
“Rationis tantum revelatio” suggerisce un’idea di rivelazione che si affida unicamente alla ragione, escludendo ogni fonte soprannaturale, intuitiva o mistica. È un’espressione che potrebbe evocare il razionalismo più puro, dove la verità viene raggiunta solo attraverso il pensiero logico e l’intelletto umano. Allo stesso tempo, suona quasi come una provocazione o una presa di posizione: come se si volesse sottolineare che tutto ciò che è davvero rivelato o conoscibile passa solo per la mente razionale. Ma questa scelta di parole potrebbe anche essere letta in chiave critica, come a voler dire che una rivelazione ridotta alla sola ragione è, in fondo, una rivelazione incompleta.
Procediamo per piccoli passi. Molti di voi conosceranno il celebre aforisma posto sotto l’autorità di sant’Ambrogio: «Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est» («Ogni verità, da chiunque sia detta, provine dallo Spirito Santo»).
Si tratta di una frase che in realtà è di un autore misterioso, convenzionalmente chiamato Ambrosiaster (In primam ad Cor. C. xii,123).Ne fa ampiamente menzione Tommaso d’Aquino. La ragione non è padrona della verità. Al contrario, la ragione è mossa dalla verità, è desiderio di verità, ma non la possiede mai totalmente. Se Dio è il senso ultimo della realtà, lo Spirito, e se la ragione è apertura alla realtà, allora Dio non può essere un elemento esterno o aggiunto alla ragione, ma ne è, per così dire, la condizione originaria, il fondamento implicito. La ragione è anzitutto desiderio di verità, apertura all’essere, tensione verso il senso. Ma questa verità, verso cui la ragione tende, non è qualcosa che essa produce autonomamente, né qualcosa che possiede interamente; al contrario, è ciò che la precede, la fonda e la supera. In questo senso, il senso ultimo della realtà non è un oggetto tra gli altri, né un dato empirico, ma ciò grazie a cui ogni oggetto può essere pensato, ciò che rende possibile ogni conoscenza e ogni esperienza. Non è un contenuto della coscienza, ma ciò che rende possibile la coscienza stessa. Per questo si può dire, senza contraddizione, che Dio – inteso non come un ente tra gli enti, ma come il fondamento dell’essere e la verità stessa – è interno alla ragione, pur eccedendola. È interno non come parte di essa, ma come ciò che la struttura dall’interno e la orienta verso l’infinito.
La rivelazione, in questo quadro, non deve essere intesa primariamente come un atto straordinario, esterno, soprannaturale, che interviene in modo discontinuo nella storia, bensì come il manifestarsi del senso, dell’essere, della verità, nella stessa esperienza razionale dell’uomo. Parlare di “rivelazione esterna” – con i linguaggi dei miracoli, delle apparizioni, delle voci celesti – può allora essere inteso come un modo simbolico o mitico per esprimere l’esperienza originaria del manifestarsi della verità all’intelligenza umana. In questo senso, il linguaggio della religione, come già notava Rudolf Bultmann, ha una struttura mitica, ma ciò non significa che sia falso: significa che esso esprime, in forma narrativa e simbolica, verità profonde e universali. Per Bultmann, il compito della teologia era quello di “demitologizzare” il messaggio cristiano, cioè di interpretarne i simboli in modo esistenziale, cogliendo in essi l’appello alla decisione personale davanti al senso.
In questa linea si inserisce anche Paul Tillich, per il quale Dio non è un essere tra gli altri, ma “il fondamento dell’essere”, o meglio, “l’essere stesso in quanto fondamento”. Tillich scrive: “Dio non è un essere. Egli è l’essere stesso, oltre l’essenza e l’esistenza.” La rivelazione, allora, non è altro che la manifestazione del fondamento, il dischiudersi del senso dell’essere all’interno della coscienza umana, nella storia e nell’esperienza. Similmente, Karl Rahner parla dell’uomo come di un “uditore della Parola”: anche l’uomo che non ha ricevuto una rivelazione storica esplicita è, nella struttura stessa della sua coscienza trascendentale, un essere capace di Dio, sempre già orientato verso la verità assoluta, l’orizzonte illimitato dell’essere.
Questo modo di intendere la rivelazione come “interna” non implica che la verità sia prodotta dalla ragione. Essa è ricevuta, ma ricevuta dentro un’esperienza che è razionale in senso profondo. La verità si dà nella forma dell’evento, dell’incontro, del dono. Essa si manifesta nella storia, nella parola, nella relazione, ma non è mai riducibile a nessuna di queste forme. Essa si dona senza mai essere posseduta, come scrive Jean-Luc Marion: “Il dono si dà in modo da non potersi possedere.” In questo senso, la verità si manifesta sempre nella forma dell’eccedenza, non perché venga da un “fuori” assoluto, ma perché nella ragione stessa si dà come ciò che la oltrepassa.
Agostino lo aveva intuito con profondità: “In interiore homine habitat veritas”, la verità abita nell’uomo interiore. Ma quella verità che abita in noi non è da noi: essa è luce che ci illumina, non fiamma che accendiamo. Pascal, a sua volta, scriveva: “Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato.” La tensione verso Dio è già segno che qualcosa di Lui si è donato. Heidegger, nella sua meditazione sull’essere, descrive la verità come aletheia, disvelamento: la verità è ciò che si mostra, ma anche ciò che si sottrae. L’uomo, scrive Heidegger, è “il pastore dell’essere”: non il costruttore, né il signore. Emmanuel Levinas, da un’altra prospettiva, ha insistito sul fatto che la verità si manifesta nell’Altro: non come concetto, ma come volto, come appello etico. “Il volto dell’altro mi ordina: non uccidere.” Qui la verità eccede ogni sapere e si impone come responsabilità. Anche Hans-Georg Gadamer, nella sua ermeneutica filosofica, sottolinea che la verità non è il prodotto di un metodo, ma l’esito di un incontro, una “fusione di orizzonti”.
In tutti questi pensieri, si ritrova lo stesso nucleo: la verità eccede la ragione, ma questa eccedenza non ha bisogno di essere spiegata come un intervento soprannaturale, perché è già costitutiva dell’esperienza razionale. La ragione, se non è ridotta a calcolo, a tecnica o a sistema chiuso, è già esperienza della propria finitezza, del proprio limite, e al tempo stesso del proprio desiderio di infinito. In questo senso, non è necessario invocare una rivelazione soprannaturale per fondare l’eccedenza della verità rispetto alla ragione. La ragione, nel suo stesso movimento, esperisce questa eccedenza: nel desiderio di senso, nella nostalgia di giustizia, nel confronto con la bellezza, con la sofferenza, con la morte.
Dire che la verità è “trascendente” non implica che venga da un “altrove” separato, ma che non si lascia ridurre, dominare, possedere. È ciò che si mostra e insieme si sottrae. È ciò che guida il pensiero, ma che non è mai semplicemente pensato. Per questo la verità è interna alla ragione come suo principio e fine, ma non come suo possesso. La rivelazione, se intesa nel senso più profondo, può essere il nome simbolico di questo manifestarsi del senso, di questo sopraggiungere del vero, di questo evento che chiama la ragione non a rinunciare a se stessa, ma ad oltrepassare se stessa. La fede, in questo quadro, può essere intesa come l’atteggiamento della ragione che riconosce il proprio limite e accoglie la verità come dono, non come conquista. Ma anche prescindendo dal linguaggio religioso, si può dire che l’esperienza della verità, quando è autentica, è sempre esperienza di un’eccedenza. E che la ragione, per essere pienamente se stessa, deve aprirsi a ciò che non può dominare.
In conclusione, la verità è ciò che si manifesta all’intelligenza come luce, come senso, come richiamo, come dono. Non è prodotta dalla ragione, ma ne è l’orizzonte. Non è una nozione interna, ma neppure un messaggio che viene dall’esterno. È ciò che fa essere la ragione, ciò senza del quale la ragione non può pensare se stessa né il mondo. L’idea di rivelazione, in questo orizzonte, non è contraria alla ragione, ma è il nome che la ragione stessa può dare a quell’evento in cui la verità si mostra come ciò che la fonda e la oltrepassa. La fede, allora, non è un’opzione irrazionale, ma è il gesto della ragione che si apre alla totalità del senso, riconoscendo che ciò che più conta non si produce, ma si riceve. E che ricevere non è un atto di passività, ma il modo più radicale dell’intelligenza.
