Panenteista? Sì, ma Asimmetrico

«Considero la dottrina della dipendenza ontologica simmetrica come la caratteristica distintiva del panenteismo rigoroso» (Lina Langby, God and the world, 71).

Nel pensiero filosofico contemporaneo, il rapporto tra Dio e il mondo rimane uno dei temi più profondi e controversi. Tra le numerose proposte speculative, il modello del panenteismo asimmetrico emerge come una posizione capace di unire rigore ontologico e apertura metafisica, conciliando la trascendenza divina con l’immanenza del mondo. In questa esposizione, svilupperemo in chiave teoretica una forma particolare di panenteismo asimmetrico, che può essere letta come Monismo Relativo, il cui cuore è l’affermazione che Dio include il mondo senza esserne ontologicamente condizionato.

1. Il punto di partenza: una formulazione simbolica

La proposta può essere espressa in forma simbolica mediante l’equazione:

x = x + y, dove:

  • x rappresenta Dio,
  • y rappresenta il mondo,
  • x + y indica la relazione di Dio con il mondo.

Questa formulazione, apparentemente paradossale, può essere interpretata nel seguente modo: Dio è la sua relazione al mondo, ma questa relazione non modifica ciò che Dio è. Se si considera la struttura dell’equazione, ne segue che:

x = x + y → y = 0, quindi x = x.

Il mondo, ontologicamente considerato fuori da Dio, è nulla. Esiste soltanto in quanto è incluso nella realtà divina. Dio, invece, resta identico a se stesso: non ha bisogno del mondo per essere ciò che è.

2. Il fondamento teorico: l’ontologia partecipativa

Questa intuizione conduce a una concezione in cui il mondo possiede realtà solo per partecipazione all’essere divino. Non ha in sé alcuna consistenza autonoma (y = 0), ma deriva tutta la propria esistenza dal fatto di essere incluso in Dio. La dipendenza è dunque ontologicamente unilaterale: il mondo dipende da Dio, ma Dio non dipende dal mondo.

Tale visione richiama la tradizione neoplatonica, in cui l’Uno è sorgente di tutto, senza che l’efflusso delle cose limiti o modifichi la perfezione della sorgente. L’essere del mondo è reale, ma solo come relazione sostanziale, non come sostanza. Tommaso d’Aquino parlerà in tal senso di partecipazione all’essere: Dio è l’Essere per essenza; tutto il resto è essere per partecipazione o relazionale

3. Il panenteismo asimmetrico come struttura metafisica

Questa visione si inscrive con coerenza nella cornice del panenteismo asimmetrico, inteso non solo come una posizione intermedia tra teismo e panteismo, ma come una teoria ontologica pienamente articolata. Le sue caratteristiche fondamentali sono:

  • Inclusione: il mondo è incluso in Dio, ontologicamente contenuto nella sua realtà.
  • Asimmetria: il mondo dipende da Dio per il proprio essere; Dio non dipende dal mondo.
  • Autosufficienza divina: Dio è identico a se stesso, indipendentemente dalla creazione.
  • Partecipazione relazionale: il mondo è relazione a Dio, ed esiste in quanto tale.

Il panenteismo asimmetrico consente di dire che Dio è intimamente presente in tutto, non perché si confonde con il mondo, ma perché tutto è costitutivamente riferito a Lui. L’immanenza divina è reale, ma fondata nella trascendenza.

4. Confronto con le posizioni classiche

A differenza del teismo classico, che separa Dio dal mondo (Dio crea ex nihilo, ma resta “fuori” dalla creazione), qui si riconosce che il mondo è in Dio, senza che ciò implichi mutamento o dipendenza da parte divina.

A differenza del panenteismo simmetrico, non si afferma che Dio dipenda dalla relazione col mondo per essere ciò che è. La relazione è costitutiva del mondo, non di Dio.

Infine, a differenza del panteismo, Dio non è identico al mondo: l’equazione x = x + y implica che y = 0, dunque il mondo è distinto da Dio, ma senza consistenza autonoma.

5. Conseguenze metafisiche e teologiche

Questa concezione apre a importanti sviluppi teorici:

  • Permette una teologia della creazione in cui il mondo è reale ma non assoluto.
  • Fondamenta una teologia della dipendenza: tutto ciò che esiste è radicato in Dio.
  • Sostiene una ontologia relazionale forte: l’essere non è posseduto, ma partecipato.
  • Preserva la trascendenza divina, non come distanza, ma come sovrabbondanza.

In questo quadro, la preghiera, la provvidenza, l’agire divino, trovano senso non perché Dio interviene dall’esterno, ma perché tutto ciò che accade è già da sempre in Dio, senza che ciò neghi la libertà delle creature.

6. Conclusione

Il panenteismo asimmetrico, nella forma qui delineata, si configura come una visione teoretica rigorosa e profonda. Esso afferma che Dio è tutto ciò che è, ma che tutto ciò che è non è Dio. Il mondo esiste solo come relazione a Dio; Dio è identico a sé, senza dipendere dal mondo. In tal modo, questa visione si pone come una sintesi tra i grandi modelli storici, reinterpretandoli alla luce di un’ontologia della partecipazione che riconosce la centralità assoluta dell’essere divino, senza negare la realtà del cosmo che da esso scaturisce.

Cristologia Cosmica

La riflessione cristologica tradizionale ha sempre riconosciuto l’unione ipostatica come la misteriosa realtà dell’incarnazione, dove la natura divina (x) e la natura umana (y) si incontrano, senza confondersi, nella persona singolare di Gesù Cristo. Tuttavia, un approfondimento ulteriore del concetto di “Cristo” consente una prospettiva più ampia e inclusiva: la cristologia corporativa e cosmica.

Secondo questa visione, l’unione ipostatica (X1) non sarebbe più semplicemente un’unione “esclusivamente personale”, riferita cioè al solo Gesù storico, ma diverrebbe una realtà “personale corporativa”, dove Gesù è inteso non solo nella sua individualità, ma come rappresentante e fulcro dell’umanità intera.

Questa interpretazione si fonda sulla comprensione biblica e patristica di Cristo come “capo” dell’umanità (primogenito dei morti e primizia dei risorti) e come colui che raccoglie e sintetizza in sé tutta la realtà umana. La persona di Gesù, dunque, non è separata o isolata dal resto dell’umanità; al contrario, essa è intimamente unita e identificata con essa, fino al punto che l’umanità stessa, attraverso e in Cristo, partecipa realmente alla natura divina, divinizzandosi.

Questa estensione dell’unione ipostatica al piano corporativo implica una cristologia di tipo cosmico, che supera i confini della sola dimensione spirituale o antropologica. Infatti, poiché l’essere umano è formato da anima e corpo, la materia stessa risulta essere parte integrante dell’unione ipostatica. L’incarnazione, in tal senso, non riguarda esclusivamente l’anima o la coscienza umana, ma anche la fisicità, il corpo, e dunque tutta la realtà materiale del cosmo.

La cristologia cosmica afferma con forza che il “corpo di Cristo” non si limita alla singola persona fisica di Gesù di Nazaret né alla sola comunità dei credenti (ecclesiologia corporativa), ma comprende tutto il creato, tutta la realtà materiale e spirituale del cosmo. Questa affermazione è profondamente radicata nelle Scritture, specialmente nella cristologia paolina, ad esempio in Colossesi 1,15-20, Romani 8,18-23 ed Efesini 1,10, dove Cristo è descritto come colui in cui tutte le cose trovano consistenza e redenzione.

Le recenti scoperte nell’ambito della fisica quantistica e dell’astrofisica offrono nuove prospettive di dialogo con questa cristologia cosmica. La fisica quantistica, attraverso il principio di indeterminazione di Heisenberg e il ruolo centrale dell’osservatore descritto da Carlo Rovelli, propone una visione del reale fondata non su entità fisse, ma su eventi e relazioni dinamiche. In tale contesto, la realtà stessa emerge dalla relazione, non dalla sostanza isolata. Questo nuovo paradigma si sposa profondamente con la cristologia cosmica, che vede Cristo non come un’entità isolata, ma come principio relazionale universale.

L’ontologia relazionale proposta dalla fisica quantistica e astrofisica moderna si integra perfettamente con la visione cristiana trinitaria, dove la relazione è costitutiva dell’identità divina e del creato. Così, il Cristo cosmico diviene il principio attraverso cui la realtà trova coerenza, significato e unità, simile alla “rete di Indra” che riflette in ogni punto la totalità.

La prospettiva cosmologica che emerge dal concetto di singolarità astrofisica, punto iniziale del Big Bang e soglia tra potenzialità e attualità, è compatibile con la visione cristiana della creazione come campo di potenzialità divine. La riflessione teologica contemporanea, come quella di Teilhard de Chardin, Faggin e Rovelli, vede il Cristo cosmico non semplicemente come creatore “esterno”, ma come principio interno di co-creazione e partecipazione continua.

Questa visione cosmica e relazionale della cristologia suggerisce una spiritualità integrale e una responsabilità etica ed ecologica più ampia, dove l’uomo è chiamato a custodire il creato nella consapevolezza che tutto il cosmo partecipa della vita divina.

In conclusione, reinterpretare l’unione ipostatica come realtà personale corporativa e cosmica arricchisce significativamente la cristologia tradizionale, ponendo Cristo non solo come figura storica singolare, ma come principio cosmico e universale che collega profondamente la teologia con le moderne scoperte scientifiche, aprendo un fertile dialogo interdisciplinare tra scienza, filosofia e spiritualità.

Il Cristo Cosmico: tra Astrofisica, Fisica Quantistica e Teologia

La Sesta seduta del Seminario di Riflessione sul testo Deus DuepuntoZero ha proposto una riflessione interdisciplinare sul concetto di “Cristo cosmico” alla luce delle attuali acquisizioni dell’astrofisica e della fisica quantistica, ponendolo in dialogo con la teologia e la filosofia della relazione. L’obiettivo è mostrare come le intuizioni provenienti dai domini scientifici contemporanei possano aprire nuovi orizzonti ermeneutici sulla realtà, proponendo una visione relazionale del cosmo in cui l’evento cristico assume valenza cosmoteandrica.

1. Introduzione

Il paradigma scientifico moderno e contemporaneo ha trasformato in modo radicale la nostra comprensione dell’universo. A partire dalla relatività generale fino alla meccanica quantistica, la concezione classica di un cosmo deterministico e oggettivamente osservabile è stata progressivamente sostituita da una visione più fluida, complessa e partecipativa della realtà. In questo contesto, il Seminario ha voluto esplorare, a partire da una prospettiva filosofico-teologica, le implicazioni di una simile trasformazione per la comprensione del Cristo cosmico e della struttura ultima dell’essere.

2. La singolarità come soglia ontologica

Il concetto di “singolarità” assume una duplice valenza. In astrofisica designa il momento del Big Bang, punto iniziale dell’universo; in fisica quantistica, si manifesta nel collasso della funzione d’onda, passaggio dalla probabilità all’attualità. Entrambi i concetti rimandano a una soglia oltre la quale le categorie convenzionali dello spazio, del tempo e della causalità risultano inadeguate. Questa soglia può essere interpretata come un grembo ontologico: non un nulla metafisico, ma un campo di potenzialità radicali.

3. La ciclicità cosmica e il principio trasformativo

Viene considerata l’ipotesi, sostenuta da alcune teorie cosmologiche, di un universo ciclico, che nasce da una singolarità e vi ritorna attraverso una contrazione gravitazionale. Questo modello riattualizza antiche visioni cosmologiche cicliche e si fonda sul principio scientifico secondo cui “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, orientando l’ontologia verso una visione dinamica e ricorsiva. La prospettiva teologica di Tommaso d’Aquino   non esclude questa possibilità, ritenendo – infatti – razionale che il mondo possa essere considerato “eterno” (cf. De potentia, q. 3,a. 14, ad octavum).  Dio non pensa al mondo e poi lo crea, ma lo pensa già (eternamente) come creato, cioè dipendente – potremo dire anche “connesso” – da sempre dall’essenza divina del Creatore. Se l’idea del mondo è la sostanza del mondo, e questa idea non è ontologicamente distinta dal suo intelligere e l’intelligere dalla essenza di Dio, ne segue che la sostanza del mondo è la sua dipendenza da Dio. Questa dipendenza (ovvero: relazione) appartiene all’identità divina di Dio. Nel Monismo relativo si utilizza in tal senso l’equazione simbolica: x = x + y. L’essenza di Dio (x) è la relazione creatrice di Dio al mondo. Risolvendo l’equazione, si ricava che il mondo (y) non aggiunge nulla all’essenza di Dio. Dio “è” e “rimane” immutabile (x = x), senza con questo separarlo dal mondo. La sostanza del mondo è la sua relazione-a-Dio. Solo astrattamente, il mondo è nulla (y = 0). Se il mondo, il cosmo esiste, è perché eternamente “connesso” alla sostanza divina. Poiché la sostanza divina è consapevolezza di sé, significa che il mondo è tutto rivolto alla mente di Dio. Il mondo è perché Dio pensa il mondo, il mondo è l’idea che Dio ha di sé come partecipabile. Il “Logos”, il “Cristo”, è Dio che si contempla. Il Sé di Dio (ovvero il Cristo) è la struttura dell’Intero. La struttura rinvia alla relazionalità determinata della creazione.

4. Tra casualità e consapevolezza: il fondamento del reale

Una questione epistemologicamente centrale è se l’universo sia governato da dinamiche puramente casuali (Tonelli) o da una consapevolezza strutturante (Faggin, Kastrup). Il dibattito riapre la polarità tra un’ontologia meccanicista e un’ontologia intenzionale, interrogando la natura stessa del principio fondante: è impersonale o relazionale, cieco o cosciente? Questa domanda assume rilevanza non solo scientifica ma anche teologica, sollecitando un ripensamento del concetto stesso di creazione. Il mondo è non solo creato ma co-creatore “derivato” come causalità seconda.

5. L’universo partecipativo: osservatore e realtà

In linea con la proposta di John Archibald Wheeler, si considera l’universo come “partecipativo”, dove l’osservatore – inteso in senso epistemico e ontologico – influisce sulla realtà osservata. Il soggetto non è più estraneo al mondo, ma co-implicato nella sua manifestazione. La realtà emerge come evento relazionale, in cui osservatore e osservato si co-costituiscono. Tale concezione trova paralleli nel pensiero fenomenologico e nella filosofia della mente.

6. Dal paradigma oggettivante a quello relazionale

Si contrappongono due paradigmi ontologici: il modello classico, secondo cui i termini (soggetti e oggetti) preesistono alla relazione, e il paradigma relazionale, che considera la relazione come originaria e costitutiva dell’identità. La struttura relazionale della realtà – il Cristo cosmico –pone la Relazione come fondativa dei suoi termini (aRb) e non successiva (ArB). Infatti, ogni determinazione (p.e.: A, B, etc… ) è possibile poché la relazione precede l’identità-differenza dei determinati. La relazione differenzia e non la differenza pone relazione tra le identità. Questo cambio di prospettiva è a fondamento dell’ontologia relazionale della fisica quantistica, formulata da Carlo Rovelli.  Quest’ultimo paradigma è congruente con la riflessione trinitaria cristiana, in particolare nella formulazione agostiniana, dove le Persone divine non sono “entità” ma “relazioni sussistenti”. Tale approccio è oggi riattivato anche in ambito fisico, dove la priorità delle relazioni sulle entità è al centro delle interpretazioni del campo quantistico.

7. Il Cristo cosmico e la metafisica della sfera

L’immagine della sfera, presente nel pensiero di Cusano e Hildegard di Bingen, e ripresa nella metafora buddhista della rete di Indra, diventa simbolo privilegiato di un universo in cui ogni punto riflette il tutto. Tale visione è presente anche nella concezione della “monade” di Leibniz. In questa visione olistica, il Cristo cosmico si configura come principio ordinatore e punto di convergenza di tutte le relazioni: non centro statico, ma dinamica di coesione tra finito e infinito, tra molteplicità e unità. Possiamo quindi affermare che la visione del Monismo relativo è teolistica (unendo così le due parole: theòs – holon, Dio – intero).

8. Causalità seconda e libertà

La riflessione teologica distingue tra causalità deterministica e causalità seconda. Quest’ultima non agisce per necessità ma per partecipazione. Essa permette una visione della realtà aperta, non predeterminata, dove la libertà – intesa come co-creazione (derivata) – è costitutiva dell’essere. Si delinea così una teologia del processo, in cui l’universo è inteso come spazio di cooperazione tra divino e creato, pur nel riconoscimento che la relazione di Dio al creato non è simmetrica, dato che il creato è nulla e non aggiunge nulla all’essenza divina.

9. Conclusione: verso un’ontologia relazionale del reale

In sintesi, l’universo non appare più come un meccanismo neutro e impersonale, ma come una rete di relazioni dotata di significato. L’approccio relazionale suggerisce un superamento delle dicotomie tra scienza e fede, tra oggettività e soggettività, tra necessità e libertà. Il Cristo cosmico diventa l’icona ermeneutica di questa nuova visione: egli è il Logos che attraversa e tiene insieme il reale, la soglia attraverso cui l’infinito si manifesta nel finito.

Questa prospettiva non solo armonizza scienza, filosofia e teologia, ma invita a ripensare l’essere come evento dialogico e creativo, in cui ogni ente è chiamato a partecipare alla costruzione del senso. In tale contesto, la conoscenza non è dominio, ma ascolto; non imposizione, ma partecipazione; non riduzione, ma rivelazione.


Poesia conclusiva della Sessione del Seminario di Maria Valentina Agostino

Il Vuoto della Tomba

culla

la Vita Nuova

su Onde di Luce

che pervadono l’Universo.

È il Vuoto

della Luce Cristica

che investe

il nous di Maria –

risorta col Risorto.

Mani asintotiche

ricreano

il Vuoto dell’Origine –

la Splendida Vacuità

da cui tutto emerge.

È Atto d’amore creativo

che si consuma

nello Spazio

di un Infinito Desiderio.

Ogni cuore è culla

della Luce Cristica –

ogni mano è fiamma

della Splendida Vacuità.

Ascendono

gli adoratori del Nulla

al Tutto

della Coscienza Cristica –

Oceano fluttuante

della Trinità amante.

Prologo post-teista

Capitolo 0 – Dell’Uno come Nulla

1 Nel grembo muto e vaginale del Nulla,
2 prima che il Nome si pronunci,
3 sorse il Dieci .
4 pieno come luce al culmine,
5 intero come il primo cerchio tracciato sull’acqua del nulla.,

Capitolo I – Dell’Uno Perfetto

1 In principio era il Dieci, (logos),
2 e il Dieci era con l’Uno (Ho Theòs),
3 e il Dieci era l’Uno manifestato nella pienezza.
4 Nulla mancava in Lui: somma dell’essere,
5 armonia dei numeri e misura di ogni forma.

6 In Lui era il Tutto, e il Tutto era compiuto.
7 colmo del divenire e fine del ritorno.


Capitolo II – Dell’Emersione del Cinque

1 Dal seno del Dieci emerse il Cinque (creatio),
2 non come ribellione, ma come riflesso.
3 Nato a metà, portava in sé
4 il desiderio dell’intero.

5 Il Cinque abita il tempo,
6 misura tra pari e dispari,
7 segno del mondo e cifra del limite.

8 In lui, il Dieci è presente,
9 ma velato, spezzato, incompiuto.


Capitolo III – Del Mistero dell’Essere

1 Il Cinque è nel Dieci,
2 ma non come metà,
3 bensì come parte redenta nella totalità del Logos.

4 Così il mondo è in Dio,
5 non come cosa distinta,
6 ma come idea eterna,
7 forma perfetta nel grembo dell’Infinito.

8 Il Finito è Dio,
9 ma nel modo del non esserlo ancora.
10 Egli è presenza nascosta,
11 fiamma sotto la cenere dell’essere.


Capitolo IV – Della Tensione del Finito

1 Il Cinque tende al Dieci
2 come la creatura al Creatore.
3 Non lo possiede, ma lo cerca.
4 Non lo vede, ma lo invoca.

5 In ogni forma del mondo
6 vive il desiderio dell’Essere.
7 Ogni limite è un richiamo,
8 ogni mancanza un segreto ponte verso la pienezza.

9 Il mondo è nostalgia di Dio,
10 e Dio è compimento del mondo.


Capitolo V – Dell’Epifania del Compimento

1 Quando il Cinque sarà Dieci,
2 la parte tornerà al Tutto.
3 Non sarà annullamento,
4 ma trasfigurazione.

5 Il mondo canterà con voce nuova:

“Io sono stato in Te fin dall’inizio,
non come mondo,
ma come Dio velato.
Ora mi rivelo in Te,
e Tu in me.”

6 Così il Finito cesserà di essere mancanza,
7 e sarà pienezza riconosciuta.

Capitolo VI – Della relazione eterna

1 E questa nostalgia è la Divinitas
2 non è il Dio che parla,
3 non il mondo che ascolta,
4 ma il soffio che li fa essere entrambi, 5 come due lingue di una sola fiamma.

Capitolo VII – Amen dell’Essere

1 Benedetto il Dieci,
2 che contiene senza essere diviso.
3 Benedetto il Cinque,
4 che desidera senza possedere.

5 Benedetto l’Essere che si manifesta nel non-essere.
6 Benedetto il silenzio che precede il Nome. 7 Benedetta la Relazione, che è danza, nodo, fiume. 8 Benedetta la Divinitas: l’Assoluto che nessuno può superare, 9 Il mistero che tiene Dio e mondo nel medesimo respiro.

Essenza, Funzione e Relazione

Introduzione

La storia della Chiesa cattolica è costellata di tensioni feconde tra diversi modi di comprendere e vivere la fede. Due approcci fondamentali si distinguono nel pensiero teologico e nell’azione pastorale dei papi: uno orientato alla funzione, alla prassi, alla relazione con il mondo e le sue ferite; l’altro centrato sull’essenza, sull’identità dottrinale, sui fondamenti immutabili della verità cristiana. Questi due orientamenti trovano espressione emblematica nel papa Francesco, da un lato, e in un ipotetico papa Leone XIV, dall’altro, il quale intende raccogliere e sviluppare l’eredità speculativa e sociale di Leone XIII.

1.Papa Francesco e Papa Leone XIV

Papa Francesco ha proposto fin dall’inizio del suo pontificato una Chiesa “in uscita”, dinamica, povera per i poveri, capace di sporcarsi le mani con la realtà. Il suo approccio è marcatamente funzionale e pastorale: l’identità cristiana si esprime soprattutto nella pratica dell’amore, della misericordia e della giustizia. Francesco rifiuta ogni rigidità dottrinale che si traduce in esclusione, e insiste sulla priorità del discernimento rispetto alla norma, sulla centralità delle periferie, e su una fede che sa parlare all’umano prima ancora che ai sistemi.

In questa prospettiva, Dio è riconosciuto nel volto del povero, la verità è una relazione vivente, e il Vangelo è un messaggio che si incarna nella storia più che una dottrina da conservare. Non è un caso che la teologia di Francesco sia intrisa di riferimenti alla misericordia divina, al popolo fedele, e alla concretezza dell’agire ecclesiale: non ciò che diciamo di Dio, ma ciò che viviamo nel suo nome mostra la nostra fede.

Immaginando la figura di un papa Leone XIV, egli si pone idealmente nel solco di Leone XIII, riaffermando non solo l’insegnamento sociale della Chiesa, ma anche i fondamenti filosofici della fede cattolica, in particolare quelli proposti da Tommaso d’Aquino, a cui Leone XIII dedicò l’enciclica Aeterni Patris (1879). In quel testo, Leone XIII esortava a riprendere la filosofia tomista come chiave di accesso razionale alla verità rivelata, sottolineando l’armonia tra fede e ragione.

Leone XIV può assume questa eredità per rilanciare una visione ontologica e identitaria del cristianesimo: la verità non si evolve, ma si contempla e si custodisce; la fede non si plasma secondo le esigenze del mondo, ma offre al mondo un fondamento oggettivo e immutabile. In tale prospettiva, la relazione con Dio e con il prossimo è possibile perché radicata in un’essenza stabile e universale, che la Chiesa è chiamata a custodire e trasmettere integralmente.

La contrapposizione tra Francesco e Leone XIV non deve essere letta in termini di opposizione assoluta, ma come dialettica interna alla tradizione cattolica. Se Francesco mette al centro l’amore che salva, Leone XIV ricorda che l’amore autentico ha bisogno della verità per non svuotarsi. Se Francesco si muove sul piano della funzione e della relazione, Leone XIV riafferma l’importanza dell’essere e della coerenza dottrinale.

La sfida per la Chiesa contemporanea potrebbe allora essere quella di tenere insieme i due poli: una fede che non rinuncia alla verità ma che si lascia interrogare dalla storia; una teologia che non dimentica i fondamenti, ma che li traduce in gesti di amore concreto. In questa tensione tra funzione e ontologia, tra pastorale e dottrina, si gioca forse la maturità spirituale e intellettuale del cristianesimo di oggi.

Nel panorama teologico contemporaneo si assiste a una crescente attenzione verso modelli interpretativi che mettono al centro la dinamicità relazionale di Dio, del Cristo e del cristianesimo. In particolare, emerge una distinzione fondamentale tra una prospettiva funzionale e una prospettiva ontologica: la prima focalizzata sull’agire salvifico e relazionale, la seconda sull’identità sostanziale ed essenziale.

2. Funzione e Ontologia: una Distinzione Fondamentale

La teologia distingue tra una visione funzionale e una ontologica sia nella cristologia che nella dottrina della Trinità e nella concezione del cristianesimo stesso.

In ambito cristologico, la cristologia funzionale si concentra sull’azione salvifica di Gesù: l’annuncio del Regno, la guarigione, la morte e risurrezione. Essa risponde alla domanda: Che cosa fa Gesù? La cristologia ontologica, invece, si interroga sulla sua identità profonda: la natura divina e umana, la generazione eterna, l’unione ipostatica. Qui la domanda centrale è: Chi è Gesù Cristo nella sua essenza?

Nella riflessione sulla Trinità, la distinzione si declina tra la Trinità economica, cioè manifestata nella storia della salvezza (funzionale), e la Trinità immanente, cioè l’essere eterno di Dio in sé (ontologica). Il Padre crea, il Figlio redime, lo Spirito santifica: tali azioni rivelano ma non esauriscono l’essere di Dio, che è uno in tre persone consustanziali.

Anche il cristianesimo può essere compreso da una prospettiva funzionale – come pratica trasformativa, cammino di liberazione, promozione dell’amore e della giustizia – oppure da una prospettiva ontologica – come insieme di verità rivelate, identità dogmatica e struttura ecclesiale fondata sull’autorità divina.

La distinzione tra funzione ed essenza non implica separazione. Al contrario, vi è una correlazione strutturale: l’essenza fonda la funzione, e la funzione manifesta l’essenza. Senza essenza, la funzione diventa priva di radici; senza funzione, l’essenza resta astratta e inerte. In teologia cristiana, questa dinamica è evidente: l’essere di Dio (amore) si rivela nell’agire salvifico, e viceversa.

Una distinzione ulteriore e fondamentale è quella tra le domande “chi è?” e “che cosa è?”. La prima concerne l’identità personale, intesa come soggettività unica, relazionale, storicamente situata. La seconda riguarda l’identità essenziale, cioè la natura o sostanza di un essere.

Applicata a Gesù Cristo, questa distinzione consente di comprendere da un lato la sua relazione col Padre (identità personale), dall’altro la sua duplice natura (identità essenziale). L’identità personale, pur contenendo l’aspetto essenziale, si esprime attraverso la relazione e la funzione: è nel suo agire e nel suo essere per gli altri che Gesù rivela chi è.

Si può dunque affermare che l’identità personale si manifesta funzionalmente, cioè che il “chi” si rivela nel “che cosa fa”. Tuttavia, non si può ridurre la persona alla sua funzione: una persona è più del suo ruolo. L’identità personale include la funzione, ma la trascende. Ne consegue che la funzione è rivelativa ma non costitutiva in senso pieno della persona.

3. Quale priorità?

A questo punto possiamo chiederci: A chi spetta la priorità? Se si afferma che la funzione eccede l’essenza, ossia che l’agire è più rivelativo dell’identità che non l’essere statico, si giunge logicamente ad affermare anche l’eccedenza della relazione sull’essenza. Questo perché ogni funzione è per definizione relazionale: agire implica sempre un riferimento a un altro.

Tale visione conduce verso una ontologia relazionale, secondo cui la relazione non è derivata ma originaria, non accessoria ma costitutiva. In teologia trinitaria, le Persone divine sono definite precisamente per relazione (il Padre genera, il Figlio è generato, lo Spirito procede). La relazione è l’essere stesso di Dio.

Questa prospettiva è coerente con molte correnti della teologia contemporanea, che pongono al centro il dinamismo relazionale come fondamento dell’identità, sia divina che umana.

Se, viceversa, si afferma l’eccedenza dell’essenza sulla funzione, allora si afferma anche l’eccedenza dell’essenza sulla relazione. Questa è la posizione della metafisica classica, in cui l’essere precede e fonda l’agire, e la relazione è considerata un accidente, non una proprietà costitutiva.

Secondo questo modello sostanzialista, l’identità si determina a partire dall’essenza autonoma, e solo in un secondo momento si relaziona o agisce. L’ontologia tradizionale, ispirata ad Aristotele e Tommaso d’Aquino, si basa su questo paradigma.

Tuttavia, tale modello è oggi ampiamente criticato. Esso risulta inadeguato a rendere conto della rivelazione cristiana, in cui Dio stesso è relazione, e l’essere umano è immagine di Dio nella misura in cui è capace di relazione. Di qui l’urgenza di ripensare la struttura dell’essere non più a partire dalla sostanza isolata, ma dalla relazionalità come categoria ontologica originaria.

Conclusione

Il percorso tracciato conduce a una sintesi teologica e filosofica in cui essenza, funzione e relazione non si pongono in opposizione, ma in un rapporto dinamico e reciproco. La funzione rivela l’essenza, la relazione costituisce l’identità, e l’essere si compie nell’amore. L’ontologia relazionale che ne emerge non nega l’essenza, ma la ripensa come realtà aperta, relazionale e donativa. In questa prospettiva, si realizza una visione pienamente cristiana dell’identità, in cui “essere” è sempre anche “essere per l’altro”, e la relazione diventa forma concreta dell’essere stesso.

Gesù di Nazaret: Tra Mistica Etica e Mistica Ontica

1. Introduzione: il problema della mistica applicata a Gesù
Il termine “mistica”, nella sua accezione classica occidentale, è concettualmente e storicamente distante dal mondo culturale e religioso in cui visse Gesù di Nazareth. Originatosi nella teologia cristiana tardo-medievale, esso designa un’esperienza di unione diretta, assoluta e senza mediazione tra l’anima e Dio, spesso in chiave ontologica. Un tale impianto presuppone una concezione metafisica di Dio come totalmente altro e un’anima in grado di fondersi con l’assoluto divino.
L’applicazione di questa categoria a Gesù pone problemi storiografici e religiosi rilevanti, in quanto rischia di proiettare sulla figura storica di Gesù elementi estranei alla cultura giudaica del I secolo. In tale contesto, è più appropriato parlare – con Mauro Pesce e Moshe Idel – di mistica etica, ovvero di esperienze di contatto con il divino mediate da figure simboliche e pratiche rituali specifiche.


2. Mistica ontica e mistica etica: distinzione concettuale

La mistica ontica (o ontologica) mira all’unione sostanziale con Dio, all’annullamento del sé e alla fusione con l’assoluto. È caratteristica della mistica cristiana post-agostiniana e del neoplatonismo. In contrasto, la mistica etica si fonda sull’identificazione comportamentale con Dio, sull’imitazione del suo agire e sulla trasformazione interiore ed esterna dell’uomo in vista del compimento della volontà divina.
In questo quadro, la mistica etica implica un rapporto relazionale e non essenziale con Dio, ed è culturalmente più compatibile con il giudaismo del Secondo Tempio, in cui Dio agisce attraverso mediazioni (Spirito, Nome, Sapienza, Figlio, ecc.) e si manifesta attraverso simboli, visioni e azioni escatologiche.

3. Il contesto giudaico: il polimorfismo divino
Il giudaismo ellenistico-romano era caratterizzato da un complesso sistema di mediazioni divine. Accanto al Dio sovrano, esistevano entità semi-divine o ipostatiche – come la Ruah, la Memra, il Nome, la Gloria, il Logos, il Figlio dell’uomo, Metatron, Melchisedek – che fungevano da intermediari tra Dio e l’uomo. Tali forme di polimorfismo divino rendevano accessibile l’esperienza del sacro, non attraverso una fusione ontologica, ma mediante visioni, viaggi celesti, esperienze vocali, culto e preghiera.
In questo contesto si inserisce l’esperienza religiosa di Gesù, che può essere descritta come partecipazione a un sistema simbolico condiviso, attraverso cui egli interpreta il proprio rapporto con il divino.

4. Le due modalità dell’esperienza mistica in Gesù
Secondo Mauro Pesce, in Gesù si manifestano due forme distinte ma complementari di mistica etica:


a) Filiazione per incorporazione dello Spirito: Gesù si comprende come Figlio di Dio in seguito a esperienze estatiche, specialmente durante il battesimo. La Ruah, immaginata come madre, lo prende e lo guida, conferendogli la consapevolezza di una filiazione costante e attiva. Questo tipo di esperienza non annulla il sé, ma lo trasforma, fondando una nuova identità etica e missionaria.
b) Identificazione con il Figlio dell’uomo: Gesù si identifica con la figura escatologica del Figlio dell’uomo, senza però dichiararsi tale in senso ontologico. L’identificazione è simbolica e funzionale, legata al ruolo che egli assume nella predicazione del regno di Dio. Si tratta di una mistica dell’agire, non dell’essere.


5. La preghiera come spazio di trasformazione
La preghiera, nel pensiero e nella prassi di Gesù, è lo strumento principale del contatto col divino. Non è solo richiesta o contemplazione, ma azione performativa che trasforma l’orante (Mt 5,44-48), chiede l’intervento divino, conferisce potere esorcistico (Mc 9,29), fonda l’identità del Figlio (Mt 5,45). La preghiera si colloca quindi al crocevia tra mistica etica personale e prassi collettiva di attesa del regno. Essa implica sempre una disposizione etica (es. riconciliazione, perdono) come condizione per l’ascolto divino.


6. L’identificazione di Gesù come “persona dello Spirito”

L’espressione “persona dello Spirito” permette di leggere in continuità la dimensione profetico-escatologica e quella carismatico-taumaturgica del ministero di Gesù. Essa evita sia la riduzione etica che lo spiritualismo atemporale, e consente di mantenere la portata escatologica del messaggio di Gesù, spesso ridotta da alcune correnti contemporanee. Gesù si radica nella speranza messianica del giudaismo apocalittico: un Dio che viene.


7. Mistica etica e compimento ontico
La relazione etica con Dio sperimentata da Gesù si apre, nel Nuovo Testamento, a un compimento ontico: Gesù è colui che esiste nello/dallo Spirito e si identifica pienamente con la Parola. In lui, Dio non parla solo “per mezzo” del profeta, ma “diventa” la sua parola vivente. La croce, in questo senso, è il momento rivelativo dell’identità divina di Gesù.

8. La coscienza profetica e il pathos divino
Ulrich Mauser, con riferimento ad Abraham Heschel, vede nella coscienza profetica lo spazio in cui Dio manifesta il suo pathos. Gesù rappresenta il vertice di questa linea: in lui la rivelazione non è frammentaria ma totale. Il pathos divino si incarna nella vita di Gesù, la cui storia diventa pienamente Parola di Dio.


9. Dalla mediazione molteplice alla rivelazione univoca
La rivelazione veterotestamentaria è plurale e mediata. In Gesù, essa si concentra e si unifica: Dio non solo parla tramite Gesù, ma si identifica con la sua vita, morte e resurrezione. La croce è la parola definitiva di Dio: in essa si rivela la profondità dell’essere divino.


10. Conclusione
Gesù di Nazaret si colloca al crocevia tra mistica etica e ontica. È mistico etico in quanto vive una relazione con Dio fondata sull’obbedienza, sulla preghiera, sull’annuncio profetico. È mistico ontico perché in lui Dio si rivela pienamente, e la sua storia diventa rivelazione. Egli è la “persona dello Spirito”, colui che vive nello Spirito, agisce per lo Spirito, dona lo Spirito. In lui si compie la speranza profetica del giudaismo e si realizza la rivelazione definitiva del Dio vivente.