci rendiamo conto di aver bisogno di Lui. Nei momenti di luce, invece, siamo così accecati da tante altre luci che è facile dimenticare la vera luce.
Proprio come alla fine di ogni tunnel, per quanto lungo e buio possa essere, c’è sempre una luce, così nel cuore delle nostre notti più profonde arde sempre una fiamma. Quella fiamma è Dio, che ci aspetta nel mezzo delle nostre tenebre. L’invito, quindi, non è a fuggire dall’oscurità, come spesso facciamo, ma a viverla, a entrarci.
La nostra notte oscura può manifestarsi in molte forme: un vizio non ancora sconfitto, una passione che ci travolge, un compromesso con la mediocrità, un problema economico o familiare grave, una crisi nella relazione, una paura che sembra insormontabile… Qualunque sia la nostra notte, Dio è lì, presente per noi. Questa è la convinzione più radicale del cristianesimo.
La felicità dell’uomo in questo mondo dipende dalla sua relazione, dal suo contatto con la fonte interiore, ciò che i cristiani chiamano Spirito Santo. Solo questa Fonte può saziare il cuore umano. Tutte le altre gioie sono temporanee, fugaci, effimere…
Spesso, sedotti dal miraggio di altre fonti o semplicemente per pigrizia, ci allontaniamo da quella Fonte, consapevolmente o meno. A volte ci allontaniamo così tanto da non vederla più, fino a dubitare della sua esistenza. E ci chiediamo: “Non sarà stata un’illusione giovanile? Forse mi sono sbagliato quando credevo di aver trovato ristoro?”
Più ci allontaniamo dalla Fonte, più le nostre speranze si affievoliscono e la fiducia in noi stessi e negli altri diminuisce. Il futuro sembra restringersi, la vita diventa un peso che ci logora, le paure crescono e ci aggrappiamo a false sicurezze. Tutto questo si riflette anche fisicamente: il volto si oscura, lo sguardo perde luminosità. C’è chi pensa che questo sia il segno della maturità, ma in realtà è piuttosto il sintomo di una decadenza spirituale, di una sorta di “morte in vita”. Crescere davvero significa crescere nella vulnerabilità.
È in questi momenti di crisi, quasi disperati, che possiamo finalmente riconoscere la nostra profonda insoddisfazione. Prima, forse, non avevamo toccato il fondo e ci lasciavamo ancora ingannare dai sostituti della felicità: il prestigio sociale, i piaceri sensoriali, la sicurezza materiale… La famiglia, il lavoro, le relazioni… Nessuno nega che queste cose siano importanti e buone, ma non sono certo il Regno dei cieli.
Per intravedere qualcosa di quel Regno, la prima cosa di cui abbiamo bisogno è la sete; solo allora ci rivolgeremo alla Fonte. La prima cosa è desiderare la luce; solo allora usciremo dalla notte. E come? Gridando. Solo un grido intenso e straziante raggiunge Dio. Non c’è preghiera sincera che Egli non ascolti. Neppure una. E non c’è rito vuoto che Egli accolga. Neppure uno.
Essere in Dio ed essere occupati nelle cose di Dio non sono affatto la stessa cosa. Possiamo essere molto religiosi eppure poco spirituali, e forse questo è il nostro vero male. Possiamo passare mezz’ora a recitare preghiere senza esserci mai veramente connessi a Lui. Per diffidenza verso Dio e verso la vita – che sono la stessa cosa – cerchiamo di assicurarci così tanto che, alla fine, non sentiamo più il bisogno di nulla e, di conseguenza, non abbiamo più nulla da chiedere davvero.
In una recente e mai instancabile lettura di Rahner, mi sono di nuovo stupito di quanto Rahner dice della Trinità. Nella visione beata la Trinità non viene “compresa”, ma riguardata come incomprensibilità divina. Dio rimane incomprensibile, prima, dopo la rivelazione, e alla fine perfino nella visione beatifica.
Dio è “in sé” incomprensibile.
Mi chiedo: come mai la chiesa da 2000 anni, e così la teologia, ha scritto volumi sulla Trinità? Con intelligenza analizzatrice, sperando che quanto più sa di tanto il mistero, più questo viene accolto.
Se alla fine Dio è, e sarà ancora incomprensibile, cosa mai ci viene detto da questi teologi?
Ciò che la chiesa dice della Trinità, e così anche i teologi, non è ciò che è la Trinità ma è il modo con cui i teologi – noi – diciamo della Trinità. Esempio: se guardo un paesaggio e ne descrivo il colore verde, la vera RI-VELAZIONE non sta nel dire che ora capisco il verdedel paesaggio, ma che verde è il colore dei miei occhiali. Ri-velazione è iniziare a GUARDARE senza CONOSCERE. Togliere il VELO dagli OCCHI.
E cosa vedo di Dio? Non il verde, ma la sua incomprensibilità, cioè il suo velo.
Nemmeno che è “persona” o “non-persona” o “trans-persona”.
Incomprensibile e nonaliud.
Ogni discorso su Dio è solamente un “nostro” discorso, cioè discorso sul modo con cui vediamo “umanamente” Dio.
Dio rimane ANONIMO. Dio rimane SENZA VOLTO. Poiché anche il volto (persona) è il modo con cui mi rivolgo all’incomprensibilità divina.
Vedere a faccia a faccia Dio non è come alcuni teologi dicono, a tu per tu con Dio, vedere il “volto” di Dio, la sua persona, vedere il Padre che parla con il Figlio, e lo Spirito che parla con entrambi, nell’eterno “chiacchiericcio”.
Il Mistero nella sua essenza è anonimo, senza nome e senza volto. Silenzio.
“Poiché il nostro intelletto non è in grado di adeguarsi alla sostanza divina, ciò che è la sostanza stessa di Dio rimane, superando il nostro intelletto, e quindi da noi non è conosciuto. E per questo motivo, il culmine della conoscenza umana riguardo a Dio è sapere di non sapere cosa Egli sia, nella misura in cui riconosce che ciò che Dio è trascende tutto ciò che di Lui possiamo comprendere.” (Tommaso d’Aquino, De potentia, quaestio VII, art. 5, ad 14)
Nella visione della sostanza divina, non vedremo più dei volti che riflettono la gloria, nemmeno di quelle divine. Ma la gloria dei volti.
Del resto, sulla statua di Iside, a Sais, si potevano leggere le celebri parole: “Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà; nessun mortale ha mai sollevato il mio velo”.
“Io-sono-chi-sono”. YHWH. L’innominabile. “Mosè allora si coprì il volto” (Es 3,6).
Tu, Mosé, sarai il mio Volto (Es 3,12)
La salvezza è di chi ama incondizionatamente l’oscurità divina.