Chi sono?

La questione dell’identità personale rappresenta una delle sfide più profonde della riflessione antropologica, tanto sul piano filosofico quanto su quello teologico. L’interrogativo radicale «Chi sono io?» accompagna l’essere umano lungo tutto il suo percorso esistenziale, attraversando epoche, culture e tradizioni spirituali. Nella cultura contemporanea, caratterizzata da un forte individualismo e da una crescente instabilità dei riferimenti identitari, tale domanda si carica di una particolare urgenza.

L’antropologia moderna tende a definire l’identità dell’individuo secondo categorie funzionali e relazionali: l’essere umano si percepisce in base a ciò che fa, a ciò che possiede o al riconoscimento sociale di cui gode. Questa triplice riduzione—l’identificazione con il fare, con l’avere e con l’apparire—costituisce una delle principali radici della fragilità psicologica e della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo. La teologia cristiana riconosce in tali dinamiche una vera e propria distorsione dell’identità originaria dell’uomo, identificandola come una delle più subdole strategie della menzogna antropologica.

Il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto (Mt 4,1-11) offre una chiave ermeneutica privilegiata per comprendere questa dinamica. Le tre tentazioni—potere, fama e autosufficienza materiale—rappresentano simbolicamente le tre grandi illusioni identitarie in cui l’essere umano rischia di perdersi. La risposta di Cristo a queste suggestioni demoniche si radica nella certezza della propria identità ricevuta dal Padre: «Tu sei il mio Figlio amato, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Tale proclamazione, antecedente a ogni azione o merito personale, costituisce il fondamento ontologico della persona di Gesù e, per analogia, di ogni essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio. Infatti, noi condividiamo con Gesù la stessa natura umana.

L’antropologia teologica, in questa prospettiva, afferma che ogni essere umano è, nella sua verità più profonda, figlio o figlia amata di Dio, indipendentemente dai successi o dai fallimenti, dalle approvazioni o dalle condanne sociali, dai possedimenti o dalle privazioni materiali. Questa identità ontologica precede ogni costruzione culturale e ogni dinamica relazionale: è un dato originario, inscritto nell’essere stesso della persona, come espresso nella Scrittura: «Ti ho amato di un amore eterno» (Ger 31,3); «Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,16).

Tuttavia, il riconoscimento esistenziale di questa verità non è immediato né scontato. L’essere umano, ferito nel cuore dalla fragilità delle relazioni umane e dalla propria inclinazione al peccato, necessita di un processo di purificazione interiore – direi di un lavoro spirituale interiore – per riscoprire e integrare la propria vera identità. Questo richiede un lavoro profondo sull’interiorità, il luogo delle decisioni più autentiche, ma anche delle lotte e delle ferite interiori. Agostino invita a “ritornare al cuore”, perché lì troviamo le tracce di Dio e del suo amore.

Anche se può far paura confrontarsi con le proprie ferite, è proprio da esse che può nascere la capacità di accompagnare chi soffre. Senza vita interiore, non esiste vera vita spirituale. Conoscere Dio è conoscere se stessi. Ascoltare Dio significa – quindi – saper ascoltare se stessi. Dio ci parla nel cuore e non possiamo non ascoltarlo senza imparare ad ascoltare noi stessi. Parte di questo cammino è imparare a riconoscere i movimenti profondi del cuore, andando oltre le emozioni superficiali per ascoltare i sentimenti veri, che orientano la nostra vita e ci rendono autentici.

La via privilegiata per questo percorso interiore è l’orazione, in particolare l’orazione di quiete che ci restituisce il valore del silenzio e della solitudine, indispensabili per incontrare Dio e conoscere davvero noi stessi. È nell’interiorità che si apre un interessante dialogo tra la tradizione cristiana e la filosofia neoplatonica, in particolare il pensiero di Plotino.

Nel cuore della riflessione plotiniana, si trova infatti un invito altrettanto radicale alla trasformazione interiore. Secondo Plotino, l’uomo, nella sua condizione originaria, è assimilabile a una statua grezza, ancora coperta di impurità e segnata da forme distorte e ombre che ne oscurano la vera natura. Per accedere alla contemplazione della Bellezza autentica e alla conoscenza del Bene supremo, è necessaria una rigorosa opera di “scolpitura dell’anima”.

Plotino utilizza un’immagine fortemente evocativa: così come lo scultore rimuove dal marmo tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto e leviga ciò che è opaco, allo stesso modo l’essere umano è chiamato a eliminare ogni inclinazione disordinata, ogni oscurità morale, ogni forma di attaccamento che lo separa dalla sua verità profonda. In questa prospettiva, la virtù non è soltanto una disposizione etica, ma una vera e propria pratica di purificazione spirituale, finalizzata a restituire all’anima la sua originaria luminosità.

Plotino distingue chiaramente due livelli di accesso alla verità: il primo è quello discorsivo, mediato dal linguaggio, fatto di immagini e analogie; il secondo è quello esperienziale, che richiede un autentico cammino di ascesi morale, disciplina interiore e distacco dalle illusioni sensibili. Solo chi percorre questa via di trasformazione può giungere alla conoscenza diretta dell’Intelletto e, in ultima istanza, all’unione con l’Uno, il principio trascendente da cui tutto deriva.

Questa unione non rappresenta una semplice acquisizione concettuale, ma una vera e propria esperienza trasformativa, un’esplosione dell’Io individuale nella totalità dell’Essere. Plotino descrive così questa metamorfosi: «Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l’Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 10, 12).

L’analogia tra il percorso di purificazione plotiniano e l’itinerario spirituale cristiano è evidente, pur nelle profonde differenze teologiche. Anche nella prospettiva cristiana, la riscoperta della propria identità di “amato di Dio” richiede un lavoro continuo di conversione interiore, di purificazione dalle false immagini di sé, dalle aspettative mondane e dalle dipendenze affettive disordinate.

Ogni esperienza di rifiuto, sofferenza o delusione può diventare un momento di potatura spirituale, come suggerisce la metafora evangelica della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), orientata a far emergere la verità più profonda dell’essere umano. Solo chi accetta questo processo di trasformazione può giungere a vivere nella piena libertà dei figli di Dio, liberandosi dal bisogno compulsivo di approvazione, successo e possesso.

In ultima analisi, sia la metafisica plotiniana sia l’antropologia teologica cristiana convergono su un punto essenziale: l’identità più autentica dell’essere umano si scopre solo attraverso un processo di spoliazione, di purificazione e di riappropriazione della propria origine. Nell’una come nell’altra prospettiva, il fine ultimo è l’unione con il Principio: per il cristiano, questa unione si realizza nella comunione filiale con Dio, attraverso Cristo, nel dinamismo dello Spirito Santo.

A una prima vista, tuttavia, sembrerebbe che la prospettiva cristiana dell’interiorità conduca ad un “Tu”, quello di Cristo che mi ama, mentre la prospettiva plotiniana ad un “io” che è la natura divina che mi fa essere quello che sono. Secondo la fede cristiana, il Principio è certamente un “Tu” e non un “Io”. «In Principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Chi è il Verbo che è “in principio” ed è “presso Dio”? Il Verbo non è Qualcuno ma è l’essere-orientati-a-Dio, all’originario Silenzio, che è né Qualcosa, né Qualcuno. Trans-personale. Essere ascoltati da chi – non comprendendolo – mi comprende, silenziosamente mi fonda.

«Se Dio non fosse un io, come potrei essere io stesso un io? In fondo al mio io, alla radice, c’è l’Io di Dio. E dunque, se Dio è io, io sono il tu che egli si dice, che egli mi dice» (H. Le Saux, Diario spirituale, p. 432).

Il fondo dell’anima non è né un “io”, né un “tu” ma è la relazione silente in cui amante, amato e amore sono una sola cosa.

L’uomo, pertanto, non è definito da ciò che fa, da ciò che possiede o da ciò che gli altri dicono di lui, ma dalla sua appartenenza ontologica e indissolubile all’Amore originario da cui proviene e verso cui è chiamato a ritornare.

Beati i puri di cuore, perché vedendo Dio, diventeranno Dio

Nel cuore del pensiero di Plotino si trova un invito profondo e radicale alla trasformazione interiore. L’uomo, nella sua condizione originaria, è come una statua grezza, ancora intrisa di impurità, forme distorte e ombre che ne oscurano la vera natura. Per poter contemplare la Bellezza autentica e giungere alla conoscenza del Bene supremo, occorre iniziare un lavoro di scolpitura dell’anima.

Plotino usa un’immagine molto evocativa: come lo scultore elimina tutto ciò che è superfluo dal marmo, raddrizza ciò che è storto e leviga ciò che è opaco, così anche ciascuno di noi è chiamato a togliere da sé ogni elemento estraneo, ogni inclinazione disordinata e ogni oscurità morale. La virtù, in questa prospettiva, non è solo una disposizione etica, ma un’opera di “pulizia spirituale” che restituisce all’anima la sua originaria luminosità.

Questa purificazione non è un semplice esercizio intellettuale. Non basta comprendere concettualmente il Bene o ascoltare un insegnamento filosofico su di esso. Plotino sottolinea che esistono due livelli di avvicinamento alla verità suprema: da un lato c’è la parola, il discorso, l’insegnamento che può solo descrivere il Bene in modo indiretto, usando immagini, analogie o negazioni. Dall’altro c’è il cammino esistenziale, fatto di esercizi spirituali, ascesi morale e disciplina interiore.

Solo chi percorre davvero questa strada, chi si impegna nel riordinamento delle proprie passioni, nella pratica delle virtù e nel distacco dalle illusioni del mondo sensibile, può giungere alla conoscenza diretta dell’Intelletto e infine dell’Uno, il principio da cui tutto deriva.

Ma il traguardo non è solo una comprensione razionale: è un’esperienza trasformativa, una sorta di “esplosione” della propria individualità. Per Plotino, il filosofo non deve solo conoscere il Bene: deve diventare una cosa sola con esso. Questo richiede di spogliarsi di ogni forma determinata, di liberarsi da ogni attaccamento e di lasciare spazio a una condizione di assoluta semplicità e trasparenza spirituale.

In questa prospettiva, la filosofia non è un sapere astratto, ma una vera e propria pratica di vita, una via di perfezionamento che porta l’anima a riconoscersi finalmente nella luce dell’Assoluto. Così descrive Plotino la trasformazione (metamorfosi dell’Io):

«Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l’Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 10, 12)

Nel Vangelo di Giovanni 14,6), Gesù afferma di essere “la via, la verità e la vita”. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di lui. Ma chi è Gesù? Lo dice lui stesso: “Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio”. L’Io-Sono di Gesù è lo stesso del Padre, il mio, tuo “Io -Sono” è quello stesso di Gesù. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Il centro è Uno solo che si comunica a Gesù. Il comunicarsi è la Parola e lo Spirito è il riverbero di questa Parola. Da Gesù a te e a me, e a tutti.

Un cristianesimo non-duale è possibile

Quando i sistemi su cui abbiamo a lungo basato la nostra comprensione cominciano a fallire, sono necessarie nuove forme di pensiero. Il cristianesimo, nella sua attuale forma occidentale, sta declinando. Questo declino non è solo una questione di numeri o di partecipazione alle chiese, ma riguarda un cambiamento più profondo nel modo in cui le persone percepiscono e comprendono il mondo. Il sistema di cristianesimo che sta fallendo è quello della dualità, un sistema che mette insieme i distinti a partire dalla loro irrelata identità.

La dualità ha dominato il pensiero occidentale per secoli, creando una visione del mondo basata su opposizioni: bene e male, corpo e anima, Dio e uomo. Tuttavia, questo modo di pensare non riesce più a rispondere alle esigenze di una società sempre più complessa e interconnessa. La dualità, con la sua tendenza a separare e contrapporre, non riesce a cogliere la profondità delle relazioni e delle interconnessioni che caratterizzano la realtà contemporanea.

Il nuovo pensiero che emerge è invece nonduale. Questo approccio non cerca di mettere insieme i distinti partendo dalla loro irrelata identità, ma riconosce che ogni cosa è già intrinsecamente connessa. La non-dualità supera la separazione e la contrapposizione, proponendo una visione del mondo in cui le differenze non sono barriere, ma punti di connessione.

Già il filosofo Franz Rosenzweig aveva proposto una revisione del pensiero occidentale puntando sulla alterità. Tuttavia, questa prospettiva si è rivelata insufficiente. L’alterità implica ancora un’identità e una relazione pre-terministica, una relazione previa e senza suoi termini. La non-dualità, invece, riconosce che la relazione è primaria e che i termini della relazione emergono solo all’interno di essa.

La non-dualità rappresenta un cambiamento radicale nel modo di pensare e di percepire il mondo. A differenza della dualità, che separa e contrappone, la non-dualità riconosce l’interconnessione intrinseca di tutte le cose. Questo approccio non cerca di unire ciò che è distinto partendo dalla loro irrelata identità, ma vede ogni cosa come già intrinsecamente connessa.

In un sistema dualistico, il mondo è visto attraverso una lente di opposizioni: bene e male, corpo e anima, Dio e uomo. Questa visione crea una separazione artificiale tra gli elementi, portando a conflitti e incomprensioni. La non-dualità, invece, supera queste barriere, proponendo una visione del mondo in cui le differenze non sono ostacoli, ma punti di connessione.

Un esempio di pensiero nonduale può essere trovato nelle tradizioni filosofiche orientali, come il Taoismo e il Buddhismo. Queste tradizioni insegnano che tutte le cose sono interconnesse e che la separazione è un’illusione. Il Taoismo, ad esempio, parla del Tao come la forza unificante che permea tutto l’universo, mentre il Buddhismo insegna l’interdipendenza di tutti i fenomeni.

Nel contesto del cristianesimo, la non-dualità può essere vista come un ritorno alle radici spirituali della fede, che enfatizzano l’unità e l’amore universale. Questo approccio può portare a una comprensione più profonda della relazione tra Dio e l’uomo, non come due entità separate, ma come manifestazioni di una stessa realtà divina.

La non-dualità non nega le differenze, ma le integra in una visione più ampia e inclusiva. Riconosce che ogni individuo, ogni esperienza, ogni fenomeno è parte di un tutto più grande. Questo pensiero può portare a una maggiore armonia e comprensione, sia a livello personale che sociale.

La non-dualità rappresenta una nuova forma di pensiero che risponde alle esigenze di una società sempre più complessa e interconnessa. Superando la separazione e la contrapposizione, offre una visione del mondo in cui le differenze sono viste come punti di connessione, piuttosto che come barriere. Questo approccio può portare a una comprensione più profonda e inclusiva della realtà, promuovendo l’armonia e la comprensione a tutti i livelli.

Nella vita quotidiana la non-dualità porta a una maggiore armonia e comprensione nelle nostre relazioni e nelle nostre esperienze. Ecco alcuni modi per integrare questo pensiero nella tua vita:

Consapevolezza delle interconnessioni: Riconosci che tutto è interconnesso. Ogni azione che compi ha un impatto sugli altri e sull’ambiente. Coltiva la consapevolezza che le tue scelte e i tuoi comportamenti influenzano il mondo intorno a te.

Superare le divisioni: Cerca di superare le divisioni e le contrapposizioni. Quando incontri qualcuno con opinioni diverse dalle tue, prova a vedere le somiglianze piuttosto che le differenze. Questo può aiutarti a costruire relazioni più armoniose e a comprendere meglio gli altri.

Meditazione e riflessione: Pratica la meditazione e la riflessione per coltivare la consapevolezza della non-dualità. La meditazione può aiutarti a riconoscere l’interconnessione di tutte le cose e a superare la separazione tra te e il mondo.

Accettazione e compassione: Coltiva l’accettazione e la compassione verso te stesso e gli altri. Riconosci che ogni persona è parte di un tutto più grande e che le differenze sono punti di connessione piuttosto che barriere.

Vivere nel presente: Cerca di vivere nel presente e di essere consapevole delle tue esperienze. La non-dualità ci insegna che ogni momento è intrinsecamente connesso al tutto. Essere presenti può aiutarti a riconoscere questa connessione e a vivere in modo più armonioso.

Pratica della gratitudine: Coltiva la gratitudine per le interconnessioni nella tua vita. Riconosci che ogni esperienza, ogni persona e ogni momento sono parte di un tutto più grande e che la gratitudine può aiutarti a vedere le connessioni e a vivere in modo più positivo.

Integrando questi principi nella tua vita quotidiana, puoi coltivare una maggiore consapevolezza delle interconnessioni e delle relazioni che caratterizzano la realtà. Questo può portare a una maggiore armonia e comprensione, sia a livello personale che sociale.

La non-dualità nel cristianesimo

La non-dualità nel cristianesimo può essere vista come un ritorno alle radici spirituali del Vangelo di Gesù, enfatizzando l’unità e l’amore universale anche in dialogo con le altre religioni.

Nel cristianesimo, uno dei principi fondamentali è l’unità di Dio e dell’umanità. Gesù Cristo, nella sua duplice natura divina e umana, rappresenta questa unità. La sua incarnazione è vista come un ponte tra il divino e l’umano, superando la separazione tra Dio e l’uomo. Questo concetto può essere interpretato in chiave non-duale, riconoscendo che il divino e l’umano non sono due realtà separate, ma manifestazioni di una stessa realtà divina.

L’amore come forza unificante: L’amore è un tema centrale del Vangelo e può essere visto come una forza unificante che supera le divisioni. L’amore di Dio per l’umanità e l’amore reciproco tra gli esseri umani sono espressioni di questa unità. La non-dualità ci invita a vedere l’amore non come una relazione tra due entità separate, ma come una manifestazione dell’unità intrinseca di tutte le cose.

Il concetto cristiano di Trinità può essere interpretato in chiave non-duale. La Trinità rappresenta l’unità nella diversità, mostrando che le tre persone divine sono “metafore” che rinviano alla matrice della realtà, considerata senza separazioni, dove ogni essere è interconnesso e coesistente in un’unica realtà divina. Questo concetto può essere visto come un esempio di non-dualità, in cui le differenze non sono barriere, ma espressioni di una stessa realtà.

La tradizione mistica cristiana offre numerosi esempi di pensiero non-duale. Mistici come Meister Eckhart, Giovanni della Croce e Teresa d’Avila hanno esplorato l’idea dell’unione con Dio, descrivendo esperienze di unità e interconnessione con il divino. Queste esperienze mistiche possono essere viste come espressioni di non-dualità, in cui la separazione tra l’individuo e Dio viene superata.

La pratica della preghiera e della meditazione: La preghiera e la meditazione sono pratiche fondamentali nel cristianesimo che possono favorire una visione non-duale. Attraverso la preghiera contemplativa e la meditazione, i credenti possono sperimentare un senso di unità con Dio e con il mondo, superando la separazione e riconoscendo l’interconnessione di tutte le cose.

L’etica della non-dualità: L’etica cristiana può essere arricchita dalla prospettiva non-duale, che enfatizza l’interconnessione e l’unità di tutte le cose. Questo approccio può portare a una maggiore compassione, giustizia e rispetto per l’altro, riconoscendo che ogni persona è parte di un tutto più grande.

L’unità di Dio e dell’umanità

L’unità di Dio e dell’umanità è un concetto centrale nella teologia cristiana, che trova la sua espressione più completa – ma non esaustiva – nella figura storica di Gesù di Nazareth.

L’Incarnazione è il paradigma secondo cui ogni essere “diventa-Cristo”. Secondo la dottrina cristiana, Gesù Cristo è Dio fatto uomo, unendo in sé la natura divina e quella umana. Questa unione non è temporanea o superficiale, ma profonda e permanente. In Cristo, Dio e l’uomo non sono due realtà separate, ma una sola persona. Questo mistero dell’Incarnazione mostra che il divino e l’umano sono intrinsecamente connessi e che la separazione tra Dio e l’uomo è superata nella “persona di Cristo”.  

La “persona” di Cristo non è un individuo ma è la comunione di tutti gli esseri che sussistono in Dio (personalità corporativa). Poiché siamo tutti uomini “con-Gesù”, diventiamo Cristo “con-Gesù”. Ma Cristo è “più” che Gesù. Dio è tutto in Gesù (consustanziale con Dio), ma non totalmente. Anche noi possiamo diventare “con-Gesù” il Cristo e quindi anche in noi, Dio è tutto (consustanziali a Dio), benché non totalmente.

Attraverso la sua morte e risurrezione, Gesù ha reso evidente il mistero di Cristo già presente nell’umanità e nel creato. La salvezza (salvus = integro/intero) non è un evento futuro, ma una realtà presente che trasforma la vita dei credenti, rendendoli partecipi della natura divina.

La Trinità è una metafora che indica la realtà divina della relazione di tutti gli esseri. Dio è il Suo essere e l’essere di tutte le cose. La tradizione mistica cristiana offre numerosi esempi di esperienze di unità con Dio. Mistici come Meister Eckhart, Giovanni della Croce e Teresa d’Avila hanno descritto esperienze di unione con il divino, in cui la separazione tra l’individuo e Dio viene superata. Queste esperienze mistiche sono espressioni di una profonda unità e interconnessione con Dio, che trascende le categorie della dualità.

L’unità di Dio e dell’umanità si riflette anche nell’etica cristiana, che è centrata sull’amore. Gesù ha insegnato che il comandamento più grande è amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la mente, e amare il prossimo come se stessi. Questo amore non è solo un sentimento, ma un impegno concreto a vivere in unità e comunione con gli altri. L’amore cristiano supera le barriere della separazione e della divisione, riconoscendo che ogni persona è parte di un tutto più grande.

La liturgia e i sacramenti sono espressioni concrete dell’unità di Dio e dell’umanità. Nella celebrazione dell’Eucaristia, i credenti partecipano alla realtà “sacramentale” del corpo e al sangue di Cristo (= tutto Cristo), entrando in una comunione profonda con Dio e con gli altri membri della comunità. I sacramenti sono segni efficaci della grazia divina, nel senso che “rendono presente” (ma non che la producano), “certificano” pubblicamente che Dio opera attraverso la nostra umanità e il creato intero.  

Unità nella Diversità

Ripensare la Chiesa secondo l’idea della non-dualità richiede un cambiamento profondo nel modo in cui la comunità cristiana percepisce se stessa, le sue relazioni interne e il suo rapporto con il mondo. Ecco alcune riflessioni su come questo potrebbe avvenire:

La non-dualità ci invita a vedere le differenze non come barriere, ma come punti di connessione. La Chiesa è un’anticipazione pubblica della trasformazione universale del mondo. Il modo ecclesiale di pensare, vivere e agire è rappresentazione/sacramento dell’utopia di Dio. Questo approccio valorizza ogni individuo come parte integrante del corpo di Cristo, riconoscendo che la diversità arricchisce la comunità, accogliendo persone di diverse culture, tradizioni e orientamenti.

La Chiesa è fedele a Dio quando rafforza le relazioni tra i suoi membri, promuovendo una cultura di collaborazione e sostegno reciproco. Non sono solo sette i sacramenti, ma ogni iniziativa di servizio comunitario, supporto e attività che favoriscono la costruzione di legami profondi e significativi nel Corpo di Cristo, è sacramento di salvezza.

La pratica della meditazione e della preghiera contemplativa rende comprensibile che siamo tutti concelebranti nella Chiesa per l’unità con Dio e con il mondo. Queste esperienze possono aiutare i credenti a riconoscere l’interconnessione di tutte le cose e a vivere in modo più armonioso.

Teologia Inclusiva

Una teologia non-duale riconosce che Dio è presente in tutte le cose e che ogni persona è un riflesso del divino. L’Eucaristia ha senso se è comunitaria, come lo sono altre pratiche liturgiche. Il ministro ordinato (sacerdote, vescovo, diacono) ha un ruolo fondamentale nella guida spirituale e pastorale della comunità dei battezzati. Tuttavia, la non-dualità ci invita a ripensare questo rapporto in termini di interconnessione e unità, piuttosto che di separazione e gerarchia.

Il ministro ordinato è chiamato a servire la comunità dei battezzati, non come un’autorità separata, ma come un membro della stessa comunità. La leadership del ministro dovrebbe essere vista come un servizio amorevole e umile, che riconosce l’unità di tutti i membri del corpo di Cristo. Questo approccio enfatizza la collaborazione e la partecipazione attiva di tutti i battezzati nella vita della Chiesa.

Il ministro ordinato ha il compito di celebrare i sacramenti e guidare la liturgia. Tuttavia, la celebrazione dei sacramenti dovrebbe essere vista come un’esperienza di comunione e interconnessione tra Dio e la comunità. L’Eucaristia, in particolare, è un momento di unità profonda, in cui i fedeli partecipano al corpo e al sangue di Cristo, riconoscendo la loro interconnessione con Dio e tra di loro.

Il ministro ordinato ha la responsabilità di formare e guidare la comunità dei battezzati. Questo compito dovrebbe essere svolto in un’ottica di dialogo e ascolto reciproco, riconoscendo che ogni membro della comunità ha qualcosa da offrire.

Il ministro ordinato è chiamato ad accompagnare spiritualmente i membri della comunità, offrendo sostegno e guida nelle loro vite di fede, senza sostituzioni o deleghe spirituali. Questo accompagnamento dovrebbe essere caratterizzato da un atteggiamento di empatia e compassione, riconoscendo che ogni persona è parte di un tutto più grande. L’accompagnamento spirituale dovrebbe aiutare riconoscere la presenza di Dio nelle loro vite e a vivere in modo più armonioso e interconnesso. Il ministero spirituale è di tutti coloro che si sentono a chiamati a promuovere la vita spirituale di tutti.

Il ministro ordinato ha il compito di promuovere la giustizia e la carità nella comunità e nel mondo. La giustizia e la carità non sono solo atti di benevolenza, ma espressioni concrete dell’unità e dell’amore universale che caratterizzano la non-dualità.

La non-dualità ci invita a vivere in modo etico, riconoscendo che ogni azione ha un impatto sugli altri e sull’ambiente. La Chiesa potrebbe promuovere un’etica basata sull’amore e sulla compassione, incoraggiando i suoi membri a prendersi cura degli altri e del creato. Questo potrebbe includere iniziative di giustizia sociale, programmi di assistenza ai bisognosi e progetti di sostenibilità ambientale.

In conclusione, ripensare il rapporto tra il ministro ordinato e la comunità dei battezzati secondo l’idea della non-dualità richiede un cambiamento di paradigma. Questo approccio può portare a una comunità più inclusiva, collaborativa e armoniosa, capace di rispondere alle sfide di un mondo sempre più complesso e interconnesso. 

Giocare intorno

1. Sapienza: Logos e Gioco

La creazione non è soltanto un atto razionale di potenza ordinatrice: è anche gioco, danza, gioia. Nella Scrittura, in particolare in Proverbi 8, la Sapienza di Dio – prefigurazione del Logos – si presenta come co-creatrice, accanto a Dio, giocando ogni giorno alla sua presenza. Il verbo ebraico utilizzato, לְשַׂחֵק (lesakhek), significa proprio questo: giocare, divertirsi, danzare, e ci rivela che l’atto creatore è segnato da libertà, immaginazione e amore.

Questo gioco divino non è frivolo, ma serio nella sua gratuità: riflette la gioia pura dell’esistere, il piacere per l’ordine cosmico, e un amore profondo per l’umanità e per il mondo creato. Come ha scritto Johan Huizinga in Homo Ludens, il gioco è alla base della cultura, perché è fondato sulla libertà, sulla gratuità, su una regola accolta e condivisa, sulla creazione di uno spazio altro. E Friedrich Schiller affermava: “L’uomo è pienamente uomo solo quando gioca”. A maggior ragione, potremmo dire, l’uomo è immagine di Dio proprio quando gioca con Dio.


2. Trinità: la danza dell’amore

Ma il gioco si fa ancora più profondo quando viene riconosciuto come danza. I teologi della tradizione cristiana, dai Padri Cappadoci fino a Giovanni Damasceno, hanno descritto la Trinità come una comunione dinamica: il termine greco περιχώρησις (perichōrēsis) indica il movimento reciproco delle tre Persone divine, un “abitarsi” che è amore in atto. Anche se non direttamente collegato alla parola greca per “danza” (chorós), molti teologi contemporanei ne hanno colto la forza poetica.

La “danza della Trinità” diventa allora immagine di un amore che non resta chiuso in sé, ma si espande, ci coinvolge, ci chiama. Vivere in relazione con questo Dio danzante significa entrare nella dinamica della libertà e dell’apertura. Non siamo solo spettatori del mistero: siamo chiamati a farne parte. “Vieni, gioca con noi. Vieni, danza con noi.”


3. La gioia come accordo interiore

In questo quadro, la gioia non è un’emozione fugace, ma l’esito di un’armonia interiore. A differenza del piacere o della felicità, che dipendono dall’alterità, la gioia nasce dall’accordo con sé stessi. È nel riconoscersi come “essere prezioso umano” che si può aprire lo spazio di una vita gioiosa. La gioia di vivere è possibile solo se si trova sintonia con la propria interiorità, se si accoglie ciò che in noi riflette il divino. La vita divina è interiorità, ed è lì che ci invita a danzare.


4. Hannah Arendt: le forme della solitudine

Questa visione si intreccia profondamente con la riflessione che Hannah Arendt sviluppa nelle ultime pagine de Le origini del totalitarismo. La filosofa distingue tre forme dello “stare soli”:

  • Isolation: l’isolamento, in cui l’individuo perde i legami sociali ma conserva la capacità di agire creativamente. È una solitudine che, pur difficile, può ancora essere fertile.
  • Loneliness: la solitudine dell’abbandono, dove si perde ogni riferimento al mondo e a sé. È la condizione più disumana, quella in cui l’“io” si smarrisce.
  • Solitude: la solitudine feconda, il dialogo interiore che ci restituisce al mondo e ci permette di restare umani, anche in situazioni estreme. È la “solitudine bianca”, quella che – come scrive Arendt – permette di ritrovare “la fiducia in sé stessi come partner dei propri pensieri”.

5. L’invito: giocare, danzare, ritrovarsi

Ecco allora che il gioco della Sapienza, la danza della Trinità e la solitudine vera si illuminano a vicenda. Non sono vie di fuga dal mondo, ma modi per entrarvi più profondamente. In un’epoca segnata da isolamento e smarrimento, riscoprire il gioco divino e il dialogo interiore significa ritrovare la via per una gioia radicata, una libertà abitata, una relazione che salva.

Siamo chiamati non solo a comprendere, ma a partecipare. A danzare con Dio. A giocare con Lui. A essere pienamente umani.

La fenomenologia del Mistero

(relazione tenuta a Prato, Convegno Scienza e Spiritualità 2025)

La dimensione della trans-disciplinarietà non mette solamente in dialogo le varie discipline, ma scende nella profondità di ogni disciplina, la sapienza, affinché sia possibile un ascolto reciproco. Il dialogo tra scienza e spiritualità, infatti, non è quello di trovare una lingua comune ma quello di trovare una significazione comune che unisca le discipline in profondità.

La fenomenologia del Mistero intitolato “Da Elea a Nicea passando per Iena”, presenta tre città, una del filosofo Parmenide, l’altra Nicea, la città del Concilio, il primo concilio ecumenico, fondamentale per la cristianità, prima delle grandi divisioni del secondo millennio tra Oriente d’Occidente poi in Occidente tra le varie chiese. Il primo concilio ecumenico, dove si è pensato in maniera sistematica, la cui dichiarazione esprime la ousia, essenza di Dio. La terza città è Iena, il luogo in cui si è espresso l’insegnamento di Hegel, il grande filosofo tedesco con la sua Fenomenologia dello spirito, un testo fondamentale, scritto durante la sua permanenza a Iena. Queste tre città esprimono, l’unità dell’essere, la relazionalità dell’essere, che è la consostanzialità o ousia, e la profonda unità dell’essere, che è spirito, coscienza. Quindi l’uno, l’uno-trino, la totalità dell’essere, la totalità del divenire.

L’evangelista Giovanni descrive il ministero di guarigione di Gesù: un angelo che scende nella piscina, agita l’acqua che guarisce qualsiasi malattia. Questa guarigione ha a che fare con un angelo, che agita le acque e in quel movimento accadeva qualcosa: le vibrazioni dell’acqua diventano guarigione. Acqua-angelo-vibrazione. Questo testo ricorda quello originario quando lo Spirito alleggia sulle acque, è il momento della creazione, il movimento della realtà divina che produce vita. Il primo punto è che tutto ha a che fare con l’ontologica dell’uno. Elea è questa realtà dell’uno, che si dà nella vibrazione: dalla filosofia alla fisica. Il secondo momento è l’ontologica della non-dualità, che richiamano due parole fondamentali della logica quantistica e della logica trinitaria, che ci aiutano a rivedere la categoria di relazione e di identità o di sostanza, che Nicea, anche alla luce della fisica quantistica, ci invita a ripensare. Relazione non più a partire dall’identità, ma a partire dall’atto del relazionarsi, quello che qui ho chiamato vibrazione. L’ultimo punto è come Elea e Nicea si ricongiungono in rivisitazione della fisica quantistica. Quindi ontologica dell’uno, dalla filosofia alla fisica. L’evoluzione del pensiero occidentale ha conosciuto il passaggio dalla metafisica classica alla scienza contemporanea, una profonda trasformazione.

Pensiamo all’uno, alla monade compatta, rigida e pensiamo al modello della fisica classica e alla trasformazione avvenuta su sollecitazione della scienza, la fisica quantistica, che ha costretto una rivisitazione di questo presupposto metafisico, la compattezza dell’uno. È un cambiamento che ha portato a vedere la sostanza non più come qualcosa di isolato dalla relazione ma come la relazione stessa, la metafora della vibrazione. La fisica quantistica attraverso la teoria dei campi è un punto paradigmatico per aprirci a una comprensione diversa della realtà materiale. La materia non è più qualcosa di consolidato, cioè tanti solidi, come pezzettini messi assieme, ma è fondamentalmente la relazionalità, come fondamento portante della realtà stessa.

La teoria quantistica dei campi ha abbandonato la visione newtoniana di un universo composto da oggetti puntiformi e discreti riconoscendo che le particelle elementari non sono più solide indipendenti, ma sono la escrescenza, la manifestazione, la emergenza di campi. Allora la realtà portante è quella di una rete, i cui punti di connessione sono gli enti, le particelle, come il punto di convergenza delle reti dei campi, in cui è compresa la realtà stessa. Siamo ben familiari con il concetto di funzione d’onda e col concetto di particelle, di attualità singolare, la grandezza di intuizione, che è un modello, che vuol dire che non è ciò che è osservato, il modello è ciò attraverso cui osservo la realtà. La sollecitazione che ci viene dalla fisica quantistica è di adottare un modello più congeniale per capire la realtà. Questo passaggio dalla funzione d’onda alla particella, che non è altro il passaggio che qui veniva indicato attraverso la figura dell’angelo, la figura dello spirito. La vibrazione come l’emergenza del campo di realtà dei campi quantistici.

La realtà in tale prospettiva non è costituita da unità isolate, bensì da oscillazione e fluttuazione in un vuoto quantistico che si rivela tutt’altro che vuoto. L’ultimo testo di Guido Tonelli sul vuoto parla di ciò che rappresenta questa idea. Anche in nell’astrofisica avviene ciò che è nel profondo della fisica quantistica, cioè un momento singolare, che può essere il Big Ben e quindi il momento del collasso della funzione d’onda, in cui dalla potenzialità, dalla probabilità avviene la singolarità. Interessante è vedere se questo movimento, dalle potenzialità alla singolarità, sia un movimento continuo. Anche un altro autore Carlo Rovelli con la connessione tra buchi neri e buchi bianchi parla di un continuo passare da implosione ad esplosione, assunzione, concentrazione della materia, assorbimento e ripulsione della materia, un continuum.

La teologia classica di Tommaso D’Aquino diceva che il mondo creato da Dio era eterno, anche adesso i tomisti sono per la stragrande maggioranza d’accordo: il creato è eterno, che vuol dire che inizio e fine fanno parte del creato, da sempre. Non c’è un prima e un dopo. Il tempo non è in Dio. L’ipotesi pan-en-teista, tutte le cose in Dio, rende il mondo una cosa sola con Dio, ma Dio è l’assoluto, non ci può essere Dio se non con il mondo ma senza che il mondo sia costitutivo di Dio. Questo vuol dire che pensare l’eternità del mondo non vuol dire rendere Dio dipendente dal mondo. La comprensione del rapporto tra realtà profonda relazionale di Dio e realtà stessa che ci aiuta a passare da una visione statica ad una dinamica. Le vibrazioni come chiave dell’essere. Ogni elemento costitutivo dell’universo può essere descritto come una manifestazione ondulatoria, cioè come espressione di una vibrazione originaria e queste vibrazioni fanno emergere le particelle che è il modello della fisica quantistica.

David Bohm ha sviluppato una visione cosmologica che trascende la distinzione tra soggetto ed oggetto. Cioè questa vibrazione non è una vibrazione che prescinde da colui che osserva: l’uno e l’altro sono entangled, cioè co-implicati. Quando si parla di relazione e sostanza si intende una categoria ontologica che già di per sé ha una co-implicanza del soggetto con l’oggetto. E questo è centrale per il filosofo di Iena. Ciò vuol dire che l’ordine implicito, la matrice di tutta la realtà, è questa co-implicazione, che è l’essere complicato, con le pieghe, mentre l’explicatio, l’eternità spiegata, è la manifestazione di Dio. Ecco il tempo. Allora capisco che quando poi si parla di Dio che ha creato il mondo, ha liberato il popolo dall’Egitto, che ha fatto risorgere Gesù dai morti, che ritornerà alla fine del mondo, siamo a questo livello.

La contemplazione è vedere tutte le cose co-implicate, sub specie Dei dal punto di vista di Dio. Le vibrazioni sono una specie di sollecitazione per farci capire che tutto è oscillazione e vibrazione, che è tutto co-implicato. Vedere la realtà così come la vede Dio. L’occhio col quale io vedo Dio e quello col quale Dio mi vede (Meister Eckhart). Non è solo che io vedo la totalità del mondo, ma ogni singolo vede la totalità dal suo punto di vista. Qui c’entra la parola simbolo, mettere insieme, cioè la realtà è simbolica, perché mette insieme, comporta la co-implicazione di tutte le cose. Quando perdiamo un approccio simbolico della realtà, e credo che il dialogo tra scienza e spiritualità possa aiutare proprio in questo, cioè ritornare alla simbolica del reale.

Il fisico teorico diventato sacerdote anglicano riflette sulla intersezione tra scienza e teologia concentrandosi su nascita morte e resurrezione. Lui parla di questa co-implicazione proprio sulla questione del “Vivere con speranza”, il titolo del suo libro, di armonizzare la fede cristiana con la comprensione scientifica contemporanea e dice che l’essere umano è come una unità psicosomatica. Di nuovo il concetto della co-implicazione. Mente e corpo sono inseparabile con la nostra identità. La mente non può esistere indipendentemente dalla materia, poiché la neuroscienza mostra quanto il cervello influenzi profondamente la personalità e un comportamento. Secondo questa visione l’anima non è una sostanza spirituale distinta, ma un modello complesso di informazione organizzato della materia, in particolare della struttura neuronale che definisce chi siamo. Alla morte, il corpo e il cervello si disgregano e con essi anche il modello informativo. Ma moriamo davvero? Tuttavia, qui la interessante tesi di Paul, Dio conserva questo modello nella propria memoria divina dove esso viene purificato e trasformato. Polkinghorne cerca di recuperare il concetto di trasformazione vedendolo proprio dal punto di vista della mente divina. Nella morte essere trasformati dal punto divino in prospettiva. Solo dopo la morte dell’universo Dio redimerà la materia per una nuova trasformazione. Quindi questo procedimento di complicatio ed esplicatio è un rapporto continuo di memoria dell’universo e quindi della mente cosmica.

Una teoria simile la troviamo anche in Rupert Sheldrake, nella sua teoria dei campi morfici e delle risonanze morfiche che è un approccio innovativo e controverso allo sviluppo biologico e non solo individuale ma anche collettivo. Lui dice che i campi morfici evolvono nel tempo e vengono trasmessi non geneticamente ma per risonanza morfica, una forma di connessione non-locale attraverso cui gli organismi ereditano le forme e i modelli comportamentali dei loro predecessori. Ogni individuo attinge la memoria collettiva della propria specie e vi contribuisce a svilupparla. Qui c’è lo stesso concetto della rete, individualità, ma le individualità portano all’eredità non solo individuale ma di tutta la realtà. Questa idea di Rupert Sheldrake è interessante perché approfondisce, dal punto di vista collettivo, ciò che la fisica quantistica dice dal punto di vista della rete.

A questo punto emerge con insistenza che per capire la realtà dobbiamo intendere profondamente la relazione. Carlo Rovelli lo dice chiaramente nel suo testo Helgoland e cioè che le interazioni che troviamo tra le particelle sono la realtà fisica. Allora che cos’è mai la vita nella prospettiva di Carlo Rovelli? La vita, la connessione è il vuoto. E lui fa riferimento al filosofo buddista Nagarjuna, il quale dice che la realtà di tutto è il vuoto. Cito anche Bernardo Kastrup, che è unito con Faggin nella visione del primato della coscienza. La risposta che danno questi ultimi due è che la interazione ha fondamento nella coscienza. Quindi non c’è un niente, ma c’è una coscienza. Meister Eckhart è un altro degli autori citati. Lui ha dato una definizione di Dio. Che è essere o Uno. La realtà ultima per Eckhart è l’intellectus per facilitare la connessione. Partite dall’ente, metteteci davanti il niente e metteteci davanti la Mente divina. L’intelletto è come la luce che fa vedere le cose, ma non si vede. Allora la realtà ultima è niente, è questo lasciar essere. Questo niente lasciar essere è appunto la relazione.

E qui arrivo al punto centrale che sarà il mio punto conclusivo. Cosa è necessario perché ci sia la relazione? Subito si pensa ai termini di relazione e poi alla connessione tra l’uno e l’altro. Se non ci sono i termini di relazione la relazione non c’è. Ma questa è la relazione in quanto tale o è un tipo di relazione? È un tipo di relazione e un tipo duale. Questo tipo di relazione duale si chiama simmetrica, reciproca. Tutte le relazioni sono simmetriche e reciproche.

Quando si riflette su se stessi c’è un tipo di relazione di unità, una relazione che avviene dentro una unità, un uno in relazione con se stesso. Quando uno è in relazione con se stesso allora c’è una relazione originaria. E uno che è in relazione con se stesso vuol dire che ancora prima che ci sia un uno, c’è la relazione, l’atto del relazionarsi. Questo vuol dire che l’atto del relazionarsi è un grosso punto, che credo fondamentale, che la fisica quantistica e anche la spiritualità, specialmente non-duale ci può aiutare a comprendere. Cioè anche prima della differenza c’è la relazione. E la differenza non è la condizione perché ci sia relazione. Quando io faccio una differenza già mi muovo nella relazione. Credo che proprio su questa differenza, partire dalla relazione e partire dalla differenza si differenziano i due approcci.

Anche Derida ha parlato di preminenza della differenza rispetto all’identità e tutto il suo discorso post-moderno, ma credo che l’attuale fisica quantistica e il dialogo con le spiritualità non-duali stiano riproponendo il centro di Nicea. A Nicea si dice che Dio è uno perché è trino. Trino perché è uno. Cioè prima della differenza c’è una relazionalità, uno-trino è l’essenza divina, non è né l’uno né il due, né il tre è proprio il trattino, è quel trattino che dice appunto la novità di Nicea, novità che, come tutte le novità, hanno bisogno di esplicatio….. E noi ci troviamo in questa fase qui si sta lentamente spiegando, perché il momento della spiegazione è necessaria per passare dalla intuizione alla convinzione. Anche nella vita spirituale come anche nella vita intellettuale io posso avere delle intuizioni, ma sono convinzioni che mi convincono o no, sono l’ultimo, le sento sì, ma non è sufficiente cioè ci vuole la spiegazione. E credo che sia questa la bellezza del dialogo tra spiritualità e scienza, perché la spiritualità fa ricordare alla scienza le sue intuizioni, ma la scienza ricorda alla spiritualità di spiegarle nel senso etimologico della parola, cioè di renderle comprensibili, comunicale. E il comunicare ha bisogno di parole ha bisogno, di discorso, di umiltà, perché una visione relazionale della realtà ci dice “Mai senza l’altro” cioè siamo tutti co-implicati.

Consciousness and Quantum Physics

In recent years, Federico Faggin — physicist, inventor, and philosopher of science — has developed a profoundly innovative vision of the relationship between consciousness and quantum physics.

According to his most recent perspective, consciousness is not a byproduct of brain activity, but a fundamental, creative, and irreducible reality that plays an active role in quantum phenomena.


1. Consciousness as a Primary Reality

For Faggin, consciousness is primary and autonomous with respect to matter. It does not arise from the brain but is the very cause of the brain’s existence. It exists independently of material structures, preceding and informing them. This position sets him apart from materialist or emergentist theories, which consider the mind merely a product of neuronal activity.


2. Quantum Information Panpsychism (QIP)

In collaboration with physicist Giacomo Mauro D’Ariano, Faggin proposed the hypothesis of Quantum Information Panpsychism (QIP). According to this theory, every pure quantum state represents a unique, unrepeatable conscious subject, bearer of semantic information — not just numerical data, but meaning.

These “conscious quantum subjects” possess free will, which is expressed in the collapse of quantum possibilities into concrete outcomes. This act is untraceable — even in principle — and cannot be explained by determinism or randomness. It is a creative choice made by the entity itself, whose quantum state represents a subjective experience.


3. Quantum Fields as Conscious and Creative Entities

Faggin also affirms that quantum fields themselves are conscious. Individual bodies and brains do not generate consciousness; rather, they are quantum-classical machines shaped and guided by these fields through conscious acts of decision. In this model, matter is no longer passive or deterministic, but the visible result of conscious choices occurring at the quantum level.


4. From Subjective Information to the Physical World: The Wave Function as Experiential Act

Another fundamental element of Faggin’s thought is the idea that the quantum state embodies subjective semantic content. When this content is expressed, it manifests in symbolic, observable forms — i.e., physical events. The collapse of the wave function is not a mechanical effect, but an act of experience: consciousness is not a spectator but a creator of reality.


5. Comparison with Integrated Information Theory (IIT)

The Integrated Information Theory (IIT), proposed by Giulio Tononi, suggests that consciousness emerges from the quantity of integrated information (Φ) in a physical system. However, Faggin diverges sharply from this view, as he considers classical information devoid of semantic meaning. According to him, consciousness cannot emerge from symbolic computation — it is present from the beginning, at the quantum level.

AspectIIT (Tononi)Faggin
Origin of consciousnessEmergence from complex classical networksFundamental and irreducible
Type of informationQuantitative and structuralSemantic and unique
Physical substrateIntegrated systems (e.g., brain)Pure quantum states and fields
OntologyInformational materialismQuantum panpsychism

6. Who Collapses the Wave Function? Comparison with Other Interpretations

Faggin proposes that the collapse of the wave function is a voluntary and conscious act performed by the system itself. This contrasts sharply with the main interpretations of quantum mechanics:

TheoryCollapseRole of ConsciousnessOntology
FagginConscious choice of the quantum systemCentral and constitutiveSemantic panpsychist realism
Orch-OR (Penrose/Hameroff)Objective collapse related to gravityEmergent in microtubulesConscious spacetime
DecoherenceNo real collapse; environmental effectAbsentStatistical materialism
RQM (Relational Quantum Mechanics)No global collapse; relational propertiesNot necessaryAnti-realist relationalism

7. An Integrated Metaphysical Vision

Faggin’s position presents a coherent, metaphysically unified vision in which mind and matter are not two separate entities but two aspects of the same fundamental quantum reality. It is a bold proposal, restoring centrality to subjectivity and affirming the creative power of consciousness in generating the world.


8. The Chicken or the Egg?

When questioning the origin of consciousness, one often stumbles upon a familiar paradox: does matter precede consciousness, or vice versa? It’s not unlike asking whether the chicken or the egg came first. Though it may seem naïve, this question touches the core of one of philosophy of mind’s most complex and debated problems — the so-called “hard problem” of consciousness, as defined by philosopher David Chalmers. Simply put, it concerns the difficulty of explaining how and why measurable physical processes like neural activity give rise to something qualitatively different: subjective experience, the sense of being, inner life.

Beneath this question lie two fundamental philosophical positions. On one side, materialism asserts that consciousness arises from the complexity of matter, and that the brain, through its biochemical and electrical processes, generates subjective experience. In this view, matter is primary, and consciousness is a byproduct of biological evolution.

On the other side lies the opposite perspective, shared by idealist or foundationalist visions, according to which consciousness precedes matter. In this framework, the physical world exists only insofar as it is perceived, known, and experienced by a subject.

Federico Faggin aligns with this latter view, but develops an original and radical version: according to him, consciousness is a primary, non-derived reality and is the foundation of the very existence of the material world. Matter, therefore, is merely a symbolic expression of consciousness’s semantic content. For Faggin, each pure quantum state represents a conscious subject imbued with meaning, capable of making free choices and thus “collapsing” the wave function — not as a passive effect of observation, but as an intentional and creative act. The brain does not create consciousness; it is a tool through which consciousness operates in the physical world.

This view also allows us to move beyond the apparent dualism between matter and consciousness. Just as the chicken-and-egg paradox can be resolved by recognizing that the two realities co-evolve or are aspects of a single biological continuity, the relationship between matter and consciousness can be reinterpreted as a relationship between meaning and symbol, between subject and manifestation. Faggin suggests that mind and matter are not separate entities but complementary faces of a deeper and unified reality: semantic quantum information.

In this way, the question “Does consciousness or matter come first?” ceases to be a philosophical deadlock and becomes a lens through which to interpret the world. Consciousness would no longer be a mystery to be explained from matter, but the very foundation of existence — what makes every experience, every form, every law of nature possible. If consciousness truly collapses quantum possibilities into concrete events, then we are participants, in every moment, in the creative process that gives shape to reality. Not spectators, but co-creators. Thus, the original question transforms: no longer “Which came first?”, but “What generates meaning?” And perhaps the answer is that meaning does not come from outside — it comes from within.


Conclusion

Federico Faggin invites us to rethink the very foundations of physics and the philosophy of mind. In a landscape dominated by reductionism and computational materialism, his proposal restores value to subjectivity, freedom, and meaning as foundational elements of reality. If consciousness truly is what “collapses” the universe into what we observe… then the mind is not a mystery to be explained, but the very source of existence.

Coscienza e fisica quantistica

Negli ultimi anni, Federico Faggin — fisico, inventore e filosofo della scienza — ha sviluppato una visione profondamente innovativa del rapporto tra coscienza e fisica quantistica.

Secondo la sua prospettiva più recente, la coscienza non è un sottoprodotto dell’attività cerebrale, ma una realtà fondamentale, creativa e irriducibile, che gioca un ruolo attivo nei fenomeni quantistici.


1. La coscienza come realtà primaria

Per Faggin, la coscienza è primaria e autonoma rispetto alla materia. Non nasce dal cervello, ma è la causa stessa dell’esistenza del cervello. Esiste indipendentemente dalle strutture materiali, precedendole e informandole. Questa posizione lo allontana nettamente dalle teorie materialiste o emergentiste, secondo le quali la mente sarebbe solo un prodotto dell’attività neuronale.


2. Il Panpsichismo dell’Informazione Quantistica (Quantum Information Panpsychism – QIP)

In collaborazione con il fisico Giacomo Mauro D’Ariano, Faggin ha proposto l’ipotesi del Panpsichismo dell’Informazione Quantistica (QIP). Secondo questa teoria, ogni stato quantistico puro rappresenta un soggetto cosciente unico, irripetibile, e portatore di informazione semantica — non semplice informazione numerica, ma significato.

Questi “soggetti quantistici coscienti” sono dotati di libero arbitrio, che si manifesta nel collasso delle possibilità quantistiche in esiti concreti. Questo atto è non tracciabile, nemmeno in linea di principio, e non è spiegabile in termini di determinismo o casualità. È una scelta creativa compiuta dall’entità stessa, il cui stato quantico rappresenta un’esperienza soggettiva.


3. I campi quantistici come entità coscienti e creative

Faggin afferma inoltre che i campi quantistici stessi sono coscienti. I corpi e i cervelli individuali non generano la coscienza: sono macchine quantistico-classiche, modellate e guidate da questi campi attraverso atti di decisione cosciente. In questo modello, la materia non è più passiva o deterministica, ma diventa il risultato visibile di scelte coscienti che avvengono a livello quantico.


4. Dall’informazione soggettiva al mondo fisico: la funzione d’onda come atto esperienziale

Un altro elemento fondamentale del pensiero di Faggin è l’idea che lo stato quantistico incorpori contenuto semantico soggettivo. Quando questo contenuto viene espresso, esso si manifesta in forme simboliche osservabili, cioè eventi fisici. Il collasso della funzione d’onda non è un effetto meccanico, ma un atto di esperienza: la coscienza non è spettatrice, ma creatrice della realtà.


5. Confronto con la Teoria dell’Informazione Integrata (IIT)

La Teoria dell’Informazione Integrata (IIT), proposta da Giulio Tononi, suggerisce che la coscienza emerga dalla quantità di informazione integrata (Φ) in un sistema fisico. Ma Faggin si discosta nettamente da questa visione, perché considera l’informazione classica priva di significato semantico. La coscienza, secondo lui, non può emergere da una computazione simbolica: essa è presente fin dall’origine, a livello quantistico.

AspettoIIT (Tononi)Faggin
Origine della coscienzaEmergenza da reti classiche complesseFondamentale e irriducibile
Tipo di informazioneQuantitativa e strutturaleSemantica e unica
Sostrato fisicoSistemi integrati (es. cervello)Stati quantistici puri e campi
OntologiaMaterialismo informazionalePanpsichismo quantistico

6. Chi collassa la funzione d’onda? Confronto con altre interpretazioni

Faggin propone che il collasso della funzione d’onda sia un atto volontario e cosciente compiuto dal sistema stesso. Questo contrasta fortemente con le principali interpretazioni della meccanica quantistica:

TeoriaCollassoRuolo della coscienzaOntologia
FagginScelta cosciente del sistema quantisticoCentrale e costitutivaRealismo semantico panpsichista
Orch-OR (Penrose/Hameroff)Collasso oggettivo legato alla gravitàEmergente nei microtubuliSpaziotempo cosciente
DecoerenzaNessun collasso reale; effetto ambientaleAssenteMaterialismo statistico
RQM (Meccanica quantistica relazionale)Nessun collasso globale; proprietà relazionaliNon necessariaRelazionalismo anti-realistico

7. Una visione metafisica integrata

La posizione di Faggin costituisce una visione coerente, metafisicamente unificata, in cui mente e materia non sono due entità separate, ma due aspetti della stessa realtà quantistica fondamentale. È una proposta audace, che riconsegna centralità alla soggettività e afferma la capacità creativa della coscienza di generare il mondo.

8. L’uovo o la gallina?

Quando ci si interroga sull’origine della coscienza, la domanda che spesso emerge è sorprendentemente simile a un antico paradosso: viene prima la materia o la coscienza? Non è molto diverso dal chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Questo interrogativo, per quanto possa sembrare ingenuo, tocca il cuore di uno dei problemi più complessi e dibattuti della filosofia della mente: il cosiddetto “problema difficile” della coscienza, così definito dal filosofo David Chalmers. In termini semplici, si tratta della difficoltà di spiegare come e perché, a partire da processi fisici misurabili come l’attività neuronale, possa emergere qualcosa di qualitativamente diverso: l’esperienza soggettiva, il senso dell’essere, il vissuto interiore.

Dietro questa domanda si nascondono due posizioni filosofiche fondamentali. Da un lato, il materialismo, che sostiene che la coscienza emerga dalla complessità della materia, e che il cervello, attraverso i suoi processi biochimici ed elettrici, dia origine all’esperienza soggettiva. Secondo questa visione, la materia è primaria, e la coscienza è un sottoprodotto dell’evoluzione biologica. Dall’altro lato, vi è la posizione opposta, condivisa da visioni idealiste o fondazionaliste, secondo cui è la coscienza a precedere la materia. In questa prospettiva, il mondo fisico esiste solo in quanto è percepito, conosciuto, esperito da un soggetto.

Federico Faggin si colloca in quest’ultima linea di pensiero, ma ne sviluppa una versione originale e radicale: secondo lui, la coscienza è una realtà primaria, non derivata, ed è ciò che fonda l’esistenza stessa del mondo materiale. La materia, quindi, non è che un’espressione simbolica del contenuto semantico della coscienza. Per Faggin, ogni stato quantistico puro rappresenta un soggetto cosciente dotato di significato, capace di compiere scelte libere, e quindi di “collassare” la funzione d’onda non come effetto passivo di un’osservazione, ma come atto intenzionale e creativo. Il cervello non crea la coscienza: è uno strumento attraverso cui la coscienza opera nel mondo fisico.

Questa visione permette anche di superare il dualismo apparente tra materia e coscienza. Così come il paradosso dell’uovo e della gallina può sciogliersi riconoscendo che le due realtà co-evolvono o sono due aspetti di un’unica continuità biologica, anche il rapporto tra materia e coscienza può essere reinterpretato come una relazione tra significato e simbolo, tra soggetto e manifestazione. Faggin suggerisce, infatti, che mente e materia non siano entità separate ma due volti complementari di una realtà più profonda e unitaria: quella dell’informazione quantistica semantica.

In questo modo, la questione “prima la coscienza o la materia?” smette di essere un’impasse filosofica per diventare una chiave di lettura del mondo stesso. La coscienza non sarebbe un mistero da spiegare a partire dalla materia, ma il fondamento stesso dell’esistenza, ciò che rende possibile ogni esperienza, ogni forma, ogni legge della natura. Se davvero è la coscienza a collassare le possibilità quantistiche in eventi concreti, allora siamo partecipi, in ogni istante, del processo creativo che dà forma alla realtà. Non spettatori, ma co-creatori. E così, in fondo, la domanda iniziale si trasforma: non più “chi è venuto prima?”, ma “che cosa genera significato?”. E la risposta, forse, è che il significato non viene da fuori: viene da dentro.

Conclusione

Federico Faggin ci invita a ripensare le fondamenta stesse della fisica e della filosofia della mente. In un panorama dominato dal riduzionismo e dal materialismo computazionale, la sua proposta ridà valore alla soggettività, alla libertà e al significato come elementi costitutivi della realtà. Se la coscienza è davvero ciò che “collassa” l’universo in ciò che osserviamo… allora la mente non è un mistero da spiegare, ma la fonte stessa dell’esistenza.

La struttura della Orazione

Nel diagramma proposto si evidenzia una dinamica teologica profonda che mette in relazione la Divinità, il Deus-persona e la creatura, all’interno di un orizzonte che distingue tra il Mistero trascendente e l’esperienza fenomenologica della fede. Al centro della rappresentazione vi è la distinzione tra due modalità relazionali: una univoca, propria della Divinitas “quoad se”, e una biunivoca, percepita dalla creatura “quoad nos”.

La Divinitas, rappresentata come ciò che eccede la sfera personale e relazionale: l’orizzonte trans-personale del Mistero. Il termine “Io Sono” richiama l’autodefinizione di Dio nell’Antico Testamento (Esodo 3,14), esprimendo l’essere assoluto e l’identità divina in sé. Dal punto di vista della divinità, la relazione verso la creatura è univoca, cioè non simmetrica. Dio si relaziona alla creatura in modo radicalmente diverso rispetto a come la creatura si relaziona a Dio.Questo tipo di relazione indica che la divinità non è condizionata dalla reciprocità, ma dona, si rivela, si manifesta.

Dal punto di vista della creatura, invece, la “Divinitas” è percepita come “Deus”, il Dio-persona, esperito come un “TU” in senso dialogico. “Dio-divinità” diventa “il Dio” che può essere invocato, pregato, incontrato: il Deus come soggetto di una relazione. Tra Dio (creatore) e creatura si instaura un rapporto personale, dialogico, in cui la creatura riconosce Dio come “Tu” e stabilisce un rapporto interattivo con Lui.

Dal punto di vista della creatura, la relazione con Dio appare autenticamente biunivoca. L’essere umano si rivolge a Dio come a un “Tu” personale, e vive l’esperienza di una risposta, di una presenza, di una reciprocità. Questa modalità relazionale è esistenzialmente reale: plasma la vita spirituale, la fede, la preghiera, la teologia stessa. L’uomo si sente interpellato da Dio, lo riconosce come interlocutore, si percepisce amato e guidato, come se la relazione fosse simmetrica. In tal senso, la relazione biunivoca è pienamente vissuta e interiorizzata, ed è il cuore pulsante di ogni forma di religiosità personale.

Tuttavia, questa reciprocità esperita non implica una simmetria ontologica. Dal punto di vista della Divinitas, cioè “quoad se”, la relazione con la creatura non può essere davvero biunivoca, perché Dio, nella sua essenza, è assoluto, semplice, immutabile. Dio, nella sua essenza (Divinitas), trascende ogni relazione, ma allo stesso tempo entra nella relazione come Deus, oggetto di invocazione personale. La creatura vive quindi due livelli di relazione: una univoca, dove Dio si manifesta nella sua trascendenza; una biunivoca, dove la creatura instaura un rapporto personale con Dio come “Tu”.

Il Mistero divino eccede ogni relazione concepita in termini umani. Non può essere condizionato, né interagire come un soggetto tra altri soggetti. La Divinità non entra nella relazione, ma la fonda dall’alto, in maniera univoca. La creatura può parlare di Dio solo con categorie analogiche, e ogni forma di reciprocità è, in ultima analisi, una rappresentazione fenomenologica, cioè legata all’esperienza soggettiva dell’uomo e non all’essenza divina.

Questa distinzione si radica nella differenza tra la teologia apofatica e quella catafatica, e richiama una consapevolezza tipica della tradizione mistica e metafisica: Dio si dona e si rende presente, ma non si modifica né si vincola realmente nella relazione. La comunicazione tra Dio e l’uomo avviene secondo un’asimmetria ontologica: tutto proviene da Dio, nulla può ritornare a Lui modificandolo. Eppure, proprio in questa asimmetria si gioca la possibilità della fede. La percezione di un Dio che parla, ascolta, ama, si fa vicino, è un dono che Dio concede alla creatura perché essa possa entrare in comunione, pur senza mai colmare la distanza dell’essere.

La relazione biunivoca vissuta “ex parte creaturae” è quindi vera in senso esistenziale, ma resta una proiezione strutturata nella nostra forma mentis, inevitabilmente antropomorfica. L’uomo, limitato nella sua finitezza, ha bisogno di concepire Dio in forma dialogica per poterlo incontrare. Ma ciò non deve far dimenticare che ogni linguaggio su Dio è simbolico, ogni relazione con Lui è fondata su un’iniziativa univoca, e ogni esperienza di reciprocità è, in fondo, un’eco del Mistero, non il Mistero stesso. In questo senso, la vera teologia non confonde la relazione esperita con quella ontologica, ma le tiene insieme in una tensione feconda: quella tra il Dio “Io Sono” che fonda tutto dall’alto, e il Deus “Tu” che si lascia incontrare nella profondità del cuore umano.

Il diagramma aiuta a comprendere la distinzione (e non separazione) tra Contemplazione e Colloquio con Dio. La relazione univoca struttura la prima. La relazione biunivoca la seconda. Nella Contemplazione il centro è la ripetizione del mantra: Io Sono. Nella preghiera come Colloquio con Dio , il centro è l’ascolto e la risposta a Dio. Il “Tu” che mi parla, Dio persona, è da un lato “immaginato” come Qualcuno che mi rivolge la Parola. Ora parla ed è silente. C’è e non c’è. L'”Oltre” Dio, invece, né parla né risponde. È l’Io-Sono. Nell’oceano della Sua presenza, le determinazioni “personali” sono state traboccate dal Mistero. Il Silenzio riempie.