Il Cerchio dell’Essere

Immagina un cerchio: esso non è semplicemente una figura, ma una rappresentazione simbolica dell’Essere stesso, totalità che avvolge ogni possibilità di esistenza e di apparizione. Il cerchio è l’orizzonte ultimo della realtà, il campo assoluto del possibile. Il cerchio è essenzialmente costituito da un punto che è al centro e da una circonferenza. Il centro è la coscienza (o consapevolezza); la circonferenza è l’Essere. To gar auto noein estín te kai éinai) (DK 28 B 2-3). Dice Parmenide. La stessa cosa è il pensare (noein) e l’essere (einai). La stessa cosa è centro e la circonferenza. Non c’è l’uno senza l’altro. L’essere è infatti l’essere del pensiero. Il pensiero è infatti pensiero dell’essere. Separare l’essere dal pensiero significa rendere l’essere oggetto della “mente“, annientarLo, frantumarLo, disperderLo. Essere consapevoli dell’Essere in quanto essere, invece, è l’immediata Presenza di ciò che è, senza ancora essere distinto in mondo o coscienza, presenza o assenza. Pura Consapevolezza. Pura Presenza.

Al centro di questo cerchio pulsa la Coscienza: essa è l’apparire dell’Essere, la sua apertura, il suo manifestarsi a sé stesso. La coscienza non è un soggetto isolato, ma la dimensione attraverso cui ogni essere viene alla luce. Nulla è al di fuori della coscienza, poiché l’essere stesso è ciò che appare nella coscienza. L’essere è, perché appare.

Una linea tratteggiata divide il cerchio da un punto all’altro della circonferenza: essa è l’orizzonte che la mente pone tra cielo e terra, tra essere e non-essere, visibile e invisibile. La mente è l’orizzonte (dal lat. horīzon -ontis, gr. ὁρίζων -οντος, propr. part. pres. di ὁρίζω “limitare”), la linea apparente che segna i confini della realtà, a partire da un luogo d’osservazione (punto di vista). La mente è la soglia tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che si mostra nella coscienza e ciò che, pur rimanendo invisibile, non cessa di appartenere all’essere. È il limite tra la Presenza e l’Assenza. Tuttavia, la “mente” non è la coscienza (o consapevolezza). L’orizzonte della mente è la linea che è tratteggiata e che separa sopra e sotto, visibile ed invisibile, essere e non essere. Il verbo greco ὁρίζων significa oltre a limitare, de-limitare, anche separare e dividere, determinare e decidere, stabilire, dichiarare. La “mente” decide dell’Essere , stabilisce dell’Essere, negandoLo. Omnis determinatio est negatio. La mente decide dell’Essere facendolo così un ente, separato dal non-ente. La mente “annienta” l’Essere-che-non-può-non-essere o – detto in maniera positiva – l’Essere-che-può-essere. La mente rimpicciola l’infinito Essere dentro i confini di ciò che è possibile per la mente (ovvero la mia prospettiva). La mente annienta l’Essere che non è determinato (l’Essere – infatti – è in-determinato: né questo né quello), negando l’Essere, cioè determinandoLo. L’orizzonte della coscienza, invece, è l’Essere (che-può-esser). L’Essere è il limite ultimo (lOltre, la trascendenza) del cerchio.

Nella parte superiore del cerchio si apre la Presenza: qui, l’essere si dà come mondo, come cose, volti, eventi. Questo apparire alla coscienza è ciò che si chiama venire al mondo: è il passaggio dall’invisibile al visibile, dal non-ancora-essere all’essere-in-presenza. Apparire nel mondo significa essere coscienzialmente presenti. È un’apparizione all’essere stesso, attraverso la coscienza.

Ma ciò che viene al mondo può anche scomparire dal mondo. Questo lo si chiama spesso ritornare al nulla. Tuttavia, il nulla non è né origine né fine. In verità, nulla viene dal nulla, e nulla ritorna al nulla. Ciò che sembra scomparire dal mondo non cessa di essere: semplicemente, cessa di apparire nella forma della presenza. Ma resta nell’essere, in una modalità altra, in quella che chiamiamo Assenza.

La parte inferiore del cerchio è appunto l’Assenza. Non è un vuoto ontologico, ma una diversa modalità dell’essere: ciò che non è più mondo, ma ancora è. È il mondo cosiddetto soprannaturale, che si manifesta non come presenza sensibile, ma come apparenza dell’essere nell’assenza. Qui si cela la trascendenza di Dio, ciò che non appare come cosa ma fonda ogni apparizione.

La Presenza del mondo è la immanenza di Dio, mentre la sua Assenza è la sua trascendenza. Ma Dio non è né solo presente né solo assente: è la Coscienza stessa, il centro vivente del cerchio, in cui tutto appare, eternamente. Nulla è escluso dalla coscienza, perché tutto ciò che è, è ciò che appare a essa.

La coscienza è Dio, e il mondo è il suo mondo-che-eternamente-appare. In questo orizzonte, nulla si perde, nulla si annulla. Il venire al mondo non è una creazione ex nihilo, e il ritornare al nulla non è una dissoluzione. È il gioco eterno dell’essere che si dà e si ritrae, che appare e scompare — ma sempre nell’essere, mai nel nulla.

Così, il cerchio ci rivela la struttura profonda della realtà: un essere che si mostra nella coscienza come mondo, ma che trascende anche ogni mondo. Una coscienza che non è solo spettatrice, ma origine e dimora dell’apparire. E un mondo che è eterno, non perché immobile, ma perché eternamente appare.

Passando dall’ontologia alla teo-logia si può dire che il centro sta alla circonferenza così come l’Essere sta alla Coscienza. Il tautòtēs (l’identità, la stessa cosa) dell’esser-coscienza è Dio. Il cerchio (fatto di centro e di circonferenza) è ciò che chiamiamo “Dio”. Dio (x) e (Mondo (y) sono la stessa cosa che è Dio. x = x + y. “Molte persone semplici si immaginano che devono considerare Dio come lassù, e loro quaggiù. Non è così. Io e Dio siamo uno” (Meister Eckhart, “Sermone 6: I giusti vivranno in eterno”, in I Sermoni, 135).

Nel cerchio dell’Essere

Nel silenzio che precede ogni parola,

vi è un cerchio —

senza inizio né fine —

che tutto contiene.

È l’Essere.

Nel suo centro arde

una sfera chiara, trasparente,

luogo in cui l’essere si guarda

e si riconosce:

è la Coscienza,

l’occhio che vede

e ciò che viene visto.

Intorno, ruota il mondo.

Quando qualcosa appare,

si dice: è venuto al mondo.

Ma non veniva dal nulla —

veniva dall’Essere,

che da sempre attende

nella quiete.

Quando qualcosa scompare,

si dice: è tornato al nulla.

Ma nulla torna al nulla —

perché il nulla non è.

Ciò che scompare,

resta,

nell’invisibile abbraccio

dell’Assenza.

Una linea lo dice,

sottile e interrotta:

è l’orizzonte dell’Essere,

il confine che non separa,

ma unisce.

Sopra, la Presenza:

le cose, le forme, i volti,

i giorni e le notti,

la nascita, il tempo.

È Dio che si fa mondo,

che dimora in ciò che appare.

Sotto, l’Assenza:

il non-detto, il non-nato,

l’invisibile che fonda il visibile.

È Dio che si sottrae,

che resta oltre ogni nome.

Eppure, tutto appare

alla Coscienza —

che è Dio stesso.

Il mondo non è che

il suo eterno apparire,

il suo sognarsi in forma,

la danza tra luce e velatura.

Così,

quando qualcosa nasce,

non nasce. Appare.

E quando muore,

non finisce.

Si ritrae.

Nel cerchio dell’Essere,

nulla è perduto.

Tutto appare,

eternamente.

Discutendo…

Nel pensiero tomista, ripreso e sviluppato da Giuseppe Barzaghi nel saggio Deus omnia in omnibus et quodlibet in quolibet (“Divus Thomas”, 128, 1 (2025), pp. 15-22)  il rapporto tra Dio e la creatura viene compreso attraverso il paradigma metafisico dell’Exemplar. La creazione non è da intendersi come un evento temporale, ma come un atto atemporale, in cui Dio causa l’essere delle creature senza che questo implichi alcun cambiamento in Lui. Dio è in ogni creatura per essenza, potenza e presenza, ma la creatura è in Dio solo per partecipazione e relazione reale dal suo lato, mentre da parte di Dio tale relazione è solo di ragione. Le creature sono totalmente dipendenti da Dio quanto all’essere, ma Dio rimane ontologicamente distinto e assolutamente trascendente.

Ogni creatura è una realizzazione finita, partecipata e similitudinaria dell’essenza divina. Essa non è Dio, ma dice qualcosa di Dio, lo manifesta nel limite della sua condizione finita e creata. Dio è tutto in ogni cosa, ma non è contenuto totalmente da alcuna. Le creature, in quanto effetti dell’atto creativo divino, sono inscritte in una rete di relazioni trascendentali che permette di affermare che tutto è in tutto secondo il disegno dell’Exemplar. In tal senso, può dirsi che ogni creatura è riferita a Dio come al proprio principio, termine e intelligibilità. Tuttavia, nessuna di esse – né l’universo intero – può esprimere in modo esaustivo la totalità dell’essere divino.

Alla luce di ciò, è lecito chiedersi se si possa affermare che la creatura sia, in qualche modo, “divina”. La risposta richiede una precisazione: la creatura non è divina per essenza, ma partecipa della divinità, nel senso che riceve l’essere da Dio e ne riflette qualcosa. In termini tomisti, si può dire che Dio è Dio assolutamente, mentre la creatura è Dio solo relativamente, ossia per partecipazione, per somiglianza, per causalità esemplare. Si tratta di una relazione asimmetrica in cui Dio è l’atto puro, la pienezza dell’essere, e la creatura un effetto finito e contingente di quell’atto. La creatura non possiede nulla di proprio che non sia ricevuto e sostenuto da Dio. In questo senso, si può affermare che Dio è Dio in senso assoluto, mentre la creatura è Dio in modo relativo, ossia in quanto dipende interamente da Lui e lo manifesta.

Una formula che potrebbe essere proposta è la seguente: “Dio è il modo infinito della divinità, la creatura è il modo finito della divinità”. Tale espressione coglie un’intuizione reale: solo Dio possiede la divinità in modo infinito, essendo la divinità stessa; la creatura, invece, ne partecipa in modo finito, essendo una realizzazione limitata di quell’essere. Tuttavia, questa formulazione deve essere usata con grande cautela, poiché, se intesa letteralmente o senza distinzione, rischia di scivolare in concezioni panteistiche o panenteistiche. In particolare, si avvicina pericolosamente al monismo spinoziano, secondo cui Dio e il mondo sono modi (infinito e finito) della stessa sostanza. Invece, nella visione tomista, Dio è l’essere per essenza, mentre la creatura è l’essere per partecipazione. La distinzione ontologica tra Dio e la creatura resta inviolabile.

Pertanto, si può dire, con rigore filosofico e teologico, che Dio è la divinità nella sua pienezza infinita e assoluta, mentre la creatura è una partecipazione finita di quella divinità, una sua somiglianza reale, ma non identica. La creatura è Dio relativamente, cioè in quanto manifestazione partecipata, mentre Dio è Dio assolutamente, ossia in modo autosussistente e senza alcuna dipendenza. Questa formulazione salvaguarda insieme l’immanenza e la trascendenza, la presenza di Dio nel creato e la sua assoluta alterità.

Attraverso le due immagini – postate recentemente – presentavo una sintesi della struttura del Monismo Relativo, in particolare  riflettevo sul rapporto tra l’infinito e il finito, tra il tutto e le parti, e sulle relazioni che intercorrono tra questi livelli dell’essere. Entrambe si fondano su una struttura triadica in cui si passa da una forma infinita a una forma finita, articolata a sua volta in totalità e parti. Nella prima immagine, l’infinito è associato alla creatività, simboleggiata dall’acqua: essa rappresenta una fonte originaria, assoluta, che non ha limiti e che dà origine a tutte le cose. Dall’acqua, intesa come creatività infinita, si genera una forma finita, che si manifesta come una totalità – l’oceano – composta da singole parti – le gocce. In questo schema, la relazione tra la forma infinita e la forma finita è detta “relazione assoluta”, univoca, indeterminata e incondizionata: l’infinito dà origine al finito senza che questo possa condizionarlo. Al contrario, tra le parti e la totalità esiste una “relazione biunivoca”, determinata e condizionata: ogni parte ha senso solo in rapporto al tutto e il tutto è composto dalle sue parti.

Nella seconda immagine, la stessa struttura viene riletta in chiave teologica. La forma infinita è identificata con la divinità, intesa come principio assoluto e trascendente. La forma finita, generata dalla divinità, si articola nella totalità delle parti – il Deus-trinitas, cioè Dio come trinità – e nelle singole parti, che rappresentano il creato. Anche qui la relazione tra divinità e forma finita è assoluta, univoca e incondizionata: il creato dipende dalla divinità, ma non la determina. Invece, tra il creato e la totalità divina si instaura una relazione reciproca, condizionata, in cui ogni creatura è parte di un ordine più grande e interdipendente. In entrambe le immagini, la logica relazionale mette in luce un doppio livello: da un lato l’assoluto che genera senza essere generato, e dall’altro un mondo finito fatto di relazioni reciproche, in cui ogni elemento ha senso in funzione del tutto. Questo modello permette di pensare l’unità e la molteplicità non come opposti, ma come livelli interconnessi di un’unica realtà dinamica.

Noi siamo in Dio non come una bottiglia, ma come una goccia. Noi siamo della stessa sostanza di Dio, ma non della stessa forma. Dio è Dio nella forma infinita, noi non possiamo esserlo. Noi siamo Dio nella forma finita.

Possiamo citare quello che dice Massimo il Confessore che dice che noi nella forma divinizzata siamo “increati senza principio né fine”, non viviamo nel tempo, non siamo soggetti alle passioni e ad una fine, possediamo solo la vita divina ed eterna che è in noi. Questo succede dopo il degradi del bios.

Nicolò Cusano dice che noi  abbiamo la forma infinita ricevuta solo in modo finito, per cui ognuno di noi è una infinità finita o un Dio creato.  Il finito è “in” Dio, ma l’infinito non è in Dio. La sostanza è distinta dalla forma. L’infinito è sia sostanza che forma, il finito è solo forma. Perciò noi siamo una forma della sostanza infinita di Dio. Dio è forma infinita perchè è creatività divina, può creare qualsiasi cosa.

Noi siamo “in” Dio come creature, ma ci siamo perché siamo Dio e non altro da Dio. Essere “in” Dio non esclude che siamo Dio. L’immanenza di Dio in noi, cioè l’essere di Dio “nella” creatura, è secondo la forma finita di Dio,  ma ciò non toglie che la sostanza della creatura sia Dio stesso. Dio non è una parte di noi così come noi non siamo una parte di Dio. Allo stesso modo Dio non è altro da noi creature, per il fatto che questa è della stessa sostanza di Dio, benché in forma finita. Tale differenza è formale (non reale). Tra l’increato e il creato corrisponde la differenza tra l’essere Dio per essenza e l’essere Dio per partecipazione, come dice Tommaso d’Aquino: «come il legno che brucia partecipa la natura del fuoco: e in questo senso l’uomo diviene partecipe della natura di Dio»

Nel confronto tra il pensiero tomista — come sviluppato da Giuseppe Barzaghi nella dottrina dell’Exemplar — e le strutture concettuali del cosiddetto “Monismo Relativo”, emerge una tensione feconda attorno alla questione del rapporto tra infinito e finito, tra divinità e creatura, tra forma assoluta e forme partecipate. La metafisica tomista afferma con chiarezza che Dio è l’essere sussistente in sé, atto puro, la cui divinità è infinita secondo la modalità dell’essere. La creatura, invece, partecipa dell’essere in modo finito e contingente. Essa non è Dio, ma da Dio, in Dio e per Dio. La sua relazione con il Creatore è reale dal lato della creatura e solo di ragione dal lato di Dio.

Il modello del Monismo Relativo, invece, pur affermando la trascendenza dell’infinito rispetto al finito, propone che la creatura sia Dio in forma finita, e che differenza tra Dio e la creatura sia soltanto formale, non reale. L’analogia dell’acqua e della goccia — con l’acqua come creatività infinita e la goccia come forma finita — suggerisce un’identità sostanziale tra Dio e la creatura, distinti solo per modalità. La creatura è forma finita della sostanza infinita di Dio, e in questo senso “è Dio” relativamente, senza esserlo assolutamente. Si afferma così che la sostanza della creatura è Dio stesso, differenziata solo nella forma, il che comporta il superamento della differenza ontologica tra creatore e creatura. Deus suum ipsius et omnium esse (Bernardo di Chiaravalle). L’essere – che è di Dio – è anche di tutte le cose. Si tratta dello stesso e identico essere che si dà in due differenti modalità. Dio e mondo sono due modalità espressive dell’unica sostanza divina. Dio e mondo sono due modalità espressive – forma infinita (deus) e forma finita (creatio) – dell’unica sostanza divina.

Nel paradigma tomista, al contrario, la creatura non è Dio né secondo la sostanza né secondo la forma: è un ente distinto, che riceve l’essere per partecipazione. La partecipazione non implica identità di sostanza, ma una dipendenza ontologica. Dio è presente nella creatura come causa efficiente, formale e finale, ma la creatura non è Dio — neppure “formalmente” — bensì un ente altro che manifesta qualcosa del Creatore secondo la misura della propria finitezza. Dire che la creatura è “Dio in modo finito” può avere senso solo se si intende come partecipazione reale, non come identità ontologica. La creatura non è una modalità dell’essenza divina, ma una sua immagine (similitudine) fondata nell’atto creatore libero.

Le affermazioni di Massimo il Confessore e Nicola Cusano — secondo cui l’essere divinizzato è “increato” per partecipazione, oppure che ciascuno è una “infinità finita” — possono essere accolte entro un quadro tomista solo alla luce della distinzione tra essenza e partecipazione. Quando Massimo afferma che l’uomo divinizzato non ha più principio né fine, ciò va inteso in senso mistico-esperienziale e non ontologico: la creatura partecipa della vita divina, ma non ne acquisisce l’essenza. Cusano parla di una “forma infinita ricevuta finitamente”: anche questa immagine, se ben regolata, può convergere con l’analogia dell’essere, purché non si cada nella cancellazione della differenza tra il Creatore e il creato. In Tommaso, infatti, la partecipazione implica un rapporto asimmetrico tra il fuoco e il legno: il legno arde perché partecipa del fuoco, ma non è il fuoco.

Così, anche l’espressione secondo cui “noi siamo Dio perché siamo in Dio” richiede di essere interpretata alla luce della dottrina classica della partecipazione: siamo in Dio in quanto da Lui creati, sostenuti e ordinati, ma non siamo Dio né per identità né per immanenza sostanziale. L’immanenza divina nella creatura non implica che la creatura sia Dio, ma che Dio opera in essa e la tiene nell’essere. La creatura non è Dio in forma finita, ma un’immagine finita di Dio, ontologicamente distinta da Lui.

Il Monismo Relativo, invece, comprende la differenza tra Dio e creatura all’interno dell’identità di Dio. Tra Dio e la creatura – tuttavia – non c’è una differenza di grado ma una differenza formale. Dio è Dio assolutamente; la creatura è Dio relativamente.  Dio (deus) è la forma infinita della “divinitas”. La creatura, invece,è la forma finita della divinità. La creatura è Dio, nella misura in cui partecipa dell’essere di Dio, non secondo la modalità dell’ auto-referenzialità sussistente (esse in se) ma della relazione (esse ad). Dio è Dio assolutamente, la creatura è Dio relativamente. La creatura è sì “altro” da Dio, ma essendo interamente da Dio, è relativamente altro. La divinità, pertanto, è sia infinita che finita. L’apparente contraddizione [( +1) + (-1) = 0] si risolve riconoscendo la relazione (+) di creato (+1) e increato (-1) come l’identità stessa e non come il risultato dell’identità.

[( +1) + (-1) = 0] -> [1 = 1]

Tomismo Anagogico (Giuseppe Barzaghi) e Monismo Relativo (Paolo Gamberini) guardano all’essenza divina in maniera affine. La differenza è data dal modo con cui intendere il mondo nell’essenza divina: similitudine dell’Exemplar (Barzaghi), modi di essere nel Monismo Relativo (Gamberini).

R(el)atio

Riccardo Manzotti nel suo ormai famoso testo libro La mente allargata. Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa (Il Saggiatore, Milano 2019) propone una visione rivoluzionaria della coscienza, sostenendo che essa non risiede nel cervello, ma che coincide con il mondo stesso. Le teorie tradizionali che vedono la mente come un fenomeno interno, distinto dal mondo esterno, sono errate o incomplete. La coscienza, lungi dall’essere un prodotto del cervello o una rappresentazione mentale, è identica agli oggetti del mondo nei loro aspetti temporali e causali. L’esperienza cosciente, quindi, non è un’immagine interna né una costruzione soggettiva, ma è la cosa stessa con cui siamo in relazione.

Questa teoria, detta “identità oggettiva”, suggerisce che ciò che percepiamo – un fiore, un colore, un suono – non è una copia mentale, ma l’oggetto reale stesso in quanto evento che coinvolge il nostro corpo in un processo fisico distribuito nel tempo. La coscienza non è un evento istantaneo, ma un processo temporale. Non esiste un “dentro” della mente dove gli oggetti vengono ricreati; piuttosto, la mente è una relazione fisica che si estende nel tempo tra il soggetto e l’oggetto.

Va criticata pertanto la concezione per cui soggetto e oggetti, coscienza e mondo, sono originariamente ed essenzialmente separati. Il mondo non viene conosciuto ripresentandolo dentro la mente, collocando il mondo – per così dire – nel cervello. Il mondo stesso diventa cosciente, quando e come entra in relazione con un corpo. Non c’è bisogno di un mondo interno, né di misteriosi “qualia” nascosti nel cervello. L’esperienza è il mondo stesso, in un dato momento, nel modo in cui interagisce con noi. In questo modo, la coscienza perde il suo alone di mistero: non è qualcosa di interno, ineffabile, o magico. La coscienza è semplicemente una parte del mondo che entra in relazione con il corpo e diventa “parte” di noi, nel momento in cui esistiamo in relazione con essa. L’identità tra mente e mondo abbatte la barriera tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, e propone una nuova metafisica unificata e monistica.

Alla luce di queste considerazioni di Manzotti, potremo dire che la coscienza è partecipazione al mondo. La coscienza è l’esperienza dell’uscita delle cose dal nulla nell’orizzonte della loro presenza al nostro corpo. La coscienza è la presenza del mondo. L’etimologia della parola “presenza” deriva dal latino praesentia, che a sua volta deriva da praesens, participio presente del verbo praesse, che significa “essere davanti (prae-), essere presente”. La preposizione “prae-” indica una relazione. Essere-davanti-a. Ma davanti a chi? La presenza è la coscienza. L’apparenza dell’essenza. Dunque, non è una cosa che appare ma è l’apparire stesso delle cose.

Affermare che “il mondo è”, significa che “il mondo è-presente”. Il mondo è la sua presenza. La coscienza è l’apparire delle cose(gen. soggettivo). L’apparire costituisce il discorrere delle cose. Le cose sono, perché appaiono. Se appaiono, significa che le cose dis-corrono, cioè fluiscono. “Panta rei” (πάντα ῥεῖ) come afferma il filosofo greco Eraclito (cf. Diels-Kranz, frammento 12). Le cose appaiono nel loro discorso (ratio). Il discorso “collega” le cose e quando sono collegate “appaiono”. Le cose “non” appaiono, invece, quando sono scollegate, separate tra loro. In questo caso, le cose sono mute. Infatti, se non sono collegate e relazionate tra loro, le cose scompaiono. È il collegamento, logos, il legame (relatio) della ratio che fa apparire le cose, cosicché il mondo appare quando le cose sono collegate. Il collegamento è il cosmo. L’etimologia della parola “cosmo” deriva dal greco kósmos, che significa “ordine” e poi “mondo” o “universo” nel senso di un sistema ordinato e armonioso. Struttura.

Le cose appaiono non tanto ad un corpo, ma come corpo. Il collegamento delle cose è il logos, la coscienza, l’essere presenti delle cose. La coscienza è il cosmo.

La coscienza non è qualcosa che accade dentro di noi, ma è il mondo stesso che si presenta, che appare, nel momento in cui lo viviamo, grazie al nostro corpo. La coscienza, quindi, non è una rappresentazione interna, né un film mentale, né un teatro interiore in cui le cose accadono. È il mondo che c’è, che si dà, che esiste in relazione al nostro corpo. Quando vediamo un bicchiere, non c’è un’immagine mentale del bicchiere: c’è il bicchiere, lì, davanti a noi. Quell’apparire del bicchiere è la nostra coscienza in quel momento.

Essere presenti, allora, significa vivere quel bicchiere – o qualunque cosa accada – in modo diretto, non mediato. Non è un’auto-osservazione né un’astrazione: essere presenti è essere coincidenti con il mondo che si manifesta in quell’istante. Significa non vivere nel passato o nel futuro, non rifugiarsi in pensieri o rappresentazioni, ma abitare quello che c’è, senza aggiungere nulla, senza cercare di portarlo “dentro” o di separarsene. È smettere di cercare il mondo dentro di noi, perché siamo già là dove il mondo accade.

Da qui si può dire che la coscienza è l’apparire del mondo. Ma è fondamentale una distinzione: non è “il mondo che appare a qualcuno”, come se ci fosse un soggetto interiore a cui tutto viene proiettato. È l’apparire stesso, in quanto evento reale. Non c’è bisogno di un “io interno” che osservi: l’apparire del mondo è già tutto ciò che serve. Questo elimina l’idea che ci sia una copia del mondo nella testa, una rappresentazione interiore, un “cinema mentale”. Secondo Manzotti, questa è una convinzione animistica: pensare che ci sia un piccolo spettatore dentro di noi che guarda il mondo.

In questa prospettiva, la coscienza è il mondo nel momento in cui esiste relativamente al nostro corpo. Il corpo non è il produttore della coscienza, ma il suo punto di riferimento: è ciò che rende possibile l’esperienza. Come la velocità in fisica, che esiste sempre rispetto a un sistema di riferimento, così anche le proprietà del mondo – colori, suoni, odori – esistono relativamente al corpo che le vive. Cambiando il corpo (una mosca, un cane, un alieno), cambierebbe il mondo percepito. E quindi anche la coscienza sarebbe diversa.

La coscienza è l’identità di “mente-oggetto”: noi non siamo un soggetto separato che osserva il mondo, siamo il mondo stesso che, grazie al corpo, accade in una certa forma. La coscienza non è un qualcosa di aggiunto, non è una pellicola interiore, ma è il mondo nella sua esistenza relativa. Detto in modo netto: la coscienza è il mondo che appare, e l’apparire del mondo è coscienza. Non c’è nessuna “scena interiore” da trovare dentro il cervello. Non c’è alcuna immagine, rappresentazione o teatro interno. C’è solo ciò che appare, nella sua concretezza, e il fatto che appaia, è già l’essere coscienti. In questa visione, il mondo non viene “visto” da dentro: noi siamo già là, siamo l’apparire stesso. Ecco perché si può dire con coerenza: la coscienza è l’apparire del mondo. E se impariamo a vivere senza interporre un filtro, un’idea, un io immaginario tra noi e il mondo, allora siamo davvero presenti. E allora sì, siamo anche davvero coscienti. La coscienza è il mondo divenuto consapevole di sé. «Noi siamo l’incarnazione locale di un Cosmo cresciuto verso l’autoconsapevolezza. Abbiamo iniziato a contemplare le nostre origini: materia stellare che medita sulle stelle; assemblaggi organizzati di dieci miliardi di miliardi di miliardi di atomi considerando l’evoluzione degli atomi; Tracciando il lungo viaggio attraverso il quale, almeno qui, è sorta la coscienza. La nostra lealtà è verso la specie e il pianeta. Parliamo per la Terra. Il nostro obbligo di sopravvivere è dovuto non solo a noi stessi, ma anche a quel Cosmo, antico e vasto, da cui proveniamo»[1]. Il mondo è presente quando appare. Il mondo manifestandosi, svela la sua consapevolezza, l’essenza (nascosta) di tutte le cose che è Dio stesso. La mente (ratio) di Dio è l’orizzonte (regio) in cui le cose sono. Sono cosciente del mondo significa che le cose appaiono e “io” non sono l’“io fenomenico” davanti ad un mondo fuori di me. “Io sono mondo”. Con “sono” si indica “coscienza” (cum-scire), consapevolezza, legame, discorrere. R(el)atio.


[1] Carl Sagan, Cosmos, Random House, New York 1980, 345.

L’urgente è importante ?

“Solo chi è attento al presente sa scegliere ciò che conta davvero.”

Swami Asirananda

Il Vangelo di Luca ci mette davanti due scene solo in apparenza contrastanti, ma in realtà profondamente complementari.

Nel brano del Buon Samaritano (Luca 10,25-37), un uomo è lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. Due passano oltre, forse convinti di avere cose più “importanti” da fare, forse troppo concentrati su ciò che appariva loro urgente o sacro. Solo il Samaritano si ferma: l’urgenza di quell’uomo ferito diventa per lui l’unica vera priorità. Qui l’urgenza è concreta e coincide con l’importanza: amare significa lasciarsi coinvolgere.

Subito dopo, Luca racconta Marta e Maria (Luca 10,38-42). Marta è agitata e affannata per molte cose, mentre Maria siede ad ascoltare Gesù. Qui, è l’urgenza apparente a prendere il sopravvento e a far perdere di vista l’essenziale. Gesù non condanna il servizio, ma richiama Marta a una verità profonda: non tutto ciò che sembra urgente è davvero necessario.

Non tutto ciò che è urgente è importante. Non sempre ciò che è importante è urgente. Il cuore della questione è questo: Come saper distinguere ciò che è urgente da ciò che è veramente importante? Come distinguere tra ciò che ci affanna e ciò che ci trasforma?

La risposta è nell’attenzione.

Il discernimento nasce da una presenza vigile e amorevole al momento presente. Solo chi è attento – non agitato, non distratto – riesce a vedere l’altro come il Samaritano, o a riconoscere la voce del Signore come Maria.

È un’attenzione che non è fredda analisi, ma empatia, amore, ascolto profondo. Chi vive così sa distaccarsi da ciò che è solo rumore, da ciò che reclama la nostra energia ma non ci nutre davvero. E può allora scegliere, con libertà, la parte migliore.

Essere discepoli, in fondo, significa questo: vivere ogni momento con attenzione amorevole, pronti a lasciarci toccare da ciò che è urgente e importante (come il Samaritano), ma anche capaci di fermarsi ad ascoltare ciò che conta davvero (come Maria). Solo così le nostre scelte saranno vere, e non solo reazioni automatiche a un mondo che ci corre addosso.

Unum est necessarium. Quell’angolo tranquillo in cui ogni giorno poter avere un contatto con Dio nel silenzio.

“Immediatamente prima della mia conversione e poi ancora per un certo periodo, ho pensato che la vita religiosa significasse rinunciare ad ogni cosa terrena e vivere pensando solo al divino.

A poco a poco ho imparato a capire che ci viene richiesto altro in questo mondo che anche nella vita più contemplativa il legame con il mondo non può essere reciso; credo anzi che quanto più si è sprofondati in Dio, tanto più si debba «uscire da sé», entrare nel mondo, per portarvi la vita divina.

L’essenziale è solo che ogni giorno si trovi anzitutto un angolo tranquillo in cui poter avere un contatto con Dio, come se non ci fosse nient’altro al mondo – le ore del mattino, prima che cominci il lavoro, mi sembrano il momento migliore.

Inoltre, si deve accogliere la propria missione, giorno per giorno, attraverso il contatto con Dio, non sceglierla; infine bisogna considerarsi davvero uno strumento e soprattutto ritenere le forze con cui si lavora (nel nostro caso l’intelletto) qualcosa che usiamo non noi, ma Dio in noi”[1]

Signore Gesù,

insegnami a vivere ogni momento con attenzione amorevole.

Nel rumore delle urgenze e nelle corse quotidiane,

donami un cuore capace di fermarsi,

di ascoltare la tua voce come Maria,

di vedere il bisogno dell’altro come il Samaritano.

Liberami dall’ansia che affanna,

dalle mille occupazioni che mi allontanano da Te.

Aiutami a discernere ciò che davvero conta,

a scegliere la parte migliore,

a servire con amore, senza perdermi nell’agitazione.

Fammi attento al presente,

presente con Te, presente con gli altri.

Che il mio sguardo sia pieno di empatia,

le mie mani pronte ad aiutare,

e il mio cuore sempre aperto alla tua Parola.

Amen.


[1] Edith Stein, Selbstbildnis in Briefen. Erster Teil 1916 bis 1934, Edith Steins Werke Bd. VIII, hrsg. Von L. Gelber u. R. Leuven, Druten, Freiburg-Basel-Wien 1976, 54-55.

Non solo l’Altro

Il concetto di alterità è centrale nella teoria psicoanalitica di Jacques Lacan. In essa, l’altro non è semplicemente un individuo distinto dal soggetto, ma una dimensione strutturale, linguistica e simbolica da cui il soggetto stesso è generato. Lacan distingue tra l’”Altro” con la A maiuscola e l’”altro” con la a minuscola. Il primo rappresenta il luogo del linguaggio, dell’inconscio, della legge e del desiderio. È l’ordine simbolico che precede il soggetto e lo costituisce, il luogo da cui proviene il significante e in cui il soggetto cerca riconoscimento. È anche l’orizzonte simbolico in cui si struttura il Nome-del-Padre, figura fondamentale della legge simbolica e della castrazione. L’”altro” con la a minuscola è invece ciò che il soggetto incontra nello stadio dello specchio: un’immagine speculare idealizzata, fonte di identificazione ma anche di alienazione e rivalità.

Per Lacan, il desiderio non nasce da un bisogno interno, ma è sempre desiderio dell’Altro. Il soggetto desidera ciò che crede l’Altro desideri, e questo introduce un livello di alienazione fondamentale. Inoltre, Lacan descrive due momenti chiave nel rapporto con l’alterità: l’alienazione, in cui il soggetto entra nel linguaggio e perde qualcosa di sé; e la separazione, in cui si rende conto che l’Altro è anch’esso mancante, aprendo la possibilità di una soggettività singolare. L’alterità, dunque, non è un ostacolo né una relazione semplicemente interpersonale: è il fondamento strutturale del soggetto.

Tuttavia, questa concezione lacaniana ha incontrato nel tempo numerose critiche, provenienti da scuole psicoanalitiche, filosofiche e psicologiche anche molto diverse. Autori come Melanie Klein, Donald Winnicott e la scuola delle relazioni oggettuali propongono una visione fondata su relazioni affettive primarie più che su strutture simboliche. Per loro, l’altro non è il luogo del linguaggio, ma una presenza concreta, empatica, che favorisce lo sviluppo del sé. In questa prospettiva, l’alterità è intesa come relazione reale, affettiva, interna, non come una struttura che aliena.

Jean-Paul Sartre, nel contesto esistenzialista, propone un’alterità fondata sullo sguardo, che oggettiva il soggetto e ne limita la libertà. Tuttavia, per Sartre, il soggetto è libero e autocosciente, non determinato da strutture linguistiche o simboliche. In questo senso, la sua visione è in tensione con quella lacaniana, che al contrario considera il soggetto come strutturalmente diviso, alienato nel linguaggio e nel desiderio dell’Altro.

Michel Foucault, pur condividendo con Lacan una critica all’umanismo classico, rifiuta l’idea di un soggetto fondato su strutture universali. Per lui, il soggetto è un effetto di pratiche discorsive e dispositivi di potere storicamente situati. L’alterità non è un elemento strutturale, ma un prodotto dei regimi di verità che operano in un determinato contesto storico. Lacan, da questo punto di vista, viene criticato per mantenere una sorta di trascendentalismo mascherato, incentrato sul linguaggio.

Gilles Deleuze e Félix Guattari, in testi come L’Anti-Edipo, propongono una visione radicalmente opposta a quella lacaniana. Essi rifiutano l’idea che il desiderio sia mancanza: per loro, il desiderio è produzione, flusso, creazione. L’Altro simbolico, rappresentato da figure come il Nome-del-Padre o la legge edipica, è visto come un apparato repressivo che inibisce la potenza creativa del desiderio. Il soggetto, nella loro prospettiva, non è centrato, ma molteplice, rizomatico, in continua trasformazione.

Judith Butler, pur influenzata in parte da Lacan, ne critica la visione normativa del simbolico, in particolare rispetto alla differenza sessuale. Per Butler, l’Altro come istanza simbolica stabilisce norme di intelligibilità che regolano il genere e la sessualità. Tuttavia, queste norme possono essere sovvertite attraverso pratiche performative che ridistribuiscono i significati e destabilizzano l’ordine simbolico dominante. L’alterità, per Butler, non è solo costitutiva, ma anche uno spazio di resistenza e riscrittura.

A queste critiche si aggiunge, con particolare forza, la psicologia transpersonale, che rappresenta una delle opposizioni più radicali alla concezione lacaniana. Nata negli anni ’60 e influenzata da autori come Stanislav Grof e Ken Wilber, la psicologia transpersonale afferma l’esistenza di un Sé autentico, superiore, potenzialmente connesso con una coscienza universale. Laddove Lacan nega l’esistenza di un “vero sé”, considerandola un’illusione narcisistica, la psicologia transpersonale afferma la possibilità di ritrovare e realizzare questa dimensione interiore profonda.

Anche la concezione dell’inconscio è profondamente diversa: per Lacan, l’inconscio è strutturato come un linguaggio, è l’Altro che parla nel soggetto, e non c’è accesso diretto ad esso se non attraverso la catena significante. Nella psicologia transpersonale, invece, l’inconscio include una dimensione superiore, archetipica, cosmica: può essere esperito direttamente tramite stati alterati di coscienza, meditazione o respirazione profonda. L’inconscio transpersonale è una fonte di rivelazione spirituale e guarigione.

Anche la nozione di alterità cambia radicalmente: per Lacan, l’alterità è irriducibile, fondamento simbolico del soggetto; per la psicologia transpersonale, l’alterità è illusoria, destinata a essere superata in esperienze di unità cosmica o di coscienza espansa. Dove Lacan parla di alienazione e mancanza, la psicologia transpersonale parla di integrazione e trascendenza.

Infine, le due visioni divergono radicalmente anche nella finalità terapeutica. La cura, per Lacan, non mira alla guarigione o alla completezza, ma all’assunzione della propria mancanza e alla soggettivazione del desiderio. Per la psicologia transpersonale, invece, la terapia è un percorso di crescita, realizzazione del Sé e accesso a stati superiori di coscienza. Si tratta, in un certo senso, di una visione “salvifica”, orientata alla totalità e all’espansione.

La teoria lacaniana dell’alterità propone una visione rigorosa e spietata del soggetto, costitutivamente diviso e parlato dall’Altro. Tuttavia, essa ha suscitato reazioni e opposizioni profonde. La psicologia transpersonale, in particolare, rappresenta quasi il suo rovescio speculare: là dove Lacan parla di mancanza, essa propone pienezza; dove c’è struttura simbolica, essa propone coscienza unificata; dove c’è legge, essa propone liberazione. Si tratta, in definitiva, di due antropologie incompatibili: una fondata sul linguaggio e sull’alterità come limite, l’altra sull’esperienza e sull’alterità come soglia verso l’unità.

La concezione lacaniana di alterità fornisce uno strumento potente per leggere le grandi strutture simboliche che fondano l’identità, il desiderio e la Legge. Nel pensiero di Lacan, l’Altro non è un semplice interlocutore, ma una dimensione simbolica e strutturale: è il luogo da cui il soggetto riceve il linguaggio, la legge, il nome e il desiderio stesso. L’Altro precede il soggetto, lo fonda, ma al tempo stesso lo aliena. Il soggetto non è padrone del proprio desiderio: desidera ciò che crede che l’Altro desideri. L’Altro, nella forma del linguaggio, della cultura, del Dio monoteistico, è ciò che ordina e proibisce. Ma in Lacan, l’Altro non è mai completo: è barrato, mancante (l’Autre barré), non esiste nella sua totalità. È una finzione necessaria, un punto di riferimento strutturale che però non garantisce il senso, non colma la mancanza, non assicura una verità ultima.

Applicando questa struttura alla religione monoteistica, possiamo leggere la figura di Dio come funzione dell’Altro simbolico. Dio è il punto in cui si concentra il significante supremo, la Legge ultima, la garanzia di verità. La sua parola fonda il senso, comanda, giudica, desidera — ma non manca. Il Dio monoteistico, nella sua rappresentazione teologica classica, è pieno, completo, onnisciente. In termini lacaniani, questa figura è un fantasma: una rappresentazione immaginaria di un Altro che non manca, che colma il vuoto. Ma proprio per questo, è anche una maschera che nasconde il reale, che evita il confronto con la mancanza strutturale del soggetto.

Ed è proprio contro questa immagine del Dio pieno e onnipotente che si alzano, da altre tradizioni spirituali e filosofiche, delle concezioni radicalmente differenti: quelle che non pongono alcuna separazione strutturale tra soggetto e assoluto, tra io e altro. Qui si colloca la nondualità, nelle sue forme orientali (Advaita Vedānta, buddhismo Mahāyāna, Taoismo), ma anche nelle sue eco occidentali, come nella mistica di Nicola Cusano.

Nella nondualità, la distinzione tra soggetto e oggetto, tra sé e altro, è considerata una costruzione mentale, illusoria. Non esiste un “Altro” separato da me: l’io, l’altro, il mondo e il divino sono un’unica realtà indivisa, che il pensiero discorsivo, basato su opposizioni, fraintende. In questa prospettiva, non c’è alienazione, perché non c’è scissione: la mancanza è un effetto della mente duale, del linguaggio che separa. L’esperienza nonduale è quella in cui cade il significante, e con esso la struttura simbolica: ciò che rimane è la presenza pura, senza soggetto né oggetto.

In questo senso, la nondualità si pone in contrasto diretto con Lacan, per cui il linguaggio è ciò che struttura il soggetto, e la divisione (la mancanza, la castrazione, l’Altro) è ciò che fonda il desiderio e la soggettività. Dove Lacan dice: “il soggetto è strutturalmente mancante”, la nondualità dice: “il soggetto è illusorio, e la mancanza è un velo”. Se Lacan afferma che l’Altro è barrato, la nondualità afferma che non c’è Altro, perché non c’è due. Il monoteismo classico, in questo quadro, sarebbe una forma raffinata di dualismo: un Dio separato, distinto, a cui il soggetto si rivolge, ma che non è mai pienamente accessibile. La nondualità, invece, dissolve questa distanza: il divino è ciò che è, e la soggettività può risolversi in esso, non per identificazione, ma per svuotamento.

È in questa direzione che si muove anche Nicola Cusano, teologo e filosofo del XV secolo, che anticipa molte intuizioni della nondualità in un linguaggio cristiano e neoplatonico. Nel suo concetto di non aliud (il “non-altro”), Cusano introduce una visione in cui Dio non è un ente tra gli altri, né un’alterità assoluta, ma ciò che è “non altro” da qualsiasi cosa esista. Non è né identico né diverso: è la coincidenza degli opposti, l’unità assoluta che non può essere pensata come oggetto, ma solo intuita come non dualità radicale. Dire che Dio è non aliud significa dire che nessuna distinzione tiene: Dio è non-altro da me, non-altro dal mondo, non-altro dall’essere stesso. E tuttavia, non è identico: non si può afferrare, definire, rappresentare.

Qui, la posizione cusana rompe con la logica binaria del linguaggio, in modo analogo alla nondualità orientale: non c’è opposizione reale tra sé e altro, ma solo nella mente discorsiva. Cusano afferma che il sapere su Dio è sempre un docta ignorantia: sapienza del non sapere, intuizione del fatto che la verità non è oggetto del pensiero razionale, ma può solo essere vissuta come unificazione.

In confronto con Lacan, il non aliud cusano rappresenta un’alternativa ontologica e mistica alla struttura del desiderio e dell’alterità. Se per Lacan il soggetto è strutturalmente diviso, e il rapporto con l’Altro è mediato da un desiderio mancante, Cusano suggerisce che non c’è divisione originaria, ma un’unità che il pensiero discorsivo non riesce a cogliere. Mentre Lacan mostra come il soggetto sia effetto di un linguaggio che lo aliena, Cusano invita a superare il linguaggio, per accedere a un’intuizione dell’unità oltre la distinzione.

Ma questo confronto non è senza tensioni. Lacan potrebbe leggere la mistica del non aliud come un fantasma dell’Uno, un’illusione narcisistica di totalità che rimuove la mancanza e il reale. Allo stesso modo, la nondualità potrebbe apparire come un tentativo di abolire l’alterità, cancellando la struttura simbolica che fonda il desiderio. Tuttavia, si potrebbe anche sostenere che Cusano e la nondualità non negano la differenza, ma la trascendono senza annullarla. L’unità non è un’identità piatta, ma una coincidenza dinamica, un non-altro che non elimina la molteplicità, ma la comprende in una totalità viva e irrappresentabile.

In definitiva, la questione dell’alterità tocca qui un punto limite: è costitutiva e ineliminabile, come in Lacan? O è illusoria e superabile, come nella nondualità e in Cusano? È ciò che fonda il soggetto come mancante, o ciò che deve dissolversi perché il soggetto ceda il posto all’unità? Tra queste due visioni si apre uno spazio di pensiero vertiginoso, che tocca la teologia, la psicoanalisi e la mistica. È lo spazio in cui il soggetto si misura con l’impossibilità del senso pieno — o con la sua pienezza indicibile.

Se nel monoteismo, l’Altro assoluto, Dio, occupa una posizione di centralità normativa e simbolica, nel monismo nonduale o relativo Dio non è originariamente pensato come l’Altro ma come Relazione. Dio non si configura come l’origine della legge, del senso e del desiderio, un grande Altro che è il luogo del significante supremo, il punto da cui proviene la Legge e al quale il soggetto si rivolge in cerca di riconoscimento, ma anche sotto cui si aliena. Il monismo relativo ribalta tale concezione ponendo a fondamento della realtà la nondualità. La relazione non è pensata come conseguenza della alterità ma sua origine.

Is God’s being the same as that of the creature?

Bernard of Clairvaux (De consideratione, V, 6, 13) affirms that God is “Being itself, of Himself and of all things.” [1] Deus suum ipsius et omnium esse. Thomas Aquinas develops this claim by saying that God is His own being by essence (He does not receive it), while all creatures participate in being which is absolute in Him, as His likenesses. God is Being absolutely (per essentiam), while creatures are this same being (and not a different one) relatively (per participationem).

In Aquinas’s thought, creatures are, in a certain sense, manifestations of God, but they are not God, nor parts of God. They participate in being, which in its full and absolute sense is God Himself — ipsum esse subsistens, Subsistent Being itself. Every creature receives its being from God and possesses it in a finite, limited way, according to a degree of participation depending on how it was created. The essence of created things exists as an idea in the divine mind: by perfectly knowing Himself, God also knows all finite possibilities of His being, and from these He draws the ideas by which He creates everything. In this sense, creatures are realizations of a divine idea and thus reveal something of God.

However, even though creatures are real manifestations of the divine, they are not identical with God. They are not God, nor do they contain God as if He were part of their essence. God is present in them as the cause of their being, not as an intrinsic element. This is the classical distinction between the Creator and the created, which Aquinas rigorously upholds against any form of pantheism. Creatures therefore manifest God analogically, not univocally: there is a resemblance between them and God, but not identity. It is a proportional resemblance, by which every finite being reflects in a limited way a perfection of divine being without exhausting or containing it.

This manifestation can be thought of as a theophany, a revelation of God’s goodness and intelligence in creation. Yet this revelation is always partial, fragmentary, proportionate to the creature’s capacity to receive and manifest being. In this sense, the world is full of traces of God, but it is not God Himself. As Aquinas states, every creature is a certain likeness of the First Being: what exists, as such, refers to the source from which it receives being, but never coincides with it.

When we say that God and the creature share the same being but differ in the mode of participating in it — absolute in God, relative in the creature — we are expressing a position rooted in classical metaphysics, especially in Scholasticism, and brought to full expression in the doctrine of participation. Being, from this perspective, is neither a univocal nor equivocal concept, but analogical: it is said in different but proportionate ways of both God and creatures. The distinction is not merely linguistic but real and ontological.

God does not “have” being; He is being itself — ipsum esse subsistens, pure act, in which essence and existence are identical with no distinction. He is the act of being in an absolute sense, without reception or limitation. The creature, on the other hand, is not being itself but receives being: it participates in that act according to a degree, a measure, a form determined by its own essence. This is not about two distinct beings as parallel realities sharing a common property, but rather a relation of dependence: the creature’s being is derived, received, and limited.

Thus, to say that the being of God (x) is the same being as that of the creature (y) is possible only quodammodo, that is, in a certain way. It is a kind of monism, but quodammodo: a relative monism. If by “same” one means numerical identity, one falls into pantheism or ontological monism, which negates divine transcendence. But if one means that God and the creature refer to the same fundamental order of reality — being as act — then we speak in terms of participation: the creature is, insofar as it participates in being, which in God is absolute. The being of the creature is by participation. The difference is not just quantitative but qualitative and modal: God is being by essence; the creature is being by participation.

This view, typical of Aquinas, allows for a real similarity between God and the creature — a similarity that includes both identity and difference. The creature is like God in that it is, and is of the same being as God. It is unlike God in that it is in a finite and relative way. This avoids the double danger of pantheism and radical dualism, preserving both divine transcendence and the possibility of truly knowing God through His works.

From this perspective, being is not simply one property among others, but the first act that makes possible all subsequent determinations, which can be attributed to creatures but not to God. Creatures are “determined.” God is essentially “undetermined” in that He is “uncreated.” Recognizing participation in being as the foundation of all finite beings opens the way to a metaphysics of analogy: God is not one of the beings, nor the first among them, but the act itself by which every being can be. God is the “no-thing” (ni-ente) of the created being. He is not “nothing” as an absolute void (which is contradictory, since “nothing” is not), but “nothing” as relativity. The creature, in its relative being, reflects by analogy that Absolute Being from which it comes and to which it tends.

This expresses the great Neoplatonic tradition, with Periphyseon by John Scotus Eriugena as a precursor. In Eriugena’s thought, creation is not an external act of God but a process of divine self-manifestation — a theophany in which God creates Himself in all things He creates. One might say that by creating, God defines Himself and thus Being is determined. This process, central in the Periphyseon, reflects a Neoplatonic view in which God, while remaining totally transcendent, unfolds immanently in the cosmos. Creation is thus seen as a “divine appearance,” not an action upon something external, but a progressive revelation of divine reality itself — from invisible and superessential to visible and knowable in creatures.

God does not act upon preexistent matter, nor does He create ex nihilo in the classical sense, but from the “nothing” that is His own superessentiality — which, being beyond all being, is called “nothing by eminence.” The creative act is a movement from this superessence toward essence, a descent or kenosis, not involving loss but a multiplication of being in the diversity of creatures. Every created thing is thus a sensible or intelligible manifestation of divine goodness that becomes “all in all.” “The invisible becomes visible, the incomprehensible comprehensible, the hidden manifest, the unknown known, that which is without form and species acquires form and species, the superessential becomes essential, the supernatural natural, the simple composite, that which is free from accidents submits to accidents and becomes accidental, the infinite finite, the uncircumscribed circumscribed, the supratemporal temporal, the supralocal local, the creator of all things created in all things, the maker of all things made in all, the eternal begins to be, the unmoved moves in all things and becomes all in all.” [2]

Divine causality is not linear or external but coincides with God’s will and being: to will and to be are one reality. God creates all things in Himself, and in them He creates Himself. In this sense, creation is eternal — not a temporal event, but an ontological truth: God is “always eternal, always made.” Creatures are thus signs, symbols, and lights that point to God; even the humblest realities of the sensory world reveal, to those who observe with an open mind, the infinite wisdom and beauty of the Creator. The universe becomes a universal theophany — a continual manifestation of the hidden God.

In thinking about the relationship between God and the creature, we have always oscillated between two poles: that of absolute identity and that of radical difference. One might compare “God” to the number 10 and the creature to the operation 5×2. What is created (5×2) is (=) the divine being (10). There is ontological identity between God and the creature.

The non-dual tradition — common to schools like Advaita Vedānta and some streams of Christian mysticism — recognizes this ontological identity, but this does not dissolve the difference/distance between God and the creature. The creature is not “other” than God, but God Himself given in multiplicity. The drop (5×2) and the ocean (10) are identical in essence but differ in form or mode: the 10 is absolute, the 5×2 relative.

To affirm the difference between Creator and creature as “real” and not “apparent,” classical Western theistic metaphysics denies ontological identity between God and the creature. In this perspective, the being of God is totally other than that of the creature. The creature is not God, but resembles Him, reflecting His being as an image reflects light, without being the light itself. God is being by essence; the creature is being by participation. This does not imply total separation but relation: the creature tends toward God because it is founded in Him, and in its finitude it manifests the echo of the infinite.

This alternative may be answered by saying that from the standpoint of being, there is no reality other than Being itself (of God); everything that exists participates in that first and infinite principle. But from the standpoint of form, mode, manifestation, and individual consciousness, God and creature are distinct — like the source (10 – God) and the stream (5×2 – God or divine) that flows from it. To think of this duality as a dynamic unity, rather than as a logical contradiction, may be the highest task of metaphysical thought.

The stream is what Father Barzaghi identifies with the exemplar, “the very essence of God, of the Absolute. The essence of the Absolute includes within itself all the possible likenesses of this essence. The totality of similitudinous determinations of the essence of God or the Absolute is precisely the immutability of all the eternals. Real, concrete, individual things are these likenesses. Creation is pure dependence, not production as change.” [3]

We find again the distinction — clearly highlighted by Origen in his Commentary on the Gospel of John — between ho theós (“the God”), indicating the Father, the Origin of all, and theós (“God”), designating the Son, the Logos coeternal with the Father. This may seem like a mere grammatical subtlety, but the use of the article has profound theological implications: it enables distinguishing the two Persons of the Trinity without compromising God’s unity. The Logos — theós — is of the same substance as the Father, who is the source. Yet the Logos is not separate from His logoi. The “Logos-logoi” maintains unity in an eminent sense, indicating that the Logos transcends the logoi while also encompassing them within itself. It is a unity of identity. Omnis determinatio est negatio. Each logos is defined by its inherent connection to all other logoi. This intricate relationship is simultaneously negated and encompassed within the transcendent Logos (negatio negationis), which unifies these elements without subsuming the individual logoi into a single transcendent identity. The essence of their individuality, as a positum, persists through the absolute positivity of the Logos. The Logos expresses each logos in a distinct and particular way —characterized not simply by their differences, but by the relational context that connects them. This relational context is called: the Matrix. The pomegranate is a symbol of the Logos (the whole fruit) and the logoi (seeds) contained.

The Logos is all is in all, as the inferior is “in” the superior by excellence, and the superior is in the inferior by participation.[4] As 5 is “in” 10, so the created is “in” God. This is the principle Anaxagoras formulated: “All in all and everything in everything” (Diels-Kranz, fr. 3). The Letter to the Colossians (3:11) says, “Christ is all in all,” and 1 Corinthians (15:28): “God will be all in all.” The eternal spoken with many names.


[1] Cfr. Un monaco d’Occidente, Advaita-vada e cristianesimo, Il Leone Verde,Torino 2023, 46.

[2] Giovanni Scoto Eriugena, Peryphyseon, III, 678BD; trad. cit., III, 2014, p. 153

[3] G. Barzaghi, Dialettica. Dire Dio attraverso il mondo e dire il mondo attraverso Dio, in  «Divus Thomas», Vol. 121, No. 1 (2018 – gennaio/aprile), pp. 15-32, ivi 20.

[4] Cfr. G. Barzaghi, Dialettica, 22.

È Dio lo stesso essere della creatura?

Bernardo di Chiaravalle (De consideratione, V, 6, 13) afferma che Dio è «l’Essere stesso, di Se stesso e di tutto»[1]. Deus suum ipsius et omnium esse. Tommaso d’Aquino elabora tale affermazione dicendo che Dio è il proprio essere per essenza (non lo riceve), mentre tutte le creature partecipano dell’essere che in Lui è assoluto, in quanto sue similitudini. Dio è l’essere in assoluto (per essentiam), mentre le creature sono questo stesso essere (e non un altro) relativamente (per partecipationem).

Nel pensiero di Tommaso d’Aquino, le creature sono, in un certo senso, manifestazione di Dio, ma non sono Dio né parti di Dio. Esse partecipano dell’essere, che in senso pieno e assoluto è Dio stesso, l’ipsum esse subsistens, l’Essere sussistente per sé. Ogni creatura riceve il proprio essere da Dio e lo possiede in modo finito, limitato, secondo un grado di partecipazione che dipende dal modo in cui è stata creata. L’essenza delle cose create è idea nella mente divina: Dio, conoscendo perfettamente sé stesso, conosce anche tutte le possibilità finite del suo essere, e da queste trae le idee secondo cui crea ogni cosa. In questo senso, le creature sono realizzazioni di un’idea divina e, quindi, rivelano qualcosa di Dio.

Tuttavia, pur essendo manifestazioni reali del divino, le creature non si identificano con Dio. Esse non sono Dio, né contengono Dio come se Egli fosse una parte della loro essenza. Dio è presente in esse come causa dell’essere, non come elemento intrinseco. È la distinzione classica tra il Creatore e il creato, che Tommaso preserva rigorosamente contro ogni forma di panteismo. Le creature, dunque, manifestano Dio in modo analogico, non univoco: c’è una somiglianza tra esse e Dio, ma non identità. Si tratta di una somiglianza proporzionale, per cui ogni essere finito riflette in modo limitato una perfezione dell’essere divino, senza esaurirlo né contenerlo.

Questa manifestazione può essere pensata come una teofania, una rivelazione della bontà e dell’intelligenza di Dio nel creato. Tuttavia, tale rivelazione è sempre parziale, frammentaria, proporzionata alla capacità della creatura di ricevere e manifestare l’essere. In questo senso, il mondo è pieno di tracce di Dio, ma non è Dio stesso. Come afferma Tommaso, ogni creatura è una certa somiglianza del Primo Essere: ciò che esiste, in quanto tale, rimanda alla fonte da cui riceve l’essere, ma senza mai coincidere con essa.

Quando si afferma che Dio e la creatura condividono lo stesso essere, ma differiscono nel modo di parteciparlo — assoluto in Dio, relativo nella creatura — si enuncia una posizione che si radica nella metafisica classica, soprattutto in quella scolastica, e che trova nella dottrina della partecipazione la sua forma più compiuta. L’essere, in questa prospettiva, non è un concetto univoco, né equivoco, ma analogico: si dice in modi diversi ma proporzionati tanto di Dio quanto delle creature. La distinzione è nel modo con cui l’essere è predicato di Dio e della creatura. Dio è il “suo” essere, mentre la creatura è “essere da”. Il modo è realmente differente. Tuttavia, è una differenza dei modi e non dell’essere.

Dio non ha l’essere, ma è l’essere stesso, l’ipsum esse subsistens, atto puro, in cui essenza ed esistenza coincidono senza distinzione. Egli è l’atto d’essere in modo assoluto, senza ricezione né limite. La creatura, al contrario, non è l’essere in sé, ma lo riceve: partecipa di quell’atto secondo un grado, una misura, una forma determinata dalla propria essenza. Non si tratta di due esseri distinti nel senso di due realtà parallele che condividano una proprietà comune; si tratta piuttosto di una relazione di dipendenza: l’essere della creatura è derivato, ricevuto, limitato.

Dire dunque che l’essere di Dio (x) è lo stesso essere della creatura (y) è possibile solo quodammodo, cioè in un certo modo. Si tratta di monismo, ma quodammodo: monismo relativo.  Se per “stesso” si intende un’identità numerica, si cade nel panteismo o in un monismo ontologico che annulla la trascendenza divina. Ma se si intende che Dio e la creatura si riferiscono allo stesso ordine fondamentale di realtà, l’essere come atto, allora si parla in termini di partecipazione: la creatura è, nella misura in cui partecipa dell’essere che in Dio è assoluto. L’essere della creatura è per partecipazione. La differenza non è quantitativa, ma modale: Dio è l’essere “per essenza”, la creatura lo è “per partecipazione”.

Questa visione, propria di Tommaso d’Aquino, consente di affermare una reale somiglianza tra Dio e la creatura — una similitudine che implica al tempo stesso identità e differenza. La creatura è simile a Dio in quanto è, ed è dello stesso essere di Dio. È dissimile da Dio in quanto “è” in modo finito e relativo. Così si evita il doppio scoglio del panteismo e del dualismo radicale, preservando al tempo stesso la trascendenza divina e la possibilità di una reale conoscenza di Dio attraverso le sue opere.

In questa prospettiva, l’essere non è semplicemente una proprietà tra le altre, ma l’atto primo che rende possibili le determinazioni successive che sono da attribuirsi alle creature e non a Dio. Le creature sono “determinate”. Dio è essenzialmente “in-determinato” in quanto “in – creato”. E nel riconoscere la partecipazione dell’essere come fondamento di ogni ente finito, si apre lo spazio per una metafisica dell’analogia: Dio non è uno degli enti, né il primo tra essi, ma è l’atto stesso grazie al quale ogni ente può essere. Dio è il ni-ente dell’ente creato. Non è il niente come nulla assoluto (che è contraddittorio: il nulla, infatti, non è), ma è il niente come relatività. La creatura, nel suo essere relativo, riflette per analogia quell’Essere assoluto da cui proviene e verso cui tende.

Ritroviamo qui espressa la grande tradizione neoplatonica che ha nel Peryphyseon di Giovanni Scoto Eriugena il precursore. Nel pensiero di Scoto Eriugena, la creazione non è un atto esterno di Dio, ma un processo di auto-manifestazione divina, una teofania in cui Dio si crea in tutte le cose che crea. Potremmo dire, creando Dio si definisce e quindi l’Essere si determina. Questo processo, centrale nel Periphyseon, riflette una visione neoplatonica in cui Dio, pur restando totalmente trascendente, si esplica immanentemente nel cosmo. La creazione è così vista come una “divina apparizione”, non come un’azione su qualcosa di esterno, ma come la rivelazione progressiva della realtà divina stessa, che da invisibile e superessenziale si rende visibile e conoscibile nelle creature.

Dio non opera su una materia preesistente né crea ex nihilo in senso classico, bensì da quel “nulla” che è la sua stessa superessenzialità, la quale, in quanto superiore a ogni essere, è detta “nulla per eminenza”. L’atto creativo è quindi un movimento da questa sovraessenza verso l’essenza, una discesa o kenosi, che non comporta una perdita ma una moltiplicazione dell’essere nella varietà delle creature. Ogni cosa creata è perciò una manifestazione sensibile o intelligibile della bontà divina, che diventa “tutto in tutto”. «L’invisibile si rende visibile, l’incomprensibile comprensibile, l’occulto palese, l’ignoto conosciuto, ciò che è privo di forma e di specie si dota di forma e specie, il superessenziale si fa essenziale, il soprannaturale naturale, il semplice composto, ciò che è libero dagli accidenti si assoggetta agli accidenti e si fa accidentale, l’infinito finito, l’incircoscritto circoscritto, il sovratemporale temporale, il sovralocale locale, ciò che crea tutte le cose creato in tutte, il fattore di tutte le cose in tutte fatto, l’eterno inizia a essere, l’immobile si muove in tutte le cose e diventa tutto in tutto»[2].

La causalità divina non è lineare o esterna, ma coincide con la volontà e l’essere di Dio stesso: volere ed essere sono un’unica realtà. Dio crea tutte le cose in sé stesso, e in esse crea sé stesso. In questo senso, la creazione è eterna, non un evento temporale, ma una verità ontologica: Dio è “sempre eterno, sempre fatto”. Le creature sono quindi segni, simboli e luci che rimandano a Dio; anche le più umili realtà del mondo sensibile rivelano, per chi le osserva con la mente aperta, l’infinita sapienza e bellezza del Creatore. L’universo diventa così una teofania universale, un continuo manifestarsi del Dio nascosto.

Nel pensare il rapporto tra Dio e la creatura, si è sempre oscillato tra due poli: quello dell’identità assoluta e quello della differenza radicale. Possiamo paragonare “Dio” al numero 10 e la creatura all’operazione 5×2. Ciò che è creato (5×2) è (=) l’essere divino (10). C’è identità ontologica tra Dio e la creatura.

La tradizione non-duale, comune a scuole come l’Advaita Vedānta e alcune correnti della mistica cristiana, riconosce questa identità ontologica ma ciò non significa dissolvere la differenza/distacco tra Dio e creatura. La creatura non è “altro” da Dio, ma Dio stesso che si dà nella molteplicità. La goccia (5×2) e l’oceano (10) sono identici nell’essenza ma differiscono nella forma o nel modo: assoluto il 10 e relativo il 5×2.

Perché la differenza tra il Creatore e la creatura fosse affermata come “reale” e non “apparente”, la metafisica classica occidentale, e in particolare quella teistica cristiana, ha voluto negare l’identità ontologica, tra Dio e la creatura. In questa prospettiva, l’essere di Dio è totalmente altro da quello della creatura. La creatura non è Dio, ma gli è simile, ne riflette l’essere come un’immagine riflette la luce, senza essere la luce stessa. Dio è l’essere per essenza, la creatura è un essere per partecipazione. Ciò non implica separazione totale, ma relazione: la creatura tende a Dio perché è da Lui fondata, ed è proprio nella sua finitezza che manifesta l’eco dell’infinito.

A questa alternativa si può rispondere, dicendo che dal punto di vista dell’essere, si può dire che non vi è altra realtà che l’Essere stesso (di Dio), che tutto ciò che è partecipa di quel principio primo e infinito. Ma dal punto di vista della forma o del modo, della manifestazione, della coscienza individuale, Dio e la creatura sono distinti, come lo sono la fonte (10 – il Dio) e il ruscello (5×2 – Dio o divino) che da essa scorre. Pensare questa duplicità come un’unità dinamica, piuttosto che come una contraddizione logica, è forse il compito più alto del pensiero metafisico.

Il ruscello è ciò che Padre Barzaghi identifica con l’exemplar, «la stessa essenza di Dio, dell’Assoluto. L’essenza dell’Assoluto comprende in sé tutte le possibili similitudini di questa essenza. La totalità delle determinazioni similitudinarie dell’essenza di Dio o dell’Assoluto è appunto l’immutabilità di tutti gli eterni. Le cose reali, concrete, individuali, sono proprio queste similitudini. La creazione è la pura relazione di dipendenza e non la produzione come mutamento»[3]

Ritroviamo la distinzione – ben sottolineata da Origene nel suo Commento al Vangelo di Giovanni – tra ho theós («il Dio») che indica il Padre, l’Origine di tutto, e theós («Dio») designa il Figlio, il Logos coeterno al Padre. Potrebbe sembrare una semplice sottigliezza grammaticale, ma l’uso dell’articolo ha profonde implicazioni teologiche: consente infatti di distinguere le due Persone della Trinità senza compromettere l’unicità di Dio. Il Logos – theòs – è della stessa sostanza del Padre che è la fonte. Tuttavia, il Logos non è separato dai suoi logoi. Il “Logos-logoi” sono un tutt’uno. Si tratta del rapporto di eminenza.

Il “Logos-logoi” mantiene l’unità in senso eminente, indicando che il Logos trascende i logoi e li ingloba anche in sé. È un’unità di identità. Omnis determinatio est negatio. Ogni logos è definito dalla sua connessione intrinseca con tutti gli altri logoi. Questa intricata e complessa relazione è contemporaneamente negata e racchiusa (in tedesco: aufgehoben) nel Logos trascendente (negatio negationis) e unifica questi logoi – senza sussumere il carattere negativo della loro individualità – in un’unica identità trascendente. Essendo un positum l’essenza della loro individualità, persiste attraverso e nella assoluta positività del Logos. Il Logos esprime ogni logos in un modo distinto e particolare, caratterizzato non semplicemente dalla dialettica identità-differenza, ma dal contesto relazionale che li collega. Ciò che rende questo “essere” questo e non quello, non è tanto la differenza-identità, ma radicalmente la relatività che definisce il Logos come légein, cioè legare, relazionarsi. I logoi sono tra loro distinti in virtù dell’atto di relazionarsi del Logos. Questo atto di relazionarsi è la creatività del Logos.

Tutto è in tutto così come l’inferiore è “nel” superiore per eccellenza e il superiore è nell’inferiore per partecipazione[4]. Come il 5 è “nel” 10 così il creato è “in” Dio. È il principio che Anassagora formula così: «Tutto in tutto e ogni cosa in ogni cosa» (Diels-Kranz, fr. 3). La Lettera ai Colossesi (3,11) dice «Cristo è tutto in tutti» e la prima Lettera ai Corinzi (15, 28): «Dio sarà tutto in tutti». L’eterno detto con molti nomi.


[1] Cfr. Un monaco d’Occidente, Advaita-vada e cristianesimo, Il Leone Verde,Torino 2023, 46.

[2] Giovanni Scoto Eriugena, Peryphyseon, III, 678BD; trad. cit., III, 2014, p. 153

[3] G. Barzaghi, Dialettica. Dire Dio attraverso il mondo e dire il mondo attraverso Dio, in  «Divus Thomas», Vol. 121, No. 1 (2018 – gennaio/aprile), pp. 15-32, ivi 20.

[4] Cfr. G. Barzaghi, Dialettica, 22.

Mihi Magna Quaestio

Nel corso degli ultimi decenni, la scienza ha profondamente modificato la nostra comprensione della realtà, alterando non soltanto i paradigmi della conoscenza, ma anche le modalità con cui pensiamo, sentiamo e interpretiamo noi stessi. Le teorie della relatività e della meccanica quantistica hanno incrinato le certezze positivistiche del XIX secolo, favorendo l’emergere di un nuovo paradigma: una soggettività poliedrica, instabile, interconnessa. L’io moderno non è più un centro solido, ma un nodo relazionale che partecipa a un mondo strutturalmente complesso.

1. La scienza e la nuova visione del mondo

Le recenti scoperte cosmologiche e fisiche hanno ampliato e, insieme, destabilizzato la nostra collocazione nell’universo. La consapevolezza che circa il 95% del cosmo sia costituito da entità ignote – materia ed energia oscura – e l’identificazione del ruolo del bosone di Higgs, che conferisce massa alle particelle, configurano una realtà ontologicamente fragile, dove anche ciò che appare solido è il risultato di un equilibrio dinamico e precario. Di fronte a questa visione, si impone la necessità di prepararsi attivamente alle trasformazioni scientifico-tecnologiche in atto, per poterle governare e non semplicemente subirne gli effetti.

Non è un fenomeno inedito: la scienza, nel suo lungo percorso storico, ha sempre trasformato la visione del mondo. Tuttavia, l’attuale fase segna una svolta particolarmente radicale, poiché mette in discussione non solo i contenuti della realtà, ma le modalità stesse della sua conoscenza. Le teorie contemporanee suggeriscono che non esista più un universo costituito da particelle che si muovono nello spazio-tempo come elementi autonomi. Piuttosto, ci troviamo in un mondo fatto di relazioni, in cui spazio e tempo non sono sfondi fissi, ma entità fluide, emergenti e dinamiche. In questo scenario, l’osservatore non è più esterno al sistema osservato: è parte integrante del fenomeno. Scompare così la distinzione netta tra soggetto e oggetto che aveva caratterizzato l’epistemologia classica.

Di conseguenza, la scienza contemporanea non abolisce il concetto di significato, ma ne riformula le basi. I valori, l’etica e la conoscenza non sono più fondati su presunti assoluti, ma nemmeno risultano arbitrari: sono storicamente situati, radicati nel vissuto umano, e relativi alla nostra condizione incarnata nel mondo. Conoscere non significa più dominare dall’esterno, ma riconoscere la propria posizione limitata all’interno di una rete di relazioni che include il conoscente stesso.

Questa presa di coscienza conduce a un duplice movimento: da un lato, impone un esercizio di umiltà epistemica, poiché siamo chiamati a riconoscere la marginalità del nostro posto nell’universo e l’eventuale spiegabilità scientifica – neurofisiologica – di processi mentali che un tempo si pensavano esclusivi e irriducibili. Dall’altro, restituisce uno sguardo di meraviglia sul reale: nei meccanismi cellulari, nella formazione dell’embrione, nella straordinaria organizzazione del codice genetico, emergono strutture e processi che, pur privi di trascendenza, rivelano un ordine quasi “magico” nella loro complessità. Non vi è nulla di soprannaturale, ma l’ordinario stesso si manifesta come oggetto di stupore. In tale prospettiva, si può ipotizzare – in senso filosofico e simbolico – che se esiste un principio trascendente, esso si dia come “matematico”, non storico: non interventista, ma intrinsecamente strutturale.

La matematica, tuttavia, pur essendo uno strumento potentissimo e irrinunciabile per descrivere la realtà fisica, non è la realtà stessa. Essa costituisce una grammatica del mondo, non il mondo in sé. L’errore sarebbe quello di confondere il modello con la realtà che intende rappresentare.

In questa cornice concettuale, anche il dibattito sul libero arbitrio acquista nuove sfumature. Sebbene la forma classica della libertà – intesa come capacità assoluta di scelta – sia difficilmente sostenibile alla luce delle neuroscienze e della fisica, ciò non implica che la soggettività sia illusoria. Potremmo interpretare mente e cervello come due prospettive di uno stesso processo, riconducibili a una realtà comune: un monismo relazionale in cui la libertà si configura non come indeterminazione metafisica, ma come forma complessa e situata di relazione dinamica tra livelli di realtà.

In conclusione, la scienza contemporanea non ci consegna risposte definitive, ma ci invita a ripensare radicalmente le nostre categorie, adottando un atteggiamento epistemologicamente sobrio, ontologicamente relazionale e eticamente responsabile. La sua lezione più profonda non sta nell’accumulo di certezze, ma nell’apertura consapevole verso l’ignoto.

2. La natura delle cose

Gli esseri umani si sono evoluti per creare una rappresentazione del mondo utile alla sopravvivenza, non necessariamente una rappresentazione fedele della realtà in sé. Infatti, una percezione completamente oggettiva non sarebbe vantaggiosa per la sopravvivenza. Per questo distinguiamo tra esattezza e verità: percepiamo in modo funzionale, non necessariamente veritiero. Le apparenze non sono la realtà, e non esiste alcuna ragione perché lo siano davvero. Perciò, è saggio prendere la realtà sul serio, ma non alla lettera.

Il solipsismo viene spesso frainteso e confuso con l’idealismo e la non-dualità, ossia con l’idea che nulla esista al di fuori della propria mente individuale. In realtà, è il materialismo a somigliare di più al solipsismo, affermando che tutto ciò che conosciamo avviene all’interno del nostro cervello chiuso nel cranio.

Al contrario, idealismo e non-dualità suggeriscono che tutto si manifesta all’interno di una coscienza universale. Il mondo non esiste nella mente personale, ma nella coscienza come principio universale. Quindi, tutto avviene nella coscienza, ma non tutto accade nella nostra coscienza individuale.

Per chiarire, immaginiamo la situazione di Paolo che sogna di essere Giovanni a New York. Dal punto di vista di Giovanni, ciò che percepisce sembra esterno, ma al risveglio Paolo riconosce che tutto apparteneva alla sua stessa mente: il sogno e il sognatore sono attività di un unico campo di coscienza. Allo stesso modo, noi siamo prospettive finite all’interno di una coscienza infinita che pensa l’universo.

Un’altra metafora utile è quella del vortice in un fiume. Il vortice sembra un’entità distinta, ma in realtà è soltanto una forma dell’acqua. Non si può separare il vortice dal fiume. Analogamente, il corpo e il cervello sono il modo in cui una localizzazione della coscienza appare vista dall’esterno: non sono ciò che la genera.

La coscienza è ciò con cui ogni esperienza è conosciuta, il luogo in cui ogni cosa appare e la sostanza di cui tutto è fatto. È la condizione che permette percezione di colori, suoni, emozioni. Non è spiegabile con altro: è il fondamento ultimo. Non è una cosa, ma la cornice che rende possibili le cose. Se proprio si vuole trovare un’analogia, lo spazio vuoto è forse la meno inadeguata: non è una cosa, ma lo sfondo in cui le esperienze si manifestano.

In modo sorprendente, è il materialismo che si avvicina al solipsismo. Secondo questa visione, tutto ciò che percepiamo – colori, suoni, sensazioni – è generato dal cervello. Guardando una stella, in realtà si starebbe osservando qualcosa che avviene nel proprio cranio. Il cielo che vediamo è una costruzione interna, e anche il nostro cranio, riflesso allo specchio, sarebbe una rappresentazione prodotta dalla mente. Il vero cervello, secondo il materialismo, sarebbe solo un’astrazione priva di qualità.

In questa prospettiva, la realtà esterna non ha qualità sensibili, solo grandezze fisiche come massa, carica, frequenza. Nessuno conosce il meccanismo – nemmeno in teoria – con cui queste quantità fisiche darebbero origine all’esperienza soggettiva: è il cosiddetto “hard problem” della coscienza.

L’unica certezza che abbiamo è l’esperienza, o meglio: il conoscere dell’esperienza. Non il suono in sé, ma il fatto di conoscerlo; non la visione, ma il conoscere quella visione. Questo conoscere, la coscienza, è l’unica certezza assoluta. Tutto il resto che ipotizziamo al di fuori di essa è una costruzione teorica e, se mai venisse sperimentata, sarebbe comunque conosciuta.

Perché allora non partire dalla coscienza stessa, da ciò che è direttamente dato, per costruire un modello del mondo? Perché introdurre il concetto di una materia “là fuori”, priva di qualità, che dovrebbe produrre la coscienza? Si tratta di un passaggio logico ingiustificato.

Tutto ciò che esiste, è coscienza. Ciò che percepiamo, viene astratto dalla coscienza e reso un oggetto, diventando così “materia” e “mente”. È ora di uscire dalla cabina in cui astraiamo da ciò che immediatamente dato: l’esperienza stessa. Dobbiamo tornare alle origini e partire da ciò che conosciamo con certezza: la coscienza.

3. Chi sono?

La questione dell’identità personale rappresenta una delle sfide più profonde della riflessione antropologica, tanto sul piano filosofico quanto su quello teologico. L’interrogativo radicale «Chi sono io?» accompagna l’essere umano lungo tutto il suo percorso esistenziale, attraversando epoche, culture e tradizioni spirituali. Nella cultura contemporanea, caratterizzata da un forte individualismo e da una crescente instabilità dei riferimenti identitari, tale domanda si carica di una particolare urgenza.

L’antropologia moderna tende a definire l’identità dell’individuo secondo categorie funzionali e relazionali: l’essere umano si percepisce in base a ciò che fa, a ciò che possiede o al riconoscimento sociale di cui gode. Questa triplice riduzione—l’identificazione con il fare, con l’avere e con l’apparire—costituisce una delle principali radici della fragilità psicologica e della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo. La teologia cristiana riconosce in tali dinamiche una vera e propria distorsione dell’identità originaria dell’uomo, identificandola come una delle più subdole strategie della menzogna antropologica.

Il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto (Mt 4,1-11) offre una chiave ermeneutica privilegiata per comprendere questa dinamica. Le tre tentazioni—potere, fama e autosufficienza materiale—rappresentano simbolicamente le tre grandi illusioni identitarie in cui l’essere umano rischia di perdersi. La risposta di Cristo a queste suggestioni demoniche si radica nella certezza della propria identità ricevuta dal Padre: «Tu sei il mio Figlio amato, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Tale proclamazione, antecedente a ogni azione o merito personale, costituisce il fondamento ontologico della persona di Gesù e, per analogia, di ogni essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio. Infatti, noi condividiamo con Gesù la stessa natura umana.

L’antropologia teologica, in questa prospettiva, afferma che ogni essere umano è, nella sua verità più profonda, figlio o figlia amata di Dio, indipendentemente dai successi o dai fallimenti, dalle approvazioni o dalle condanne sociali, dai possedimenti o dalle privazioni materiali. Questa identità ontologica precede ogni costruzione culturale e ogni dinamica relazionale: è un dato originario, inscritto nell’essere stesso della persona, come espresso nella Scrittura: «Ti ho amato di un amore eterno» (Ger 31,3); «Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,16).

Tuttavia, il riconoscimento esistenziale di questa verità non è immediato né scontato. L’essere umano, ferito nel cuore dalla fragilità delle relazioni umane e dalla propria inclinazione al peccato, necessita di un processo di purificazione interiore – direi di un lavoro spirituale interiore – per riscoprire e integrare la propria vera identità. Questo richiede un lavoro profondo sull’interiorità, il luogo delle decisioni più autentiche, ma anche delle lotte e delle ferite interiori. Agostino invita a “ritornare al cuore”, perché lì troviamo le tracce di Dio e del suo amore.

Anche se può far paura confrontarsi con le proprie ferite, è proprio da esse che può nascere la capacità di accompagnare chi soffre. Senza vita interiore, non esiste vera vita spirituale. Conoscere Dio è conoscere se stessi. Ascoltare Dio significa – quindi – saper ascoltare se stessi. Dio ci parla nel cuore e non possiamo non ascoltarlo senza imparare ad ascoltare noi stessi. Parte di questo cammino è imparare a riconoscere i movimenti profondi del cuore, andando oltre le emozioni superficiali per ascoltare i sentimenti veri, che orientano la nostra vita e ci rendono autentici.

La via privilegiata per questo percorso interiore è l’orazione, in particolare l’orazione di quiete che ci restituisce il valore del silenzio e della solitudine, indispensabili per incontrare Dio e conoscere davvero noi stessi. È nell’interiorità che si apre un interessante dialogo tra la tradizione cristiana e la filosofia neoplatonica, in particolare il pensiero di Plotino.

Nel cuore della riflessione plotiniana, si trova infatti un invito altrettanto radicale alla trasformazione interiore. Secondo Plotino, l’uomo, nella sua condizione originaria, è assimilabile a una statua grezza, ancora coperta di impurità e segnata da forme distorte e ombre che ne oscurano la vera natura. Per accedere alla contemplazione della Bellezza autentica e alla conoscenza del Bene supremo, è necessaria una rigorosa opera di “scolpitura dell’anima”.

Plotino utilizza un’immagine fortemente evocativa: così come lo scultore rimuove dal marmo tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto e leviga ciò che è opaco, allo stesso modo l’essere umano è chiamato a eliminare ogni inclinazione disordinata, ogni oscurità morale, ogni forma di attaccamento che lo separa dalla sua verità profonda. In questa prospettiva, la virtù non è soltanto una disposizione etica, ma una vera e propria pratica di purificazione spirituale, finalizzata a restituire all’anima la sua originaria luminosità.

Plotino distingue chiaramente due livelli di accesso alla verità: il primo è quello discorsivo, mediato dal linguaggio, fatto di immagini e analogie; il secondo è quello esperienziale, che richiede un autentico cammino di ascesi morale, disciplina interiore e distacco dalle illusioni sensibili. Solo chi percorre questa via di trasformazione può giungere alla conoscenza diretta dell’Intelletto e, in ultima istanza, all’unione con l’Uno, il principio trascendente da cui tutto deriva.

Questa unione non rappresenta una semplice acquisizione concettuale, ma una vera e propria esperienza trasformativa, un’esplosione dell’Io individuale nella totalità dell’Essere. Plotino descrive così questa metamorfosi: «Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l’Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 10, 12).

L’analogia tra il percorso di purificazione plotiniano e l’itinerario spirituale cristiano è evidente, pur nelle profonde differenze teologiche. Anche nella prospettiva cristiana, la riscoperta della propria identità di “amato di Dio” richiede un lavoro continuo di conversione interiore, di purificazione dalle false immagini di sé, dalle aspettative mondane e dalle dipendenze affettive disordinate.

Ogni esperienza di rifiuto, sofferenza o delusione può diventare un momento di potatura spirituale, come suggerisce la metafora evangelica della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), orientata a far emergere la verità più profonda dell’essere umano. Solo chi accetta questo processo di trasformazione può giungere a vivere nella piena libertà dei figli di Dio, liberandosi dal bisogno compulsivo di approvazione, successo e possesso.

In ultima analisi, sia la metafisica plotiniana sia l’antropologia teologica cristiana convergono su un punto essenziale: l’identità più autentica dell’essere umano si scopre solo attraverso un processo di spoliazione, di purificazione e di riappropriazione della propria origine. Nell’una come nell’altra prospettiva, il fine ultimo è l’unione con il Principio: per il cristiano, questa unione si realizza nella comunione filiale con Dio, attraverso Cristo, nel dinamismo dello Spirito Santo.

A una prima vista, tuttavia, sembrerebbe che la prospettiva cristiana dell’interiorità conduca ad un “Tu”, quello di Cristo che mi ama, mentre la prospettiva plotiniana ad un “io” che è la natura divina che mi fa essere quello che sono. Secondo la fede cristiana, il Principio è certamente un “Tu” e non un “Io”. «In Principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Chi è il Verbo che è “in principio” ed è “presso Dio”? Il Verbo non è Qualcuno ma è l’essere-orientati-a-Dio, all’originario Silenzio, che è né Qualcosa, né Qualcuno. Trans-personale. Essere ascoltati da chi – non comprendendolo – mi comprende, silenziosamente mi fonda.

«Se Dio non fosse un io, come potrei essere io stesso un io? In fondo al mio io, alla radice, c’è l’Io di Dio. E dunque, se Dio è io, io sono il tu che egli si dice, che egli mi dice» (H. Le Saux, Diario spirituale, p. 432).

Il fondo dell’anima non è né un “io”, né un “tu” ma è la relazione silente in cui amante, amato e amore sono una sola cosa.

L’uomo, pertanto, non è definito da ciò che fa, da ciò che possiede o da ciò che gli altri dicono di lui, ma dalla sua appartenenza ontologica e indissolubile all’Amore originario da cui proviene e verso cui è chiamato a ritornare.

A chi cerca, a chi ascolta, a chi tace

Nel cuore inquieto del secolo,
la scienza ha parlato con voce nuova,
svelando che la realtà
non è più un palazzo solido,
ma un fluire instabile di relazioni.
L’io non è più monarca,
ma orbita nel cosmo come nodo,
tra stelle ignote e particelle senza nome.

Nel 95% del mondo che ci sfugge,
scopriamo la danza dell’oscuro:
materia che non vediamo,
energia che ci sfiora
senza che possiamo toccarla.
Persino ciò che sembra fermo
è solo un equilibrio tremante,
una tregua tra caos e forma.

Non esistiamo più “fuori” dal mondo:
noi siamo dentro, immersi, parte.
Spazio e tempo si piegano e respirano,
come onde che ci attraversano.
L’osservatore è osservato,
e ogni conoscenza è, in fondo,
una confessione d’amore al mistero.

La verità non vive nei dogmi,
ma nel riconoscere la nostra posizione,
piccola e preziosa,
nel grande reticolo dell’essere.
I valori non sono assoluti,
ma neppure vani:
sono radici vive nella carne della storia.

E se la scienza ci chiede umiltà,
ci dona anche stupore.
Nell’embrione che cresce,
nel codice che si scrive da sé,
vediamo l’incanto dell’ordinario,
l’armonia nascosta nella ripetizione.
Nulla è miracoloso,
ma tutto è degno di meraviglia.

Forse Dio non è un pastore di storie,
ma un’architettura che si lascia intuire:
un numero che respira,
una formula silenziosa,
un’intelligenza che non interviene,
ma sostiene.

E la coscienza?
Non è un effetto, ma la fonte.
Non è qualcosa nel mondo,
ma ciò in cui il mondo accade.
Come lo spazio vuoto che accoglie ogni forma,
essa è la culla di tutto ciò che appare,
l’eco in cui il suono diventa ascolto.

Chi siamo, dunque?

Non l’immagine riflessa,
non il ruolo, né l’oggetto posseduto,
ma un’origine dimenticata,
una parola scritta sulla pelle dell’essere.
Siamo vortici d’acqua
che si credono separati dal fiume,
mentre tutto scorre nella stessa corrente.

La coscienza è il sogno
e il sognatore insieme:
Paolo che sogna Giovanni,
e al risveglio capisce che era sempre lui.
Così siamo:
frammenti di una mente infinita
che pensa il mondo attraverso i nostri occhi.

E la risposta, infine,
non è un concetto, ma una comunione.
Nel cuore, dice Agostino,
risuonano le orme di Dio.
Nel silenzio profondo,
l’identità non è “io” o “tu”,
ma un amore che abbraccia entrambi.
Scolpiti come statue da uno scultore invisibile,
siamo chiamati a rivelare
ciò che già eravamo:
figli, non del tempo,
ma dell’eterno.

La natura delle cose

Percezione e realtà

Gli esseri umani si sono evoluti per creare una rappresentazione del mondo utile alla sopravvivenza, non necessariamente una rappresentazione fedele della realtà in sé. Infatti, una percezione completamente oggettiva non sarebbe vantaggiosa per la sopravvivenza. Per questo distinguiamo tra esattezza e verità: percepiamo in modo funzionale, non necessariamente veritiero. Le apparenze non sono la realtà, e non esiste alcuna ragione perché lo siano davvero. Perciò, è saggio prendere la realtà sul serio, ma non alla lettera.

Solipsismo, idealismo e non-dualità

Il solipsismo viene spesso frainteso e confuso con l’idealismo e la non-dualità, ossia con l’idea che nulla esista al di fuori della propria mente individuale. In realtà, è il materialismo a somigliare di più al solipsismo, affermando che tutto ciò che conosciamo avviene all’interno del nostro cervello chiuso nel cranio.

Al contrario, idealismo e non-dualità suggeriscono che tutto si manifesta all’interno di una coscienza universale. Il mondo non esiste nella mente personale, ma nella coscienza come principio universale. Quindi, tutto avviene nella coscienza, ma non tutto accade nella nostra coscienza individuale.

Metafore: il sogno e il vortice

Per chiarire, immaginiamo la situazione di Paolo che sogna di essere Giovanni a New York. Dal punto di vista di Giovanni, ciò che percepisce sembra esterno, ma al risveglio Paolo riconosce che tutto apparteneva alla sua stessa mente: il sogno e il sognatore sono attività di un unico campo di coscienza. Allo stesso modo, noi siamo prospettive finite all’interno di una coscienza infinita che pensa l’universo.

Un’altra metafora utile è quella del vortice in un fiume. Il vortice sembra un’entità distinta, ma in realtà è soltanto una forma dell’acqua. Non si può separare il vortice dal fiume. Analogamente, il corpo e il cervello sono il modo in cui una localizzazione della coscienza appare vista dall’esterno: non sono ciò che la genera.

Cos’è la coscienza?

La coscienza è ciò con cui ogni esperienza è conosciuta, il luogo in cui ogni cosa appare e la sostanza di cui tutto è fatto. È la condizione che permette percezione di colori, suoni, emozioni. Non è spiegabile con altro: è il fondamento ultimo. Non è una cosa, ma la cornice che rende possibili le cose. Se proprio si vuole trovare un’analogia, lo spazio vuoto è forse la meno inadeguata: non è una cosa, ma lo sfondo in cui le esperienze si manifestano.

Il materialismo e il paradosso del solipsismo

In modo sorprendente, è il materialismo che si avvicina al solipsismo. Secondo questa visione, tutto ciò che percepiamo – colori, suoni, sensazioni – è generato dal cervello. Guardando una stella, in realtà si starebbe osservando qualcosa che avviene nel proprio cranio. Il cielo che vediamo è una costruzione interna, e anche il nostro cranio, riflesso allo specchio, sarebbe una rappresentazione prodotta dalla mente. Il vero cervello, secondo il materialismo, sarebbe solo un’astrazione priva di qualità.

In questa prospettiva, la realtà esterna non ha qualità sensibili, solo grandezze fisiche come massa, carica, frequenza. Nessuno conosce il meccanismo – nemmeno in teoria – con cui queste quantità fisiche darebbero origine all’esperienza soggettiva: è il cosiddetto “hard problem” della coscienza.

Il nodo centrale

L’unica certezza che abbiamo è l’esperienza, o meglio: il conoscere dell’esperienza. Non il suono in sé, ma il fatto di conoscerlo; non la visione, ma il conoscere quella visione. Questo conoscere, la coscienza, è l’unica certezza assoluta. Tutto il resto che ipotizziamo al di fuori di essa è una costruzione teorica e, se mai venisse sperimentata, sarebbe comunque conosciuta.

Perché allora non partire dalla coscienza stessa, da ciò che è direttamente dato, per costruire un modello del mondo? Perché introdurre il concetto di una materia “là fuori”, priva di qualità, che dovrebbe produrre la coscienza? Si tratta di un passaggio logico ingiustificato.

Un invito a ripartire dalla coscienza

Tutto ciò che esiste, è coscienza. Ciò che percepiamo, viene astratto dalla coscienza e reso un oggetto, diventando così “materia” e “mente”. È ora di uscire dalla cabina in cui astraiamo da ciò che immediatamente dato: l’esperienza stessa. Dobbiamo tornare alle origini e partire da ciò che conosciamo con certezza: la coscienza.