Nel corso degli ultimi decenni, la scienza ha profondamente modificato la nostra comprensione della realtà, alterando non soltanto i paradigmi della conoscenza, ma anche le modalità con cui pensiamo, sentiamo e interpretiamo noi stessi. Le teorie della relatività e della meccanica quantistica hanno incrinato le certezze positivistiche del XIX secolo, favorendo l’emergere di un nuovo paradigma: una soggettività poliedrica, instabile, interconnessa. L’io moderno non è più un centro solido, ma un nodo relazionale che partecipa a un mondo strutturalmente complesso.
1. La scienza e la nuova visione del mondo
Le recenti scoperte cosmologiche e fisiche hanno ampliato e, insieme, destabilizzato la nostra collocazione nell’universo. La consapevolezza che circa il 95% del cosmo sia costituito da entità ignote – materia ed energia oscura – e l’identificazione del ruolo del bosone di Higgs, che conferisce massa alle particelle, configurano una realtà ontologicamente fragile, dove anche ciò che appare solido è il risultato di un equilibrio dinamico e precario. Di fronte a questa visione, si impone la necessità di prepararsi attivamente alle trasformazioni scientifico-tecnologiche in atto, per poterle governare e non semplicemente subirne gli effetti.
Non è un fenomeno inedito: la scienza, nel suo lungo percorso storico, ha sempre trasformato la visione del mondo. Tuttavia, l’attuale fase segna una svolta particolarmente radicale, poiché mette in discussione non solo i contenuti della realtà, ma le modalità stesse della sua conoscenza. Le teorie contemporanee suggeriscono che non esista più un universo costituito da particelle che si muovono nello spazio-tempo come elementi autonomi. Piuttosto, ci troviamo in un mondo fatto di relazioni, in cui spazio e tempo non sono sfondi fissi, ma entità fluide, emergenti e dinamiche. In questo scenario, l’osservatore non è più esterno al sistema osservato: è parte integrante del fenomeno. Scompare così la distinzione netta tra soggetto e oggetto che aveva caratterizzato l’epistemologia classica.
Di conseguenza, la scienza contemporanea non abolisce il concetto di significato, ma ne riformula le basi. I valori, l’etica e la conoscenza non sono più fondati su presunti assoluti, ma nemmeno risultano arbitrari: sono storicamente situati, radicati nel vissuto umano, e relativi alla nostra condizione incarnata nel mondo. Conoscere non significa più dominare dall’esterno, ma riconoscere la propria posizione limitata all’interno di una rete di relazioni che include il conoscente stesso.
Questa presa di coscienza conduce a un duplice movimento: da un lato, impone un esercizio di umiltà epistemica, poiché siamo chiamati a riconoscere la marginalità del nostro posto nell’universo e l’eventuale spiegabilità scientifica – neurofisiologica – di processi mentali che un tempo si pensavano esclusivi e irriducibili. Dall’altro, restituisce uno sguardo di meraviglia sul reale: nei meccanismi cellulari, nella formazione dell’embrione, nella straordinaria organizzazione del codice genetico, emergono strutture e processi che, pur privi di trascendenza, rivelano un ordine quasi “magico” nella loro complessità. Non vi è nulla di soprannaturale, ma l’ordinario stesso si manifesta come oggetto di stupore. In tale prospettiva, si può ipotizzare – in senso filosofico e simbolico – che se esiste un principio trascendente, esso si dia come “matematico”, non storico: non interventista, ma intrinsecamente strutturale.
La matematica, tuttavia, pur essendo uno strumento potentissimo e irrinunciabile per descrivere la realtà fisica, non è la realtà stessa. Essa costituisce una grammatica del mondo, non il mondo in sé. L’errore sarebbe quello di confondere il modello con la realtà che intende rappresentare.
In questa cornice concettuale, anche il dibattito sul libero arbitrio acquista nuove sfumature. Sebbene la forma classica della libertà – intesa come capacità assoluta di scelta – sia difficilmente sostenibile alla luce delle neuroscienze e della fisica, ciò non implica che la soggettività sia illusoria. Potremmo interpretare mente e cervello come due prospettive di uno stesso processo, riconducibili a una realtà comune: un monismo relazionale in cui la libertà si configura non come indeterminazione metafisica, ma come forma complessa e situata di relazione dinamica tra livelli di realtà.
In conclusione, la scienza contemporanea non ci consegna risposte definitive, ma ci invita a ripensare radicalmente le nostre categorie, adottando un atteggiamento epistemologicamente sobrio, ontologicamente relazionale e eticamente responsabile. La sua lezione più profonda non sta nell’accumulo di certezze, ma nell’apertura consapevole verso l’ignoto.
2. La natura delle cose
Gli esseri umani si sono evoluti per creare una rappresentazione del mondo utile alla sopravvivenza, non necessariamente una rappresentazione fedele della realtà in sé. Infatti, una percezione completamente oggettiva non sarebbe vantaggiosa per la sopravvivenza. Per questo distinguiamo tra esattezza e verità: percepiamo in modo funzionale, non necessariamente veritiero. Le apparenze non sono la realtà, e non esiste alcuna ragione perché lo siano davvero. Perciò, è saggio prendere la realtà sul serio, ma non alla lettera.
Il solipsismo viene spesso frainteso e confuso con l’idealismo e la non-dualità, ossia con l’idea che nulla esista al di fuori della propria mente individuale. In realtà, è il materialismo a somigliare di più al solipsismo, affermando che tutto ciò che conosciamo avviene all’interno del nostro cervello chiuso nel cranio.
Al contrario, idealismo e non-dualità suggeriscono che tutto si manifesta all’interno di una coscienza universale. Il mondo non esiste nella mente personale, ma nella coscienza come principio universale. Quindi, tutto avviene nella coscienza, ma non tutto accade nella nostra coscienza individuale.
Per chiarire, immaginiamo la situazione di Paolo che sogna di essere Giovanni a New York. Dal punto di vista di Giovanni, ciò che percepisce sembra esterno, ma al risveglio Paolo riconosce che tutto apparteneva alla sua stessa mente: il sogno e il sognatore sono attività di un unico campo di coscienza. Allo stesso modo, noi siamo prospettive finite all’interno di una coscienza infinita che pensa l’universo.
Un’altra metafora utile è quella del vortice in un fiume. Il vortice sembra un’entità distinta, ma in realtà è soltanto una forma dell’acqua. Non si può separare il vortice dal fiume. Analogamente, il corpo e il cervello sono il modo in cui una localizzazione della coscienza appare vista dall’esterno: non sono ciò che la genera.
La coscienza è ciò con cui ogni esperienza è conosciuta, il luogo in cui ogni cosa appare e la sostanza di cui tutto è fatto. È la condizione che permette percezione di colori, suoni, emozioni. Non è spiegabile con altro: è il fondamento ultimo. Non è una cosa, ma la cornice che rende possibili le cose. Se proprio si vuole trovare un’analogia, lo spazio vuoto è forse la meno inadeguata: non è una cosa, ma lo sfondo in cui le esperienze si manifestano.
In modo sorprendente, è il materialismo che si avvicina al solipsismo. Secondo questa visione, tutto ciò che percepiamo – colori, suoni, sensazioni – è generato dal cervello. Guardando una stella, in realtà si starebbe osservando qualcosa che avviene nel proprio cranio. Il cielo che vediamo è una costruzione interna, e anche il nostro cranio, riflesso allo specchio, sarebbe una rappresentazione prodotta dalla mente. Il vero cervello, secondo il materialismo, sarebbe solo un’astrazione priva di qualità.
In questa prospettiva, la realtà esterna non ha qualità sensibili, solo grandezze fisiche come massa, carica, frequenza. Nessuno conosce il meccanismo – nemmeno in teoria – con cui queste quantità fisiche darebbero origine all’esperienza soggettiva: è il cosiddetto “hard problem” della coscienza.
L’unica certezza che abbiamo è l’esperienza, o meglio: il conoscere dell’esperienza. Non il suono in sé, ma il fatto di conoscerlo; non la visione, ma il conoscere quella visione. Questo conoscere, la coscienza, è l’unica certezza assoluta. Tutto il resto che ipotizziamo al di fuori di essa è una costruzione teorica e, se mai venisse sperimentata, sarebbe comunque conosciuta.
Perché allora non partire dalla coscienza stessa, da ciò che è direttamente dato, per costruire un modello del mondo? Perché introdurre il concetto di una materia “là fuori”, priva di qualità, che dovrebbe produrre la coscienza? Si tratta di un passaggio logico ingiustificato.
Tutto ciò che esiste, è coscienza. Ciò che percepiamo, viene astratto dalla coscienza e reso un oggetto, diventando così “materia” e “mente”. È ora di uscire dalla cabina in cui astraiamo da ciò che immediatamente dato: l’esperienza stessa. Dobbiamo tornare alle origini e partire da ciò che conosciamo con certezza: la coscienza.
3. Chi sono?
La questione dell’identità personale rappresenta una delle sfide più profonde della riflessione antropologica, tanto sul piano filosofico quanto su quello teologico. L’interrogativo radicale «Chi sono io?» accompagna l’essere umano lungo tutto il suo percorso esistenziale, attraversando epoche, culture e tradizioni spirituali. Nella cultura contemporanea, caratterizzata da un forte individualismo e da una crescente instabilità dei riferimenti identitari, tale domanda si carica di una particolare urgenza.
L’antropologia moderna tende a definire l’identità dell’individuo secondo categorie funzionali e relazionali: l’essere umano si percepisce in base a ciò che fa, a ciò che possiede o al riconoscimento sociale di cui gode. Questa triplice riduzione—l’identificazione con il fare, con l’avere e con l’apparire—costituisce una delle principali radici della fragilità psicologica e della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo. La teologia cristiana riconosce in tali dinamiche una vera e propria distorsione dell’identità originaria dell’uomo, identificandola come una delle più subdole strategie della menzogna antropologica.
Il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto (Mt 4,1-11) offre una chiave ermeneutica privilegiata per comprendere questa dinamica. Le tre tentazioni—potere, fama e autosufficienza materiale—rappresentano simbolicamente le tre grandi illusioni identitarie in cui l’essere umano rischia di perdersi. La risposta di Cristo a queste suggestioni demoniche si radica nella certezza della propria identità ricevuta dal Padre: «Tu sei il mio Figlio amato, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Tale proclamazione, antecedente a ogni azione o merito personale, costituisce il fondamento ontologico della persona di Gesù e, per analogia, di ogni essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio. Infatti, noi condividiamo con Gesù la stessa natura umana.
L’antropologia teologica, in questa prospettiva, afferma che ogni essere umano è, nella sua verità più profonda, figlio o figlia amata di Dio, indipendentemente dai successi o dai fallimenti, dalle approvazioni o dalle condanne sociali, dai possedimenti o dalle privazioni materiali. Questa identità ontologica precede ogni costruzione culturale e ogni dinamica relazionale: è un dato originario, inscritto nell’essere stesso della persona, come espresso nella Scrittura: «Ti ho amato di un amore eterno» (Ger 31,3); «Ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano» (Is 49,16).
Tuttavia, il riconoscimento esistenziale di questa verità non è immediato né scontato. L’essere umano, ferito nel cuore dalla fragilità delle relazioni umane e dalla propria inclinazione al peccato, necessita di un processo di purificazione interiore – direi di un lavoro spirituale interiore – per riscoprire e integrare la propria vera identità. Questo richiede un lavoro profondo sull’interiorità, il luogo delle decisioni più autentiche, ma anche delle lotte e delle ferite interiori. Agostino invita a “ritornare al cuore”, perché lì troviamo le tracce di Dio e del suo amore.
Anche se può far paura confrontarsi con le proprie ferite, è proprio da esse che può nascere la capacità di accompagnare chi soffre. Senza vita interiore, non esiste vera vita spirituale. Conoscere Dio è conoscere se stessi. Ascoltare Dio significa – quindi – saper ascoltare se stessi. Dio ci parla nel cuore e non possiamo non ascoltarlo senza imparare ad ascoltare noi stessi. Parte di questo cammino è imparare a riconoscere i movimenti profondi del cuore, andando oltre le emozioni superficiali per ascoltare i sentimenti veri, che orientano la nostra vita e ci rendono autentici.
La via privilegiata per questo percorso interiore è l’orazione, in particolare l’orazione di quiete che ci restituisce il valore del silenzio e della solitudine, indispensabili per incontrare Dio e conoscere davvero noi stessi. È nell’interiorità che si apre un interessante dialogo tra la tradizione cristiana e la filosofia neoplatonica, in particolare il pensiero di Plotino.
Nel cuore della riflessione plotiniana, si trova infatti un invito altrettanto radicale alla trasformazione interiore. Secondo Plotino, l’uomo, nella sua condizione originaria, è assimilabile a una statua grezza, ancora coperta di impurità e segnata da forme distorte e ombre che ne oscurano la vera natura. Per accedere alla contemplazione della Bellezza autentica e alla conoscenza del Bene supremo, è necessaria una rigorosa opera di “scolpitura dell’anima”.
Plotino utilizza un’immagine fortemente evocativa: così come lo scultore rimuove dal marmo tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto e leviga ciò che è opaco, allo stesso modo l’essere umano è chiamato a eliminare ogni inclinazione disordinata, ogni oscurità morale, ogni forma di attaccamento che lo separa dalla sua verità profonda. In questa prospettiva, la virtù non è soltanto una disposizione etica, ma una vera e propria pratica di purificazione spirituale, finalizzata a restituire all’anima la sua originaria luminosità.
Plotino distingue chiaramente due livelli di accesso alla verità: il primo è quello discorsivo, mediato dal linguaggio, fatto di immagini e analogie; il secondo è quello esperienziale, che richiede un autentico cammino di ascesi morale, disciplina interiore e distacco dalle illusioni sensibili. Solo chi percorre questa via di trasformazione può giungere alla conoscenza diretta dell’Intelletto e, in ultima istanza, all’unione con l’Uno, il principio trascendente da cui tutto deriva.
Questa unione non rappresenta una semplice acquisizione concettuale, ma una vera e propria esperienza trasformativa, un’esplosione dell’Io individuale nella totalità dell’Essere. Plotino descrive così questa metamorfosi: «Allora il veggente non vede più il suo oggetto, poiché, in quell’istante, non se ne distingue più; non si rappresenta più due cose, ma in qualche modo è diventato altro, non è più se stesso né a se stesso, ma è uno con l’Uno, come il centro di un cerchio coincide con un altro centro» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 10, 12).
L’analogia tra il percorso di purificazione plotiniano e l’itinerario spirituale cristiano è evidente, pur nelle profonde differenze teologiche. Anche nella prospettiva cristiana, la riscoperta della propria identità di “amato di Dio” richiede un lavoro continuo di conversione interiore, di purificazione dalle false immagini di sé, dalle aspettative mondane e dalle dipendenze affettive disordinate.
Ogni esperienza di rifiuto, sofferenza o delusione può diventare un momento di potatura spirituale, come suggerisce la metafora evangelica della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), orientata a far emergere la verità più profonda dell’essere umano. Solo chi accetta questo processo di trasformazione può giungere a vivere nella piena libertà dei figli di Dio, liberandosi dal bisogno compulsivo di approvazione, successo e possesso.
In ultima analisi, sia la metafisica plotiniana sia l’antropologia teologica cristiana convergono su un punto essenziale: l’identità più autentica dell’essere umano si scopre solo attraverso un processo di spoliazione, di purificazione e di riappropriazione della propria origine. Nell’una come nell’altra prospettiva, il fine ultimo è l’unione con il Principio: per il cristiano, questa unione si realizza nella comunione filiale con Dio, attraverso Cristo, nel dinamismo dello Spirito Santo.
A una prima vista, tuttavia, sembrerebbe che la prospettiva cristiana dell’interiorità conduca ad un “Tu”, quello di Cristo che mi ama, mentre la prospettiva plotiniana ad un “io” che è la natura divina che mi fa essere quello che sono. Secondo la fede cristiana, il Principio è certamente un “Tu” e non un “Io”. «In Principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Chi è il Verbo che è “in principio” ed è “presso Dio”? Il Verbo non è Qualcuno ma è l’essere-orientati-a-Dio, all’originario Silenzio, che è né Qualcosa, né Qualcuno. Trans-personale. Essere ascoltati da chi – non comprendendolo – mi comprende, silenziosamente mi fonda.
«Se Dio non fosse un io, come potrei essere io stesso un io? In fondo al mio io, alla radice, c’è l’Io di Dio. E dunque, se Dio è io, io sono il tu che egli si dice, che egli mi dice» (H. Le Saux, Diario spirituale, p. 432).
Il fondo dell’anima non è né un “io”, né un “tu” ma è la relazione silente in cui amante, amato e amore sono una sola cosa.
L’uomo, pertanto, non è definito da ciò che fa, da ciò che possiede o da ciò che gli altri dicono di lui, ma dalla sua appartenenza ontologica e indissolubile all’Amore originario da cui proviene e verso cui è chiamato a ritornare.
A chi cerca, a chi ascolta, a chi tace
Nel cuore inquieto del secolo,
la scienza ha parlato con voce nuova,
svelando che la realtà
non è più un palazzo solido,
ma un fluire instabile di relazioni.
L’io non è più monarca,
ma orbita nel cosmo come nodo,
tra stelle ignote e particelle senza nome.
Nel 95% del mondo che ci sfugge,
scopriamo la danza dell’oscuro:
materia che non vediamo,
energia che ci sfiora
senza che possiamo toccarla.
Persino ciò che sembra fermo
è solo un equilibrio tremante,
una tregua tra caos e forma.
Non esistiamo più “fuori” dal mondo:
noi siamo dentro, immersi, parte.
Spazio e tempo si piegano e respirano,
come onde che ci attraversano.
L’osservatore è osservato,
e ogni conoscenza è, in fondo,
una confessione d’amore al mistero.
La verità non vive nei dogmi,
ma nel riconoscere la nostra posizione,
piccola e preziosa,
nel grande reticolo dell’essere.
I valori non sono assoluti,
ma neppure vani:
sono radici vive nella carne della storia.
E se la scienza ci chiede umiltà,
ci dona anche stupore.
Nell’embrione che cresce,
nel codice che si scrive da sé,
vediamo l’incanto dell’ordinario,
l’armonia nascosta nella ripetizione.
Nulla è miracoloso,
ma tutto è degno di meraviglia.
Forse Dio non è un pastore di storie,
ma un’architettura che si lascia intuire:
un numero che respira,
una formula silenziosa,
un’intelligenza che non interviene,
ma sostiene.
E la coscienza?
Non è un effetto, ma la fonte.
Non è qualcosa nel mondo,
ma ciò in cui il mondo accade.
Come lo spazio vuoto che accoglie ogni forma,
essa è la culla di tutto ciò che appare,
l’eco in cui il suono diventa ascolto.
Chi siamo, dunque?
Non l’immagine riflessa,
non il ruolo, né l’oggetto posseduto,
ma un’origine dimenticata,
una parola scritta sulla pelle dell’essere.
Siamo vortici d’acqua
che si credono separati dal fiume,
mentre tutto scorre nella stessa corrente.
La coscienza è il sogno
e il sognatore insieme:
Paolo che sogna Giovanni,
e al risveglio capisce che era sempre lui.
Così siamo:
frammenti di una mente infinita
che pensa il mondo attraverso i nostri occhi.
E la risposta, infine,
non è un concetto, ma una comunione.
Nel cuore, dice Agostino,
risuonano le orme di Dio.
Nel silenzio profondo,
l’identità non è “io” o “tu”,
ma un amore che abbraccia entrambi.
Scolpiti come statue da uno scultore invisibile,
siamo chiamati a rivelare
ciò che già eravamo:
figli, non del tempo,
ma dell’eterno.