Tra Entanglement e Spiritualità

L’entanglement descrive una correlazione fra sistemi quantistici: due particelle, anche distanti, mostrano proprietà interdipendenti che non possono essere spiegate come se avessero stati separati e indipendenti. In altre parole, la realtà quantistica sembra non essere riducibile a parti isolate, ma funzionare come un tutto.
Alcuni filosofi e interpreti, in ambito panpsichista o monista, hanno visto in questo fenomeno un sostegno all’idea che la realtà ultima sia unitaria, e che la separazione fra mente e materia, o fra Dio e mondo, sia più apparente che reale. Questa intuizione ricorda il pensiero di Spinoza, per il quale esiste una sola sostanza con due attributi fondamentali: pensiero ed estensione.
Anche diverse correnti mistiche, cristiane, sufi o dei Veda, parlano dell’universo come manifestazione di un’unità divina: Dio e mondo non sarebbero due realtà separate, ma un’unica Realtà che si riflette in modi diversi. L’entanglement, pur restando un fenomeno fisico ben definito e non una dimostrazione ontologica, può essere letto simbolicamente come immagine di questa interconnessione radicale. Ciò che appare diviso può avere una radice comune invisibile.
In questo orizzonte si possono distinguere due prospettive complementari. Dal punto di vista interno o soggettivo, la realtà appare come esperienza, coscienza, spirito: è ciò che sente, conosce, ama, pensa, e che le tradizioni hanno spesso identificato con Dio. Dal punto di vista esterno o oggettivo, la realtà appare come fenomeno, estensione, forma, energia, leggi naturali: ciò che si osserva e si misura, il volto del mondo. Questi due modi non sono due cose distinte, ma due facce della stessa medaglia. Come una melodia che può essere colta sia nello spartito scritto, come segni e numeri, sia nell’esperienza viva dell’ascolto, come emozione e significato, così la stessa realtà può essere vista dall’interno come coscienza e dall’esterno come natura.
In questa prospettiva si può dire che Dio rappresenta l’aspetto interiore della realtà, la dimensione di senso, coscienza e spirito, mentre il mondo rappresenta l’aspetto esteriore, ciò che appare nelle forme, nelle leggi fisiche e negli eventi. Si tratta di due linguaggi diversi per dire la stessa realtà, e molti parallelismi nelle tradizioni lo confermano: Spinoza parla di pensiero ed estensione, la mistica cristiana descrive il mondo come manifestazione del divino, il Vedānta distingue tra Brahman come realtà ultima, Ātman come interiorità e Māyā come esteriorità, mentre la fisica moderna mostra nella dualità onda-particella due modi di descrivere lo stesso fenomeno.
L’essere umano vive in sé entrambe le prospettive: da una parte sperimenta interiormente il pensiero, l’amore e la libertà, che sono eco della dimensione divina, dall’altra parte abita un corpo ed è immerso nella natura. In lui Dio e mondo si guardano, e la realtà diventa cosciente di sé.
L’unità che emerge da questo sguardo è quella di un Tutto unico, indiviso, che può essere chiamato Dio, Uno, Natura naturans o Brahman. Visto dall’interno è coscienza, visto dall’esterno è mondo. Entrambe le prospettive sono vere, ma nessuna esaurisce il Tutto. Dio è l’interiorità ultima della realtà, il mondo la sua esteriorità ultima, e l’uomo il punto in cui i due si incontrano e diventano consapevoli l’uno dell’altro.
L’uomo mediazione tra divino e mondano
L’essere umano, nelle grandi tradizioni mistiche e religiose, non è soltanto una creatura fra le altre, ma il punto in cui l’interiorità divina e l’esteriorità del mondo si incontrano. Egli rappresenta il ponte vivente tra due poli che in realtà non sono separati, ma due facce di un’unica realtà. Questa intuizione ha trovato espressione in molte figure simboliche: l’Adam Kadmon della Cabbala, l’Uomo Perfetto di Ibn al-‘Arabī, l’Adamo-Cristo della tradizione cristiana e il Sat-Puruṣa della sapienza vedica.
Nella mistica ebraica, l’Adam Kadmon non è l’uomo storico, ma l’archetipo primordiale. È la prima configurazione della luce divina dopo l’emanazione dall’Infinito (Ein Sof). Lo Zohar lo descrive come l’immagine che contiene tutte le sefirot, i canali attraverso cui l’Infinito si articola nel finito. Adam Kadmon non è quindi un individuo, ma la totalità delle possibilità divine condensata in una forma. L’uomo terreno porta in sé questa scintilla originaria: attraverso la sua coscienza, egli ha la possibilità di riconnettere la molteplicità alla sua radice. Il ruolo mediatore dell’uomo consiste quindi nel custodire dentro di sé l’unità nascosta dietro la diversità delle manifestazioni.
Il grande mistico andaluso Ibn al-‘Arabī (1165-1240) sviluppa la figura dell’“Uomo Perfetto” (al-insān al-kāmil). Secondo lui, Dio desidera essere conosciuto, e per questo crea l’uomo come specchio in cui riflettersi. L’Uomo Perfetto è colui che manifesta in sé tutti i “Nomi Divini”, cioè le qualità attraverso cui Dio si rivela. In lui l’universo intero trova il suo senso, perché egli è al tempo stesso rivolto verso l’Invisibile e verso il mondo visibile. Ibn al-‘Arabī scrive nei Futūḥāt al-Makkiyya: «L’uomo è per Dio come la pupilla dell’occhio: grazie a lui Dio guarda la sua creazione». Qui la mediazione è portata al culmine: senza l’uomo Dio rimarrebbe nascosto, senza Dio l’uomo sarebbe privo di fondamento.
La Bibbia presenta Adamo come il primo uomo, chiamato a custodire la creazione e a vivere in armonia con Dio. Ma la sua caduta spezza il legame, introducendo la divisione e la morte. San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (15,45), chiama Cristo “l’ultimo Adamo”: «Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente; l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita». Cristo è colui che riunisce ciò che era diviso: in lui la natura umana e la natura divina si uniscono senza confondersi. Nel Cristo l’uomo ritrova la sua vocazione originaria, quella di essere mediatore tra Dio e mondo. L’incarnazione mostra che il divino non è estraneo al mondo, ma si fa carne per trasfigurarlo dall’interno.
Nei Veda e nelle Upaniṣad troviamo la figura del Puruṣa cosmico, l’Uomo primordiale. Il celebre Inno del Puruṣa (Ṛg Veda X,90) descrive come dal sacrificio di questo essere originario nascano tutte le cose: «Il Puruṣa è questo tutto, ciò che è stato e ciò che sarà». Il suo corpo diventa il cosmo: dalla sua bocca emergono i brāhmaṇa, dalle sue braccia gli kṣatriya, dalle sue gambe i vaiśya, dai suoi piedi gli śūdra; dalla sua mente nasce la luna, dal suo occhio il sole, dal suo respiro il vento. Il Sat-Puruṣa è la Persona Suprema, che contiene in sé ogni livello dell’esistenza. L’uomo individuale, attraverso la realizzazione spirituale, scopre che il suo Sé (Ātman) è identico a questo Puruṣa universale, riconciliando così l’interno e l’esterno, il microcosmo e il macrocosmo.
In tutte queste tradizioni l’uomo è concepito come microcosmo del macrocosmo, sintesi vivente di Dio e mondo. In lui il divino trova uno specchio e il cosmo una coscienza. La sua mediazione non è un privilegio statico, ma una responsabilità: mantenere aperto il passaggio tra interiorità e esteriorità, tra l’unità e la molteplicità. L’uomo primordiale – Adam Kadmon, al-insān al-kāmil, il Cristo, il Sat-Puruṣa – rappresenta l’archetipo che ricorda all’umanità la sua vocazione più profonda: essere il punto in cui l’unità divina si manifesta nel tempo e nello spazio, e in cui la molteplicità del mondo ritorna all’unità.
Dall’ego all’eco dell’Uno
La realtà ultima è una sola. Essa può essere chiamata Essere, Uno, Dio: non importa il nome, poiché ogni parola rimanda a ciò che è oltre ogni parola. Questa realtà fondamentale, semplice e indivisa, si manifesta tuttavia in due modi, due prospettive che non la dividono, ma ne rivelano la ricchezza.
Il primo modo è l’aspetto esteriore, che si lascia descrivere con il segno dell’addizione. L’addizione 1+1+1+1… ad infinitum mostra l’infinito dispiegarsi della realtà in una molteplicità di enti. Qui l’Uno non scompare, ma si rivela come potenza inesauribile che genera differenze, forme, mondi, eventi. È ciò che la tradizione spinoziana chiamerebbe natura naturata: la totalità delle cose determinate, ciascuna distinta, ciascuna aggiunta all’altra. Guardata da fuori, la realtà si mostra come molteplicità infinita.
Il secondo modo è l’aspetto interiore, che si lascia rappresentare dal segno della moltiplicazione. La moltiplicazione 1×1×1×1… dà sempre 1. Qui si manifesta la verità profonda: qualunque sia il numero degli enti, la loro radice non è mai altra dall’Uno, che resta indiviso in se stesso. La totalità degli esseri è sempre e soltanto l’Essere. Questa è la prospettiva che potremmo chiamare natura naturans: il principio che si dona senza mai moltiplicarsi, la vita unica che sostiene in ogni istante la molteplicità.
Da questa duplice visione nasce anche la duplice possibilità dell’uomo. Vivere secondo l’uomo esteriore significa muoversi nella logica dell’addizione: accumulare, aggiungere, cercare sempre un “di più” per colmare il senso di mancanza. È l’uomo che misura la propria esistenza sulla base delle cose che possiede, delle conquiste esteriori, dei segni numerabili che crede diano consistenza alla sua identità. Ma questa somma non raggiunge mai l’unità, perché resta frammentata nel suo movimento infinito.
Vivere secondo l’uomo interiore significa invece muoversi nella logica della moltiplicazione: ogni atto autentico, ogni gesto di dono, ogni apertura d’amore moltiplica l’Uno e tuttavia non lo divide, ma lo conferma. L’uomo interiore non cerca di aggiungere, ma di manifestare l’unità già presente. È colui che si “dà-per”, che si consegna e si dona, e proprio per questo sperimenta la pienezza: ciò che moltiplica non è dispersione, ma ritorno all’unità originaria.
Non si tratta tuttavia di opporre l’uno all’altro, ma di armonizzarli. L’uomo autentico è colui che sa trasformare l’interiore nell’esteriore e l’esteriore nell’interiore. L’unità dell’Essere non nega la molteplicità degli enti, ma la illumina dal di dentro. La molteplicità degli enti non distrugge l’unità dell’Essere, ma ne rivela l’infinita fecondità.
Così l’uomo, posto tra l’addizione e la moltiplicazione, tra l’accumulo e il dono, tra la molteplicità e l’unità, è chiamato a vivere entrambe le dimensioni come due espressioni di un’unica realtà. L’esteriore senza l’interiore si perde nel frammento, l’interiore senza l’esteriore rimane sterile. Solo l’armonia dei due modi consente all’uomo di partecipare veramente all’Uno che è, e che in ogni cosa si dona a se stesso.
Se l’Essere, l’Uno, Dio, si manifesta in due modi – come molteplicità (addizione: 1+1+1+… → gli enti senza fine) e come unità (moltiplicazione: 1×1×1×… = 1 → l’Uno che permane) – allora l’uomo stesso partecipa a questa duplice manifestazione. Egli è posto tra l’esterno, che accumula e aggiunge, e l’interno, che dona e moltiplica senza perdere l’unità.
Le tradizioni mistiche hanno espresso questa verità attraverso la figura dell’Uomo Primordiale. In tutte le culture spirituali profonde, infatti, si trova l’idea che esista un uomo archetipico, principio e modello di tutta l’umanità, che tiene insieme Dio e mondo. Questo Uomo Primordiale non è un individuo storico in senso stretto, ma il simbolo di ciò che ogni uomo è chiamato a diventare: la realizzazione dell’unità interiore.
Nella Cabbala, l’Adam Kadmon è l’immagine prima in cui l’Infinito si riflette e attraverso cui tutte le cose si manifestano. È l’uomo interiore in forma pura: ogni sefira, ogni canale della luce divina, è contenuto in lui come armonia di unità e molteplicità.
Nel sufismo, Ibn al-‘Arabī parla dell’“Uomo Perfetto” (al-insān al-kāmil) come dello specchio dei Nomi divini. Questo Uomo non accumula, ma riflette; non aggiunge, ma manifesta. È l’uomo che vive secondo la logica della moltiplicazione interiore: ogni attributo divino si moltiplica in lui, eppure resta uno nell’Uno.
Nel cristianesimo, Adamo è il simbolo dell’uomo esteriore che si perde nella molteplicità, mentre Cristo è il Nuovo Adamo, il compimento dell’uomo interiore. Cristo non ha vissuto per aggiungere, ma per donarsi: è “colui che si dà-per”, l’Amore che moltiplica senza dividere. In lui l’uomo interiore è perfettamente realizzato, e diventa ponte di riconciliazione tra Dio e mondo.
Nella tradizione vedica, il Sat-Puruṣa o Puruṣa cosmico è il principio da cui tutto è generato, e al tempo stesso il Sé che permane identico in ogni ente. Anche qui, l’uomo interiore è il riconoscimento che l’Ātman individuale è uno con il Brahman universale: la molteplicità degli enti non annulla, ma rivela l’unità del Sé.
In tutte queste tradizioni l’Uomo Primordiale – che si chiami Adam Kadmon, al-insān al-kāmil, Cristo o Sat-Puruṣa – è simbolo della vittoria dell’uomo interiore sull’uomo esteriore. È la realizzazione di chi non vive più per sommare, possedere e accumulare, ma per moltiplicare l’Uno attraverso il dono, l’amore, la trasparenza. È il volto dell’umanità riconciliata con la propria radice.
Così, l’Uomo Primordiale è l’archetipo di ciò che ogni essere umano è chiamato a diventare: non un frammento disperso nella somma infinita delle cose, ma un’unità viva che, pur nella molteplicità del mondo, resta sempre Uno con l’Essere.







