
La questione dell’identità personale rappresenta una delle sfide più profonde della riflessione antropologica, tanto sul piano filosofico quanto su quello teologico. L’interrogativo radicale «Chi sono io?» accompagna l’essere umano lungo tutto il suo percorso esistenziale, attraversando epoche, culture e tradizioni spirituali. Nella cultura contemporanea, caratterizzata da un forte individualismo e da una crescente instabilità dei riferimenti identitari, tale domanda si carica di una particolare urgenza.
L’antropologia moderna tende a definire l’identità dell’individuo secondo categorie funzionali e relazionali: l’essere umano si percepisce in base a ciò che fa, a ciò che possiede o al riconoscimento sociale di cui gode. Questa triplice riduzione—l’identificazione con il fare, con l’avere e con l’apparire—costituisce una delle principali radici della fragilità psicologica e della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo. La teologia cristiana riconosce in tali dinamiche una vera e propria distorsione dell’identità originaria dell’uomo, identificandola come una delle più subdole strategie della menzogna antropologica.
Il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto (Mt 4,1-11) offre una chiave ermeneutica privilegiata per comprendere questa dinamica. Le tre tentazioni—potere, fama e autosufficienza materiale—rappresentano simbolicamente le tre grandi illusioni identitarie in cui l’essere umano rischia di perdersi. La risposta di Cristo a queste suggestioni demoniche si radica nella certezza della propria identità ricevuta dal Padre: «Tu sei il mio Figlio amato, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Tale proclamazione, antecedente a ogni azione o merito personale, costituisce il fondamento ontologico della persona di Gesù e, per analogia, di ogni essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio. Infatti, noi condividiamo con Gesù la stessa natura umana.
L’antropologia teologica, in questa prospettiva, afferma che ogni essere umano è, nella sua verità più profonda, figlio o figlia amata di Dio, indipendentemente dai successi o dai fallimenti, dalle approvazioni o dalle condanne sociali, dai possedimenti o dalle privazioni materiali. Questa identità ontologica precede ogni costruzione culturale e ogni dinamica relazionale: è un dato originario, inscritto nell’essere stesso della persona, come espresso nella Scrittura: «Ti ho amato di un amore eterno» (Ger 31,3); «Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,16).
Tuttavia, il riconoscimento esistenziale di questa verità non è immediato né scontato. L’essere umano, ferito nel cuore dalla fragilità delle relazioni umane e dalla propria inclinazione al peccato, necessita di un processo di purificazione interiore – direi di un lavoro spirituale interiore – per riscoprire e integrare la propria vera identità. Questo richiede un lavoro profondo sull’interiorità, il luogo delle decisioni più autentiche, ma anche delle lotte e delle ferite interiori. Agostino invita a “ritornare al cuore”, perché lì troviamo le tracce di Dio e del suo amore.
Anche se può far paura confrontarsi con le proprie ferite, è proprio da esse che può nascere la capacità di accompagnare chi soffre. Senza vita interiore, non esiste vera vita spirituale. Conoscere Dio è conoscere se stessi. Ascoltare Dio significa – quindi – saper ascoltare se stessi. Dio ci parla nel cuore e non possiamo non ascoltarlo senza imparare ad ascoltare noi stessi. Parte di questo cammino è imparare a riconoscere i movimenti profondi del cuore, andando oltre le emozioni superficiali per ascoltare i sentimenti veri, che orientano la nostra vita e ci rendono autentici.
La via privilegiata per questo percorso interiore è l’orazione, in particolare l’orazione di quiete che ci restituisce il valore del silenzio e della solitudine, indispensabili per incontrare Dio e conoscere davvero noi stessi. È nell’interiorità che si apre un interessante dialogo tra la tradizione cristiana e la filosofia neoplatonica, in particolare il pensiero di Plotino.
Nel cuore della riflessione plotiniana, si trova infatti un invito altrettanto radicale alla trasformazione interiore. Secondo Plotino, l’uomo, nella sua condizione originaria, è assimilabile a una statua grezza, ancora coperta di impurità e segnata da forme distorte e ombre che ne oscurano la vera natura. Per accedere alla contemplazione della Bellezza autentica e alla conoscenza del Bene supremo, è necessaria una rigorosa opera di “scolpitura dell’anima”.
Plotino utilizza un’immagine fortemente evocativa: così come lo scultore rimuove dal marmo tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto e leviga ciò che è opaco, allo stesso modo l’essere umano è chiamato a eliminare ogni inclinazione disordinata, ogni oscurità morale, ogni forma di attaccamento che lo separa dalla sua verità profonda. In questa prospettiva, la virtù non è soltanto una disposizione etica, ma una vera e propria pratica di purificazione spirituale, finalizzata a restituire all’anima la sua originaria luminosità.
Plotino distingue chiaramente due livelli di accesso alla verità: il primo è quello discorsivo, mediato dal linguaggio, fatto di immagini e analogie; il secondo è quello esperienziale, che richiede un autentico cammino di ascesi morale, disciplina interiore e distacco dalle illusioni sensibili. Solo chi percorre questa via di trasformazione può giungere alla conoscenza diretta dell’Intelletto e, in ultima istanza, all’unione con l’Uno, il principio trascendente da cui tutto deriva.
Questa unione non rappresenta una semplice acquisizione concettuale, ma una vera e propria esperienza trasformativa, un’esplosione dell’Io individuale nella totalità dell’Essere. Plotino descrive così questa metamorfosi: «Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l’Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 10, 12).
L’analogia tra il percorso di purificazione plotiniano e l’itinerario spirituale cristiano è evidente, pur nelle profonde differenze teologiche. Anche nella prospettiva cristiana, la riscoperta della propria identità di “amato di Dio” richiede un lavoro continuo di conversione interiore, di purificazione dalle false immagini di sé, dalle aspettative mondane e dalle dipendenze affettive disordinate.
Ogni esperienza di rifiuto, sofferenza o delusione può diventare un momento di potatura spirituale, come suggerisce la metafora evangelica della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), orientata a far emergere la verità più profonda dell’essere umano. Solo chi accetta questo processo di trasformazione può giungere a vivere nella piena libertà dei figli di Dio, liberandosi dal bisogno compulsivo di approvazione, successo e possesso.
In ultima analisi, sia la metafisica plotiniana sia l’antropologia teologica cristiana convergono su un punto essenziale: l’identità più autentica dell’essere umano si scopre solo attraverso un processo di spoliazione, di purificazione e di riappropriazione della propria origine. Nell’una come nell’altra prospettiva, il fine ultimo è l’unione con il Principio: per il cristiano, questa unione si realizza nella comunione filiale con Dio, attraverso Cristo, nel dinamismo dello Spirito Santo.
A una prima vista, tuttavia, sembrerebbe che la prospettiva cristiana dell’interiorità conduca ad un “Tu”, quello di Cristo che mi ama, mentre la prospettiva plotiniana ad un “io” che è la natura divina che mi fa essere quello che sono. Secondo la fede cristiana, il Principio è certamente un “Tu” e non un “Io”. «In Principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Chi è il Verbo che è “in principio” ed è “presso Dio”? Il Verbo non è Qualcuno ma è l’essere-orientati-a-Dio, all’originario Silenzio, che è né Qualcosa, né Qualcuno. Trans-personale. Essere ascoltati da chi – non comprendendolo – mi comprende, silenziosamente mi fonda.
«Se Dio non fosse un io, come potrei essere io stesso un io? In fondo al mio io, alla radice, c’è l’Io di Dio. E dunque, se Dio è io, io sono il tu che egli si dice, che egli mi dice» (H. Le Saux, Diario spirituale, p. 432).
Il fondo dell’anima non è né un “io”, né un “tu” ma è la relazione silente in cui amante, amato e amore sono una sola cosa.
L’uomo, pertanto, non è definito da ciò che fa, da ciò che possiede o da ciò che gli altri dicono di lui, ma dalla sua appartenenza ontologica e indissolubile all’Amore originario da cui proviene e verso cui è chiamato a ritornare.





