Non due ma Uno

Tra Entanglement e Spiritualità

L’entanglement descrive una correlazione fra sistemi quantistici: due particelle, anche distanti, mostrano proprietà interdipendenti che non possono essere spiegate come se avessero stati separati e indipendenti. In altre parole, la realtà quantistica sembra non essere riducibile a parti isolate, ma funzionare come un tutto.

Alcuni filosofi e interpreti, in ambito panpsichista o monista, hanno visto in questo fenomeno un sostegno all’idea che la realtà ultima sia unitaria, e che la separazione fra mente e materia, o fra Dio e mondo, sia più apparente che reale. Questa intuizione ricorda il pensiero di Spinoza, per il quale esiste una sola sostanza con due attributi fondamentali: pensiero ed estensione.

Anche diverse correnti mistiche, cristiane, sufi o dei Veda, parlano dell’universo come manifestazione di un’unità divina: Dio e mondo non sarebbero due realtà separate, ma un’unica Realtà che si riflette in modi diversi. L’entanglement, pur restando un fenomeno fisico ben definito e non una dimostrazione ontologica, può essere letto simbolicamente come immagine di questa interconnessione radicale. Ciò che appare diviso può avere una radice comune invisibile.

In questo orizzonte si possono distinguere due prospettive complementari. Dal punto di vista interno o soggettivo, la realtà appare come esperienza, coscienza, spirito: è ciò che sente, conosce, ama, pensa, e che le tradizioni hanno spesso identificato con Dio. Dal punto di vista esterno o oggettivo, la realtà appare come fenomeno, estensione, forma, energia, leggi naturali: ciò che si osserva e si misura, il volto del mondo. Questi due modi non sono due cose distinte, ma due facce della stessa medaglia. Come una melodia che può essere colta sia nello spartito scritto, come segni e numeri, sia nell’esperienza viva dell’ascolto, come emozione e significato, così la stessa realtà può essere vista dall’interno come coscienza e dall’esterno come natura.

In questa prospettiva si può dire che Dio rappresenta l’aspetto interiore della realtà, la dimensione di senso, coscienza e spirito, mentre il mondo rappresenta l’aspetto esteriore, ciò che appare nelle forme, nelle leggi fisiche e negli eventi. Si tratta di due linguaggi diversi per dire la stessa realtà, e molti parallelismi nelle tradizioni lo confermano: Spinoza parla di pensiero ed estensione, la mistica cristiana descrive il mondo come manifestazione del divino, il Vedānta distingue tra Brahman come realtà ultima, Ātman come interiorità e Māyā come esteriorità, mentre la fisica moderna mostra nella dualità onda-particella due modi di descrivere lo stesso fenomeno.

L’essere umano vive in sé entrambe le prospettive: da una parte sperimenta interiormente il pensiero, l’amore e la libertà, che sono eco della dimensione divina, dall’altra parte abita un corpo ed è immerso nella natura. In lui Dio e mondo si guardano, e la realtà diventa cosciente di sé.

L’unità che emerge da questo sguardo è quella di un Tutto unico, indiviso, che può essere chiamato Dio, Uno, Natura naturans o Brahman. Visto dall’interno è coscienza, visto dall’esterno è mondo. Entrambe le prospettive sono vere, ma nessuna esaurisce il Tutto. Dio è l’interiorità ultima della realtà, il mondo la sua esteriorità ultima, e l’uomo il punto in cui i due si incontrano e diventano consapevoli l’uno dell’altro.

L’uomo mediazione tra divino e mondano

L’essere umano, nelle grandi tradizioni mistiche e religiose, non è soltanto una creatura fra le altre, ma il punto in cui l’interiorità divina e l’esteriorità del mondo si incontrano. Egli rappresenta il ponte vivente tra due poli che in realtà non sono separati, ma due facce di un’unica realtà. Questa intuizione ha trovato espressione in molte figure simboliche: l’Adam Kadmon della Cabbala, l’Uomo Perfetto di Ibn al-‘Arabī, l’Adamo-Cristo della tradizione cristiana e il Sat-Puruṣa della sapienza vedica.

Nella mistica ebraica, l’Adam Kadmon non è l’uomo storico, ma l’archetipo primordiale. È la prima configurazione della luce divina dopo l’emanazione dall’Infinito (Ein Sof). Lo Zohar lo descrive come l’immagine che contiene tutte le sefirot, i canali attraverso cui l’Infinito si articola nel finito. Adam Kadmon non è quindi un individuo, ma la totalità delle possibilità divine condensata in una forma. L’uomo terreno porta in sé questa scintilla originaria: attraverso la sua coscienza, egli ha la possibilità di riconnettere la molteplicità alla sua radice. Il ruolo mediatore dell’uomo consiste quindi nel custodire dentro di sé l’unità nascosta dietro la diversità delle manifestazioni.

Il grande mistico andaluso Ibn al-‘Arabī (1165-1240) sviluppa la figura dell’“Uomo Perfetto” (al-insān al-kāmil). Secondo lui, Dio desidera essere conosciuto, e per questo crea l’uomo come specchio in cui riflettersi. L’Uomo Perfetto è colui che manifesta in sé tutti i “Nomi Divini”, cioè le qualità attraverso cui Dio si rivela. In lui l’universo intero trova il suo senso, perché egli è al tempo stesso rivolto verso l’Invisibile e verso il mondo visibile. Ibn al-‘Arabī scrive nei Futūḥāt al-Makkiyya: «L’uomo è per Dio come la pupilla dell’occhio: grazie a lui Dio guarda la sua creazione». Qui la mediazione è portata al culmine: senza l’uomo Dio rimarrebbe nascosto, senza Dio l’uomo sarebbe privo di fondamento.

La Bibbia presenta Adamo come il primo uomo, chiamato a custodire la creazione e a vivere in armonia con Dio. Ma la sua caduta spezza il legame, introducendo la divisione e la morte. San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (15,45), chiama Cristo “l’ultimo Adamo”: «Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente; l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita». Cristo è colui che riunisce ciò che era diviso: in lui la natura umana e la natura divina si uniscono senza confondersi. Nel Cristo l’uomo ritrova la sua vocazione originaria, quella di essere mediatore tra Dio e mondo. L’incarnazione mostra che il divino non è estraneo al mondo, ma si fa carne per trasfigurarlo dall’interno.

Nei Veda e nelle Upaniṣad troviamo la figura del Puruṣa cosmico, l’Uomo primordiale. Il celebre Inno del Puruṣa (Ṛg Veda X,90) descrive come dal sacrificio di questo essere originario nascano tutte le cose: «Il Puruṣa è questo tutto, ciò che è stato e ciò che sarà». Il suo corpo diventa il cosmo: dalla sua bocca emergono i brāhmaṇa, dalle sue braccia gli kṣatriya, dalle sue gambe i vaiśya, dai suoi piedi gli śūdra; dalla sua mente nasce la luna, dal suo occhio il sole, dal suo respiro il vento. Il Sat-Puruṣa è la Persona Suprema, che contiene in sé ogni livello dell’esistenza. L’uomo individuale, attraverso la realizzazione spirituale, scopre che il suo Sé (Ātman) è identico a questo Puruṣa universale, riconciliando così l’interno e l’esterno, il microcosmo e il macrocosmo.

In tutte queste tradizioni l’uomo è concepito come microcosmo del macrocosmo, sintesi vivente di Dio e mondo. In lui il divino trova uno specchio e il cosmo una coscienza. La sua mediazione non è un privilegio statico, ma una responsabilità: mantenere aperto il passaggio tra interiorità e esteriorità, tra l’unità e la molteplicità. L’uomo primordiale – Adam Kadmon, al-insān al-kāmil, il Cristo, il Sat-Puruṣa – rappresenta l’archetipo che ricorda all’umanità la sua vocazione più profonda: essere il punto in cui l’unità divina si manifesta nel tempo e nello spazio, e in cui la molteplicità del mondo ritorna all’unità.

Dall’ego all’eco dell’Uno

La realtà ultima è una sola. Essa può essere chiamata Essere, Uno, Dio: non importa il nome, poiché ogni parola rimanda a ciò che è oltre ogni parola. Questa realtà fondamentale, semplice e indivisa, si manifesta tuttavia in due modi, due prospettive che non la dividono, ma ne rivelano la ricchezza.

Il primo modo è l’aspetto esteriore, che si lascia descrivere con il segno dell’addizione. L’addizione 1+1+1+1… ad infinitum mostra l’infinito dispiegarsi della realtà in una molteplicità di enti. Qui l’Uno non scompare, ma si rivela come potenza inesauribile che genera differenze, forme, mondi, eventi. È ciò che la tradizione spinoziana chiamerebbe natura naturata: la totalità delle cose determinate, ciascuna distinta, ciascuna aggiunta all’altra. Guardata da fuori, la realtà si mostra come molteplicità infinita.

Il secondo modo è l’aspetto interiore, che si lascia rappresentare dal segno della moltiplicazione. La moltiplicazione 1×1×1×1… dà sempre 1. Qui si manifesta la verità profonda: qualunque sia il numero degli enti, la loro radice non è mai altra dall’Uno, che resta indiviso in se stesso. La totalità degli esseri è sempre e soltanto l’Essere. Questa è la prospettiva che potremmo chiamare natura naturans: il principio che si dona senza mai moltiplicarsi, la vita unica che sostiene in ogni istante la molteplicità.

Da questa duplice visione nasce anche la duplice possibilità dell’uomo. Vivere secondo l’uomo esteriore significa muoversi nella logica dell’addizione: accumulare, aggiungere, cercare sempre un “di più” per colmare il senso di mancanza. È l’uomo che misura la propria esistenza sulla base delle cose che possiede, delle conquiste esteriori, dei segni numerabili che crede diano consistenza alla sua identità. Ma questa somma non raggiunge mai l’unità, perché resta frammentata nel suo movimento infinito.

Vivere secondo l’uomo interiore significa invece muoversi nella logica della moltiplicazione: ogni atto autentico, ogni gesto di dono, ogni apertura d’amore moltiplica l’Uno e tuttavia non lo divide, ma lo conferma. L’uomo interiore non cerca di aggiungere, ma di manifestare l’unità già presente. È colui che si “dà-per”, che si consegna e si dona, e proprio per questo sperimenta la pienezza: ciò che moltiplica non è dispersione, ma ritorno all’unità originaria.

Non si tratta tuttavia di opporre l’uno all’altro, ma di armonizzarli. L’uomo autentico è colui che sa trasformare l’interiore nell’esteriore e l’esteriore nell’interiore. L’unità dell’Essere non nega la molteplicità degli enti, ma la illumina dal di dentro. La molteplicità degli enti non distrugge l’unità dell’Essere, ma ne rivela l’infinita fecondità.

Così l’uomo, posto tra l’addizione e la moltiplicazione, tra l’accumulo e il dono, tra la molteplicità e l’unità, è chiamato a vivere entrambe le dimensioni come due espressioni di un’unica realtà. L’esteriore senza l’interiore si perde nel frammento, l’interiore senza l’esteriore rimane sterile. Solo l’armonia dei due modi consente all’uomo di partecipare veramente all’Uno che è, e che in ogni cosa si dona a se stesso.

Se l’Essere, l’Uno, Dio, si manifesta in due modi – come molteplicità (addizione: 1+1+1+… → gli enti senza fine) e come unità (moltiplicazione: 1×1×1×… = 1 → l’Uno che permane) – allora l’uomo stesso partecipa a questa duplice manifestazione. Egli è posto tra l’esterno, che accumula e aggiunge, e l’interno, che dona e moltiplica senza perdere l’unità.

Le tradizioni mistiche hanno espresso questa verità attraverso la figura dell’Uomo Primordiale. In tutte le culture spirituali profonde, infatti, si trova l’idea che esista un uomo archetipico, principio e modello di tutta l’umanità, che tiene insieme Dio e mondo. Questo Uomo Primordiale non è un individuo storico in senso stretto, ma il simbolo di ciò che ogni uomo è chiamato a diventare: la realizzazione dell’unità interiore.

Nella Cabbala, l’Adam Kadmon è l’immagine prima in cui l’Infinito si riflette e attraverso cui tutte le cose si manifestano. È l’uomo interiore in forma pura: ogni sefira, ogni canale della luce divina, è contenuto in lui come armonia di unità e molteplicità.

Nel sufismo, Ibn al-‘Arabī parla dell’“Uomo Perfetto” (al-insān al-kāmil) come dello specchio dei Nomi divini. Questo Uomo non accumula, ma riflette; non aggiunge, ma manifesta. È l’uomo che vive secondo la logica della moltiplicazione interiore: ogni attributo divino si moltiplica in lui, eppure resta uno nell’Uno.

Nel cristianesimo, Adamo è il simbolo dell’uomo esteriore che si perde nella molteplicità, mentre Cristo è il Nuovo Adamo, il compimento dell’uomo interiore. Cristo non ha vissuto per aggiungere, ma per donarsi: è “colui che si dà-per”, l’Amore che moltiplica senza dividere. In lui l’uomo interiore è perfettamente realizzato, e diventa ponte di riconciliazione tra Dio e mondo.

Nella tradizione vedica, il Sat-Puruṣa o Puruṣa cosmico è il principio da cui tutto è generato, e al tempo stesso il Sé che permane identico in ogni ente. Anche qui, l’uomo interiore è il riconoscimento che l’Ātman individuale è uno con il Brahman universale: la molteplicità degli enti non annulla, ma rivela l’unità del Sé.

In tutte queste tradizioni l’Uomo Primordiale – che si chiami Adam Kadmon, al-insān al-kāmil, Cristo o Sat-Puruṣa – è simbolo della vittoria dell’uomo interiore sull’uomo esteriore. È la realizzazione di chi non vive più per sommare, possedere e accumulare, ma per moltiplicare l’Uno attraverso il dono, l’amore, la trasparenza. È il volto dell’umanità riconciliata con la propria radice.

Così, l’Uomo Primordiale è l’archetipo di ciò che ogni essere umano è chiamato a diventare: non un frammento disperso nella somma infinita delle cose, ma un’unità viva che, pur nella molteplicità del mondo, resta sempre Uno con l’Essere.

necessità eccedente

Le parole necessità ed eccedenza hanno entrambe una radice comune. Necessità deriva dal latino necessĭtas, formato da ne- con valore negativo e cedere, “andare, cedere”. Il senso originario era dunque “non potersi sottrarre, non poter andare oltre”, cioè ciò che è inevitabile e obbligatorio. Eccedenza invece viene da excedentia, legato a excedere, “uscire, andare oltre”, dove ex- significa “fuori, oltre” e la radice è sempre cedere. Mentre la prima parola indica un vincolo che trattiene, la seconda indica un movimento che supera e trabocca. In questo modo, pur non essendo parenti dirette, condividono un legame etimologico nel verbo latino cedere, che ha dato origine a due direzioni semantiche divergenti: l’una verso il limite invalicabile, l’altra verso lo sconfinamento.

Se prendiamo le due direzioni che emergono dall’etimologia di necessità ed eccedenza, possiamo provare a trasporle nel rapporto tra essere ed ente, tra Dio e creatura. La necessità, intesa come ciò da cui non si può andare oltre né sottrarsi, rimanda all’ente nella sua dipendenza radicale dall’essere: la creatura non può darsi da sé, non può fondarsi da sola, ma porta in sé il segno di una necessità che la lega al principio da cui proviene. L’eccedenza, invece, parla di ciò che va oltre, di ciò che trabocca: qui possiamo intravedere il tratto dell’essere stesso, che nel pensiero teologico è Dio, non come limite ma come sovrabbondanza. Se la creatura vive nella necessità di ricevere, Dio è l’eccedenza che dona senza misura; se l’ente si trova nel vincolo di non potersi fondare da sé, l’essere si manifesta come eccedenza che continuamente lo sorregge e lo supera. In questo senso, il rapporto tra Dio e creatura può essere letto a partire da una dialettica tra necessità ed eccedenza: la necessità mostra la dipendenza e il legame ontologico, l’eccedenza rivela la libertà e la sovrabbondanza del principio, che non solo è sufficiente a sé, ma eccede sempre ciò che sostiene.

Se leggiamo la relazione tra Dio e creatura secondo il monismo relativo, possiamo rappresentarla simbolicamente con l’equazione x = x + y, dove x è Dio, l’essere, e y è la creatura. In questa prospettiva, la creatura non è un’aggiunta reale a Dio, non lo completa e non lo modifica, perché l’essere divino resta ciò che è, eccedente e autosufficiente. Tuttavia, Dio è in se stesso relazione alla creatura: non perché abbia bisogno di essa per essere, ma perché la sua eccedenza si dà come possibilità di altro da sé. La dialettica tra necessità ed eccedenza illumina questo punto. La relazione tra Dio e creatura è necessaria, dove c’è l’uno c’è anche l’altro, ma la creatura non aggiunge nulla a Dio.  La creatura esiste perché non si fonda da sé e dipende radicalmente dall’essere. Esiste solo nell’eccedenza di Dio, che trabocca senza diminuire, donando senza ricevere nulla in cambio. Così, Dio è panenteisticamente eccedente — contiene e oltrepassa ogni creatura — ma al tempo stesso costituisce la necessità della creatura, che senza di lui non sarebbe nemmeno pensabile. In altri termini, Dio non riceve nulla dall’ente, eppure l’ente è reale solo perché Dio, che non ha bisogno, si comunica come sovrabbondanza.

In Plotino l’Uno è assolutamente autosufficiente, perfetto e indivisibile, eppure trabocca di sé: dal suo stesso essere scaturisce necessariamente l’emanazione, che non aggiunge nulla all’Uno ma segna l’eccedenza della sua pienezza. La necessità qui non è costrizione, ma logica intrinseca dell’abbondanza: l’Uno non può non effondere. Già si intravede il doppio registro che chiamiamo necessità ed eccedenza: la creatura è necessaria perché conseguenza ineludibile della pienezza dell’Uno, ma è eccedente perché non limita, non completa, non aggiunge nulla alla fonte.

In Meister Eckhart ritroviamo una tensione simile: Dio è l’essere stesso, il fons et origo, e la creatura non ha nulla di proprio se non la sua dipendenza. La nascita del Figlio nel fondo dell’anima mostra come Dio sia relazione vivente che si dona all’ente, senza nulla perdere. In lui la necessità della creatura coincide con l’eccedenza della grazia: la creatura è necessaria non perché Dio abbia bisogno, ma perché la sua natura eccedente si dice nell’altro. Dio è tanto necessario da costituire il fondamento di tutto, ma tanto eccedente da restare sempre oltre la creatura.

In Schelling, infine, il rapporto tra Dio e mondo si struttura in termini di libertà e di auto-rivelazione. Dio è assoluto e in sé completo, ma la sua vita è eccedenza che si dispiega in natura e spirito: il mondo non è aggiunta, bensì manifestazione. Qui si chiarisce bene il senso del monismo relativo: x = x + y significa che Dio rimane identico a se stesso anche quando si dà nel molteplice, perché il molteplice è incluso nella sua eccedenza. La creatura è necessaria in quanto momento della rivelazione, ma è eccedenza perché non impoverisce né incrementa Dio: Dio è già sempre più di ciò che appare in essa.

In questo quadro, la dialettica necessità/eccedenza diventa una chiave ermeneutica del rapporto tra Dio e creatura. La creatura è necessaria nella misura in cui dipende in tutto dall’essere, ma questa necessità è fondata nell’eccedenza divina, che si manifesta panenteisticamente come oltrepassamento di ogni limite. In altri termini: Dio non si compie nella creatura, ma la creatura si compie in Dio.

Il mo(n)do di Dio.

Domanda: Si può intendere il rapporto tra generante e generato simile a quello tra pienezza e mancanza?

Nella storia della filosofia alcune tradizioni hanno descritto il rapporto tra generante e generato in termini simili a quello di pienezza e mancanza. Dipende però dal quadro teorico in cui ci muoviamo: in senso platonico (Timeo, Simposio, Fedro) il generato tende a essere mancante rispetto al modello o alla causa da cui deriva. Ciò che genera (Idea, Bene, principio) ha una sorta di pienezza ontologica, mentre il generato partecipa solo imperfettamente, come copia o immagine.

generante : generato = perfetto : imperfetto

In senso aristotelico il rapporto è meno dualistico. Il generato è in potenza ciò che il generante è in atto. Qui si può leggere la potenza come “mancanza” di compiutezza, e l’atto come “pienezza” che realizza quella potenza. Però non è una contrapposizione netta, ma un rapporto dinamico di attualizzazione.

In pensiero neoplatonico e teologico (Plotino, Dionigi Areopagita, ecc.) l’Uno genera per sovrabbondanza di pienezza, non per mancanza. In questo senso il generato non è un vuoto da riempire, ma un effetto inevitabile della sovrabbondanza del principio. L’immagine della mancanza si adatta poco: è più corretto dire che il generato dipende e riceve, ma non necessariamente che sia mancante. In termini più moderni (Hegel, per esempio) la dialettica del generante e del generato può essere vista come una tensione in cui il generato porta con sé una mancanza che lo spinge a ritornare al principio, ma anche come un movimento in cui la pienezza stessa si manifesta attraverso la mancanza. In sintesi, sì, si può pensare al rapporto generante/generato come pienezza/mancanza, ma questa è solo una delle possibili chiavi interpretative. In altri paradigmi, il generato non nasce da mancanza, ma da sovrabbondanza del generante.

La distinzione tra generato dal nulla (creatio ex nihilo) e generato da Dio (generatio de deo)è stata centrale soprattutto nel pensiero cristiano e nel confronto con la filosofia greca. Generato dal nulla significa che qualcosa viene all’essere senza una materia preesistente. Non implica che ci sia “un nulla” che genera, ma che prima non era e poi comincia a essere. È la concezione tipica della creazione del mondo nella teologia giudaico-cristiana: Dio non plasma un materiale eterno (come il demiurgo platonico con la chōra nel Timeo), ma fa esistere ciò che prima non c’era. Qui si sottolinea soprattutto la dipendenza ontologica della creatura: tutto ciò che esiste avrebbe potuto non essere, e il suo essere è radicalmente donato.

Generato da Dio è un linguaggio che si applica soprattutto al rapporto intra-divino o alla creazione intesa come provenienza causale. Il concilio di Nicea ha voluto “decidere” questa distinzione tra creatio ex nihilo e generatio de substantia dei patris (homoousia). Teologicamente, nel cristianesimo, il Figlio è detto generato, non creato (“generato dal Padre prima di tutti i secoli”). Qui la generazione è eterna, non ha un prima e un dopo. Non è dal nulla (ex nihilo), ma dalla stessa sostanza del Padre (de substantia divina).

Quando si dice che il mondo è “generato da Dio”, bisogna chiarire: o si parla in senso creaturale, e allora significa che Dio lo ha creato ex nihilo; o si parla in senso emanazionista (alla Plotino), e allora il generato procede da Dio per sovrabbondanza, senza rottura, come luce che si diffonde dal sole. Nel modello emanazionista, la sostanza divina è ciò da cui proviene e dipende il mondo (ex deo). La distinzione introdotta da Nicea  è dunque essenzialmente questa: dal nulla riguarda l’origine delle creature, che ricevono l’essere senza alcuna materia o principio intrinseco; da Dio può significare l’origine del Figlio e dello Spirito “dalla stessa essenza divina” del Padre. Va tenuto presente che questa origine dal Padre è di “dipendenza”, necessaria e non aggiunge nulla a Dio. Queste tre caratteristiche:

  1. dipendenza
  2. necessaria
  3. non aggiunge nulla

qualificano tanto la generazione intra-divina che quella extra-divina (creatio). Ciò che le differenzia è che la prima (intra-divina) il Figlio è della stessa sostanza del Padre (homoousia), mentre la seconda “non” è della stessa sostanza del Padre.

La decisione di Nicea ha introdotto un’epocale scissione (decisione) tra Dio e mondo. L’uomo Gesù è stato isolato dalle altre creature, per riconoscerne così la sua divinità. Il risultato è che il Dio è stato pensato “senza” la creatura. Questa decisione nicena ha per così dire preparato l’humus per quell’affermazione di Nietzsche in Così parlò Zarathustra, “Le isole beate”, che dice: «se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque, non vi sono dèi». Da Nicea a Nietzsche, il passo è logicamente breve.

Alla domanda perché non si possa dire che il mondo è generato dalla sostanza di Dio, la risposta tradizionale è che se il mondo fosse generato dalla sostanza di Dio, allora il mondo sarebbe Dio stesso o almeno una sua parte. Ciò contraddirebbe la trascendenza, perché Dio non si confonde con la creazione ma ne resta distinto. Implicherebbe una forma di panteismo o di emanazionismo, incompatibile con la fede monoteista classica. Solo il Figlio e lo Spirito sono “dalla sostanza di Dio”. Il mondo è creato ex nihilo per libera volontà, non per necessità naturale. Inoltre, se il mondo fosse dalla sostanza di Dio, questo significherebbe che Dio si divide o che la sua sostanza è comunicabile. Ma la sostanza divina è intesa come semplice, indivisibile, infinita: non può cedere una parte di sé senza corrompersi. Ne segue che il mondo non può avere in comune con Dio la sostanza, ma solo la dipendenza causale.

Queste obiezioni, tuttavia, non reggono, poiché anche per la generazione del Figlio potrebbero essere sollevate. Tuttavia, la teologia post-nicena ha ampiamente risposto.  Il nucleo centrale della questione rimane quello della scissione tra Dio e mondo, decisa a Nicea.

Le visioni emanazioniste come quella neoplatonica, in cui si immagina l’Uno che emana il mondo come luce dal sole, potrebbe essere un’alternativa. L’Uno resta oltre ogni emanato: non si impoverisce, non si divide. La teologia cristiana ha respinto questa immagine perché introduce un processo necessario: Dio non può non generare il mondo. La contingenza del mondo, tuttavia, non è data dal “poter-non-essere” del mondo, in quanto effetto di una decisione libera, non di un trabocco automatico. Ma in Dio non c’è un prima e un dopo – in quanto eterno – . Il poter agire altrimenti non si dà in Dio. La sua libertà coincide con la sua necessità. La contingenza del mondo è da fondare non tanto sul libero arbitrio divino (avrebbe potuto anche non creare il mondo) quanto sulla “dipendenza” del mondo da Dio. Come il Figlio è stato generato dal Padre non per arbitrio (poteva anche non generarlo) e nemmeno per costrizione esterna, ma per sua spontanea volontà (necessità “interna”), così il mondo è stato creato non per necessità esterna e nemmeno per arbitrio divino.

Le obiezioni secondo cui il mondo non è generato dalla sostanza di Dio, perché ciò implicherebbe panteismo, divisione della sostanza divina e una necessità naturale, non reggono. Affermare che il mondo è creato ex nihilo non contraddice che sia stato creato ex Deo. L’idea di creazione ex nihilo implica che il mondo dipende in tutto da Dio ed è sostenuto continuamente da Lui. Così, sebbene la tradizione cristiana sottolinei la differenza infinita tra Dio e mondo, si può anche dire in un certo senso che la creazione è ex Deo, senza cadere nel panteismo, intendendo con questo che tutta l’essenza della creatura è da Dio “ex Deo essentia”, ma non “ex essentia Dei” (Tommaso d’Aquino, Summma theologiae, I, q. 41, art. 2, ad secundum).

C’è da chiedersi: affermare che il mondo esiste “ex essentia Dei” significa identificare Dio con il mondo? Ritengo di no. Il mondo non aggiunge nulla a Dio. La sostanza divina non ha bisogno del mondo per essere Dio.  Allo stesso tempo, Dio e mondo si co-appartengono eternamente. Ciò che distingue Dio e mondo è che “Dio” è Dio assolutamente, mentre il mondo è “Dio da Dio”, relativamente. L’idea che il mondo non aggiunge nulla a Dio salvaguarda la pienezza e autosufficienza divina: La sostanza divina è perfetta, infinita, non manca di nulla. Perciò il mondo non la aumenta né le conferisce qualità nuove. Si tratta di una dipendenza asimmetrica, cioè il mondo appartiene a Dio, ma Dio non appartiene al mondo. Il mondo è una partecipazione finita dell’essere divino e non c’è creatura senza il Creatore; se Dio crea, allora vi è necessariamente un mondo, ma non perché Dio dipenda dal mondo. Che Dio crei il mondo non è una decisione successiva o consecutiva al suo essere Dio. Dio (x) è l’atto della sua decisione eterna di creare il mondo (x + y).  

Dio non è identico al mondo (x ≠ y) ma il mondo è in Dio (x = x + y). Dio trascende il mondo, ma lo include. La co-appartenenza non è reciproca. Benché il mondo sia in Dio come manifestazione e Dio sia nel mondo come presenza che lo sostiene, il mondo non “accresce” o fa “diventare” Dio più Dio. Questo permette di dire che Dio resta immutabile e perfetto, ma senza il mondo non sarebbe Dio-Creatore. Una formula sintetica è questa: Dio è indipendente dal mondo quanto al suo essere, ma Dio e mondo co-appartengono quanto alla relazione di creazione. Il mondo è totalmente relativo a Dio, Dio è assoluto ed è legato al mondo non totalmente ma relativamente.

Dio e mondo sono i due modi con cui la sostanza divina (divinità) si definisce. Il modo “infinito” della sostanza è Dio. Il modo “finito” della sostanza è la creatura. Il modo “infinito” della sostanza è detto il Dio (ὁ θεός). Il modo “finito” della sostanza è detto Dio (θεός). Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ Λόγος, καὶ ὁ Λόγος ἦν πρὸς τὸν Θεόν, καὶ Θεὸς ἦν ὁ Λόγος (Gv 1,1).

Il Logos è il mo(n)do di Dio.


Fede senza risurrezione


L’evento della risurrezione costituisce il punto di partenza di ogni gesuologia e cristologia.
Gesù, per il suo messaggio e la sua azione, per il suo magnetismo e carisma, suscitò ammirazione e anche fede da parte degli apostoli e dei discepoli che lo seguivano. Questi ultimi, a differenza degli apostoli, non lo tradirono mai e lo accompagnarono fino al Calvario. Egli aveva senza dubbio uno speciale potere di guarire gli ammalati e praticava esorcismi per liberare le persone da gravi malattie psichiche, considerate all’epoca come possessioni diaboliche.” (Leonardo Boff, La tenerezza di Dio-Abbà e di Gesù)

Domanda: Poteva nascere la fede in Gesù come il Cristo “prima” della risurrezione oppure si è sviluppata questa fede solo “dopo” la sua morte?

Risposta: La fede in Gesù come il Cristo è iniziata già prima di Pasqua. Gesù è (cioè “indica”) il Cristo (identità intenzionale). Questa è la fede pre-pasquale. Il soggetto in cui credere è il Dio in cui Gesù stesso crede. Gesù non è ancora il Cristo.

Prima della sua morte, i discepoli di Gesù avevano fede in lui e nei suoi insegnamenti, ma la fede nella sua risurrezione come parte di un piano divino non era ancora presente.

Dopo la risurrezione, il Cristo è Gesù (identità reale). Il soggetto in cui credere è il Cristo con cui Gesù è ora ). Questa è la fede post-pasquale.

La tesi qui esposta è quella di Hansjürgen Verweyen. Secondo il teologo tedesco, deceduto due anni fa, la fede nella risurrezione non si fonda sulle apparizioni. La fede pasquale — cioè la fede nella risurrezione — non si è instaurata per la prima volta al momento della risurrezione, né si basa esclusivamente sulle apparizioni del Risorto. Piuttosto, essa si radica già nella vita terrena di Gesù, nel modo in cui quest’ultimo ha vissuto e parlato.

Nel vangelo di Matteo, ad esempio, per i discepoli non esiste una cesura decisiva tra Venerdì Santo e Domenica di Pasqua, e un’apparizione isolata non basta da sola a garantire la certezza della fede. In Luca, nonostante le apparizioni dopo la risurrezione (nei “quaranta giorni”) abbiano un ruolo importante, esse non ne costituiscono la base di diritto (“de jure”)

La risurrezione conferma, ma non crea radicalmente la fede. Le credenze sul mistero messianico di Gesù, i miracoli, le sue parole, l’identificazione messianica e la sua morte appartengono già alla narrazione pre-pasquale; la risurrezione consolida ciò che era stato anticipato, ma non lo genera ex novo. Le apparizioni, dunque, sono importanti, ma non sono necessarie per fondare la fede: la fede aveva già una base nella vita e nelle parole di Gesù; le apparizioni servono a rafforzarla, non a crearla dal nulla.

L’essere e gli enti: il Monismo Relativo

Per Parmenide, l’essere è qualcosa di distinto dalle cose. Egli lo concepisce come una pura luce, mentre le cose non sarebbero che i colori irradiati da quella luce. Tuttavia, un essere inteso come pura luce “separata” dai colori si rivela, paradossalmente, un nulla: un nihil absolutum.

Non è questo il senso in cui qui si intende parlare dell’essere. Né ci si muove nella direzione della tradizione heideggeriana, che scrive Sein addirittura con la “y” (Seyn), per distinguere il piano ontologico (la luce) dal piano ontico (i colori). Anche in questo caso, però, l’Essere, se pensato come separato dagli enti, resta un puro nulla: un concetto svuotato, poiché ciò che è separato radicalmente da ciò che appare non è più.

Gli enti, la totalità ontica del mondo, sono ciò in cui l’essere si manifesta e senza i quali esso non si dà. Parlare di essere significa dunque parlare degli essenti. Il “ciò che è” non consente di separare il “ciò” (gli enti) dal “che è” (l’essere): entrambi si danno insieme, in una coappartenenza originaria.

L’essere, pertanto, non può essere concepito né come indipendente dagli enti – poiché allora ricadremmo in un puro parmenidismo, con l’essere assoluto e statico – né come dipendente da essi, perché dissolverlo negli enti significherebbe negarne ogni eccedenza e ridurlo a semplice dato.

Il problema filosofico è dunque pensare il rapporto tra essere ed enti senza annullare l’uno nell’altro: senza dissolvere l’essere negli enti e senza annientare gli enti in un essere astratto.

L’essere non è né pura trascendenza (indipendenza) né pura immanenza (dipendenza). Esso non è un’entità separata, ma nemmeno un sinonimo degli enti stessi. L’essere è piuttosto l’essere degli enti: non un “nulla”, ma ciò che si mantiene vivo in relazione alle cose.

Come pensare questa relazione? Non come relazione di identità (Essere = enti), che li confonderebbe, ma creatrice: l’essere si manifesta nel darsi degli enti, e gli enti esistono come modalità dell’essere. Qui si colloca l’equazione del Monismo Relativo:

x = x + y

dove x indica l’Essere e y gli enti.

L’Essere (x) è sé stesso, ma solo in quanto si dà anche come enti (y). Non vi è una scissione, ma nemmeno una fusione totale: vi è piuttosto una coappartenenza in cui l’essere include gli enti senza ridursi ad essi.

In questo quadro, il “nulla” che appare (y = 0) non è un nihil absolutum, ma l’indice della relatività con cui va pensato l’essere degli enti. Il nulla, in quanto limite dell’apparire, indica non l’assenza assoluta, ma la differenza relativa grazie a cui l’essere si apre nel molteplice. L’Essere è (x = x), proprio nella sua relazione agli enti (x + y)

Così, il Monismo Relativo non nega la differenza tra essere ed enti, ma la pensa come differenza interna all’unità dell’Essere: l’essere è unità che si conserva proprio nel molteplice degli enti, senza mai ridursi né dissolversi in essi. È una differenza formale e relativa, non ontologica.

Quid item Deus? Qui suum ipsius est, et omnium esse” (Bernardo di Chiaravalle).

لَآ إِلَٰهَ إِلَّا هُوَۚ

وَلَا تَدْعُ مَعَ ٱللَّهِ إِلَـٰهًا ءَاخَرَ ۘ لَآ إِلَـٰهَ إِلَّا هُوَ ۚ كُلُّ شَىْءٍ هَالِكٌ إِلَّا وَجْهَهُۥ ۚ

“Non invocare insieme a Dio un altro dio perché non c’è altro dio che Lui. Tutte le cose periscono tranne il Suo volto” (Qur’an 28:88)

«Perciò nulla ha esistenza tranne il Volto di Dio. Ogni cosa ha due aspetti: l’uno che guarda a sé e l’altro che guarda al suo Signore. In relazione a sé, è non esistenza, ma in relazione al Volto di Dio è esistente. Dunque, non vi è esistenza se non Iddio e il suo Volto e, continuamente e per sempre, tutte le cose periscono salvo il suo Volto»[1].

Commento

“Il Volto di Dio” indica la relazione tra Dio e mondo. Ciò che nel Monismo Relativo è indicato con “x + y”.

Ogni cosa (indichiamo la cosa creata con “y”) ha due aspetti:

  1. l’uno che guarda a sé, cioè “y” considerato in se stessa è “non esistenza” (y = 0)
  2. e l’altro che guarda al suo Signore (“y” è solo nella relazione a Dio).

In relazione a sé, è non esistenza, ma in relazione al Volto di Dio è esistente.


[1] Al-Gazālī, «La nicchia delle luci», in Le luci della sapienza, tr. it. M. Campanini, SE, Milano 2017, 108-109. Cfr. Qur’an 28:88.

Nulla proportio

“Non vidi alcuna differenza tra Dio e la nostra sostanza, ma come se fosse tutto Dio. Eppure, la mia comprensione ha capito che la nostra sostanza è in Dio; vale a dire, che Dio è Dio, e la nostra sostanza è una creatura in Dio”.

(Giuliana di Norwich, Rivelazioni dell’Amore Divino, Londra, Kegan Paul, Trench, Trübner & Co. 1902, 146).

Vorrei esporre alcune riflessioni sul rapporto tra finito e infinito, tra creatura e Dio, a partire da questa illuminante affermazione di Giuliana di Norwich. Il principio secondo cui “finiti ad infinitum nulla est proportio” (non c’è alcuna proporzione tra il finito e l’infinito) risale in realtà ad Aristotele (De coelo, I, 6, 274, a7 e 275, a13) e viene ampiamente ripreso da diversi filosofi (tra cui Boezio, Dionigi, S. Tommaso d’Aquino e Scoto).

La nostra conoscenza è fondata su proporzioni. Tutto ciò che noi conosciamo viene sottoposto alla discrezione, distinzione e gradualità. Più e meno, questo e quello, bianco e nero, bene e male, sono tutte proporzioni ovvero relazioni.  La comprensione di una realtà avviene attraverso la capacità di stabilire relazioni e connessioni tra le diverse componenti, valutandone le proporzioni reciproche. Non si tratta semplicemente di accumulare informazioni, ma di organizzarle e comprenderne le relazioni. Il “logos” (da legein, collegare) pone relazioni tra le cose. Orbene, quale proporzione o relazione sussiste tra finito e infinito?

Il problema della relazione tra finito e infinito ha spesso suscitato equivoci: si tende a pensare che il finito sia nell’infinito come parte limitata, come segmento staccabile, come elemento discreto che concorre al tutto. Ma questa prospettiva, se assunta fino in fondo, contraddice il senso stesso dell’infinito. Infatti, se il finito fosse presente nell’infinito come finito, esso vi starebbe come contributo parziale, come addizione da sommare ad altre parti affinché risulti l’infinito. In tal caso l’infinito cesserebbe di essere ciò che è: l’illimitato, il senza confini, ciò che non ha bisogno di addizione alcuna.

Il paragone col numero può chiarire questo passaggio. Consideriamo il rapporto tra il 6 e il 10. Se il 6 fosse presente nel 10 come 6, lo sarebbe come semplice addizione di 6 e 4: 10 = 6 + 4. In questo senso il 6 conserva la sua discrezione, la sua separazione, la sua autonomia. Ma in tal caso non si dà vera partecipazione del 6 al 10, bensì mera somma.

Se invece chiediamo in che modo il 6 sia presente nel 10 al di là della sua discrezione, scopriamo che esso vi è non come distinto, ma come assunto: nel 10 il 6 non appare più come “sei” ma come “dieci”. L’essere del 6 nel 10 è l’essere-10, non l’essere-6. In altre parole, il finito, entrando nell’infinito, non mantiene la propria limitazione, ma viene trasfigurato, assunto nella dimensione che lo ingloba.

Questo non significa che il 6 sia irreale nel 10, né che venga negato. Significa piuttosto che la sua realtà è vista secondo la prospettiva dell’infinito, e non secondo la prospettiva della distinzione finita. La discrezione appartiene al punto di vista del finito, non all’essenza dell’infinito. Nell’infinito, il finito è realmente presente, ma non come ciò che aggiunge o delimita: è presente nella pienezza dell’infinito, come già compreso in esso.

Da qui si può trarre la tesi generale: il finito è presente nell’infinito non come finito, ma come infinito. La finitezza è modalità relativa, prospettica, legata alla posizione della coscienza che distingue. L’infinito, invece, raccoglie il finito senza negarlo, ma anche senza mantenerne la distinzione. Così come il 6 nel 10 non si dà più come “sei”, ma come “dieci”, così il finito, nell’infinito, si dà come infinito.

Quanto detto del rapporto tra finito e infinito può essere predicato della relazione tra Dio e la creatura. Anche qui Dio e creatura non sono da concepirsi come giustapposti come se la creatura fosse una parte che si aggiunge a Dio per “completarlo”. Se così fosse, Dio non sarebbe più Dio, ma un tutto risultante dalla somma di elementi finiti. L’Assoluto verrebbe ridotto a composto, e la sua infinità verrebbe annullata.

Il modo in cui il 6 è presente nel 10 non è come “sei” che si aggiunge, ma come “dieci”: nell’interno del 10, il 6 è stato assunto e trasfigurato. Esso non perde la propria realtà, ma la sua realtà è vista nel 10, e non più come semplice numero isolato.

Così la creatura in Dio. Se fosse in Dio come creatura “distinta”, allora Dio sarebbe insieme di parti, risultato di somma, e cesserebbe di essere l’Infinito. Ma la creatura, in quanto è, è già in Dio, ed è in Lui non come qualcosa che si aggiunge a Dio per completarlo, ma come ciò che in Dio riceve il suo essere, e nel suo fondo è assunto nell’essere stesso di Dio.

Questo non significa che la creatura sia annullata o resa irreale. Essa sussiste, ma la sua sussistenza, è partecipazione dell’Essere divino. L’illusione di discrezione, di separazione, appartiene al punto di vista creaturale, al modo finito di conoscenza che distingue e delimita. Dal punto di vista divino, invece, la creatura è realmente presente, ma come in Dio, ossia secondo la pienezza dell’Essere che tutto raccoglie in Sé senza sommacomposizione.

Perciò si può dire: la creatura è presente in Dio non come creatura, ma come Dio. Il suo essere è reale, ma reale in quanto radicato nell’Infinito che lo sostiene. La creatura, se considerata in sé, appare come finita e distinta; ma se vista in Dio, essa è ciò che è solo nella luce dell’infinito, e in quella luce non è altro che Dio stesso che si dona in forma creata.

Illuminanti, dunque, sono le parole di Nicolò Cusano che nel Docta ignorantia (I, 26, § 88), così afferma:

Ora, secondo la teologia negativa, in Dio non si trova altro che l’infinità. Per questo
motivo, secondo tale teologia Dio non può essere conosciuto in questo mondo, né nel
mondo futuro, ma egli è noto solo a se stesso; rispetto a Dio, infatti, ogni creatura è
tenebra, e la tenebra non è in grado di comprendere la luce infinita .

Per chi già è avvezzo con l’equazione del Monismo Relativo, sa che la tenebra a cui allude il Cusano è ciò che indichiamo spesso con “y = 0”. La creatura è “nulla” – tenebra, oscurità, abisso – se considerata “senza la sua relazione” a Dio, alla luce. La creatura è “ambigua” (cioè dualità) considerata dal punto di vista del finito. La creatura è “teofanica”, luce taborica, considerata dal punto di vista dell’infinito, poiché “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5).

Sono la sua sostanza

Giuliana di Norwich (XIV secolo), mistica e filosofa inglese, visse durante epidemie, carestie e guerre, ma ebbe una serie di visioni mistiche mentre era in punto di morte a 30 anni. Queste rivelazioni, raccolte in Revelations of Divine Love (il primo libro noto scritto in inglese da una donna), presentano un’immagine di Dio radicalmente diversa da quella medievale: non un giudice lontano e punitivo, ma la stessa sostanza dell’essere, presente in ogni cosa.

Per Julian, Dio è “il terreno in cui la nostra anima sta”, una realtà panenteistica in cui tutto è in Dio e Dio è in tutto. La sua visione della “nocciola” — piccola ma amata e sostenuta dall’amore divino — diventa simbolo dell’universo intero. Il dolore e il peccato non sono punizioni, ma parti di un disegno in cui “tutto andrà bene”, perché nulla è escluso dall’amore divino.

Innovativa anche la sua idea di Dio come madre, nutriente e generatrice, unendo principio paterno e materno. La sua esperienza tocca intuizioni di non-dualità: Dio non è un concetto esterno ma la coscienza stessa che percepisce. Il suo messaggio centrale è che non siamo mai separati da Dio: l’amore è la struttura stessa della realtà, e in esso siamo già a casa.

“Non vidi alcuna differenza tra Dio e la nostra sostanza, ma come se fosse tutto Dio. Eppure la mia comprensione ha capito che la nostra sostanza è in Dio; vale a dire, che Dio è Dio, e la nostra sostanza è una creatura in Dio”.

(Giuliana di Norwich, Rivelazioni dell’Amore Divino, Londra, Kegan Paul, Trench, Trübner & Co. 1902, 146).

“Dio è più vicino a noi della nostra stessa anima; poiché egli è il suolo in cui sta l’anima nostra, ed è meschino colui che tiene insieme la sostanza e la sensualità, così che non se ne allontani mai, perché l’anima nostra siede in Dio nel riposo e l’anima nostra sta in Dio con forza sicura, e l’anima nostra è benignamente radicata in Dio nell’amore senza fine. […] E la nostra sostanza benigna è racchiusa in Gesù, con l’anima benedetta di Cristo che riposa nella testa di Dio”.

(Giuliana di Norwich, 150-151)

“Ho visto che tutta la nostra sostanza è in Dio”. (Giuliana di Norwich, 156). “La nostra sostanza è la parte superiore che abbiamo nel nostro Padre Dio Onnipotente: e la Seconda Persona della Trinità è nostra Madre nella natura, nella nostra creazione sostanziale, nella quale siamo fondati e radicati; ed egli è la nostra Madre di misericordia, nella nostra assunzione di sensualità”. (Giuliana di Norwich, 158) “E la nostra sostanza è nel Padre nostro, Dio onnipotente, e la nostra sostanza è in Dio nostra Madre, ogni sapienza, e la nostra sostanza è nel Signore nostro, Dio, lo Spirito Santo, ogni bontà; poiché la nostra sostanza è intera in ogni persona della Trinità, che è un solo Dio”.

(Giuliana di Norwich, 158-159)

Monismo Relativo in 3 passi

1. Il Cosmo (y) – Totalità fenomenica

  • Qui siamo nel mondo creato, fatto di differenze, forme, leggi fisiche, esseri distinti.
  • È definito come totalità distinta e totalità delle determinazioni: ogni cosa è separata dalle altre e identificabile.
  • Teologicamente, questo è il piano dell’esperienza sensibile e della pluralità.
  • Ogni elemento del cosmo è però un frammento della stessa realtà ultima: nulla è realmente indipendente.

2. Dio – Totalità ontologica (X rivelato come Dio)

  • Se si “trascende” la molteplicità fenomenica, si giunge alla totalità indistinta: Dio come Essere unico che contiene e fonda tutto ciò che esiste.
  • Qui le differenze scompaiono nella coscienza dell’unità.
  • È l’esperienza mistica della presenza immanente di Dio in ogni cosa, senza ancora giungere all’assoluta trascendenza.
  • Il segno “+” nello schema indica che il cosmo è un aspetto della manifestazione divina, non qualcosa di separato da Dio.

3. Divinità come Infinita (X velato come Divinità)

  • Procedendo oltre, si arriva a ciò che è prima di ogni determinazione: la non-totalità infinita.
  • Questa è la Divinità in sé, assolutamente trascendente, “vuota” di qualsiasi attributo definibile.
  • È “velata” perché non è percepibile o conoscibile attraverso concetti: si può solo alludere ad essa.
  • Qui cessano sia la distinzione tra Dio e mondo sia la stessa idea di totalità determinata: resta solo l’Infinito ineffabile.

4. Interpretazione complessiva in senso inverso

  • Dal punto di vista discendente (sinistra → destra), la realtà emerge per generazione e differenziazione.
  • Dal punto di vista ascendente (destra → sinistra), l’esperienza mistica o filosofica riconduce la molteplicità all’unità, e l’unità alla trascendenza pura.
  • È un percorso di ritorno all’origine:
    • Molteplicità → Unità → Trascendenza.

Partendo dal cosmo, ci troviamo nel piano della totalità fenomenica: il mondo creato, fatto di differenze, forme, leggi e relazioni. Qui ogni cosa appare separata e identificabile, ma tutte le distinzioni sono comunque espressioni di un’unica realtà sottostante. Se ci si spinge oltre la molteplicità, si accede alla totalità ontologica, dove Dio si rivela come unità indistinta che racchiude e sostiene ogni esistenza. In questa dimensione le differenze si dissolvono nella consapevolezza dell’essere unico e universale, in cui il cosmo non è altro che un aspetto della manifestazione divina. Continuando a risalire, si giunge alla divinità velata, la non-totalità infinita, priva di qualsiasi determinazione. Qui ogni concetto e ogni immagine svaniscono: resta soltanto l’Infinito ineffabile, trascendente e irraggiungibile, origine e fondamento di tutto ciò che è. È il punto in cui la distinzione stessa tra Dio e mondo si annulla, e ciò che rimane è la pura, silenziosa assolutezza.

Estinzione o distinzione del desiderio?

Esistono due vie principali nel modo di concepire il rapporto tra Dio, il mondo e il desiderio. La prima vede Dio come radicalmente altro rispetto alla realtà terrena, e il mondo come un ambito in cui il desiderio, se non estinto, ci trattiene lontani dalla vera unione con l’Assoluto. Qui il desiderio è considerato un legame che intrappola, una forza che spinge verso ciò che è transitorio e illusorio. La crescita spirituale consiste allora nel distacco, nella rinuncia, nell’estinzione stessa del desiderio, così che l’anima, svuotata da ogni attaccamento, sia interamente disponibile a Dio. Questa via è tipica di molte correnti ascetiche e mistiche, dove il silenzio interiore e l’abbandono di ogni possesso portano a un’apertura totale al divino.

La seconda via, invece, considera il desiderio come un dono che Dio stesso ha posto nel cuore umano. Il mondo non è visto come un ostacolo, ma come uno spazio in cui il Creatore si manifesta e si lascia incontrare. I desideri autentici — di bellezza, amore, giustizia, verità — sono scintille che, se seguite, conducono alla loro sorgente, che è Dio. Qui il cammino spirituale non consiste nello spegnere i desideri, ma nel riconoscerli, purificarli e viverli in pienezza, così che ogni esperienza, se vissuta con discernimento, diventi un passo verso l’Infinito. Questa prospettiva trova espressione in figure come Agostino, che vede nell’inquietudine del cuore un richiamo all’Assoluto, in Francesco, che gioisce di Dio attraverso le creature, e nei mistici sufi, che trasformano la passione umana in parabola dell’amore divino.

AspettoVia dell’estinzione del desiderioVia dell’attingere dai desideri
Rapporto Dio–mondoDio è totalmente “altro” dal mondo; il mondo tende a distrarre o ingannareDio è presente nel mondo e lo attraversa; il mondo può essere segno e via verso di Lui
Natura del desiderioForza che lega alla dimensione materiale e ci allontana dall’AssolutoEnergia interiore che, se orientata, conduce a Dio
Obiettivo spiritualeLiberarsi da ogni attaccamento per aprirsi solo a DioRiconoscere e coltivare i desideri autentici fino alla loro sorgente divina
MetodoAscesi, distacco, silenzio interiore, rinuncia ai piaceriDiscernimento, gratitudine, esperienza piena e orientata del mondo
RischioAridità, rifiuto della vita terrenaIllusione, confusione tra desiderio autentico e bisogno superficiale
EsempiBuddhismo, san Giovanni della Croce, Meister EckhartSant’Agostino, san Francesco, mistici sufi, Teilhard de Chardin