Deum et animam scire cupio

L’equazione fondamentale del Monismo Relativo è la seguente:

x = x + y

dove:

  • x = Dio (principio assoluto, infinito, eterno),
  • y = creatura (essere relativo, finito, contingente).

Nell’algebra ordinaria, l’equazione sembrerebbe contraddittoria, perché implica che y = 0. Nel linguaggio metafisico, invece, questa “contraddizione” diventa feconda: significa che la creatura (y), di per sé, non ha consistenza autonoma, ma “vive” solo come espressione di Dio (x). In altri termini: il valore ontologico della creatura non è distinto da Dio, ma è compreso in Lui. La somma non produce un nuovo termine, perché tutto è già contenuto nell’Assoluto. La creatura è nulla da sé (y → 0 ontologico), ma è qualcosa in Dio (y → partecipazione). L’identità finale è: x = x + y, cioè: ogni manifestazione, pur apparendo come alterità (y), è in verità radicata nell’unico principio (x). Questo è il cuore del Monismo Relativo: la creatura non è annullata (come nel monismo assoluto), ma è ricondotta alla sua natura di relazione e trasparenza all’Assoluto.

«Desidero conoscere Dio e l’anima» (Agostino, Soliloqui, I, II, 7).

«In confirming me in my mistrust of the reality of material phenomena, and making me rest in the thought of two and two only absolute and luminously self-evident beings, myself and my creator» (John Henry Newman, Apologia  Apologia pro vita sua, Longmans, Green & Co., London 1876,  4)

«Distaccandomi dagli oggetti che mi circondavano, trovavo conferma alla mia sfiducia nella consistenza dei fenomeni materiali, e mi abbandonavo al pensiero di due soli esseri assoluti e luminosi: me stesso e il mio Creatore.»

Interpretazione

Sia in Agostino che in Newman, si afferma l’evidenza di “due soli esseri assoluti”: io e Dio. Questa evidenza emerge quando il soggetto compie un atto di distacco: rifiuta la solidità apparente dei fenomeni materiali (il mondo sensibile, effimero). Con “fenomeni materiali” non si fa riferimento solamente alla “materia” esterna, ma ad ogni contenuto di coscienza che determina la coscienza come questa o quella percezione, questa o quella sensazione, questa o quella comprensione.

Sembrerebbe che l’esperienza originaria della coscienza si dia in una tensione dualistica: da un lato la coscienza di sé (anima), dall’altro il Sé trascendente (Creatore). Atman-Brahman, anima-Dio, Assoluto-contingente, Creatore-creatura. Apparentemente si danno “due” (DVA) assoluti, ma l’equazione del Monismo Relativo suggerisce che questa dualità è solo provvisoria e rinvia ad una unità sostanziale, assoluta (A-DVA).

L’io, quando riconosce la propria relatività, comprende che la sua esistenza non è autonoma, ma è inclusa “in Dio”. Riconoscere la propria “relatività” significa, sapersi come logos, parola-di, rinvio-a. Quindi l’“assolutezza” dell’io non è sostanziale, bensì riflessa: l’uomo appare come luce, ma luce derivata dal Sole divino. La creatura è “luce-che-brilla”. In quanto “luce” è derivante-dal-sole (lumen de lumine, deum de deo, deumv verum de deo vero – come afferma il credo di Nicea). La creatura è – in tal senso – una cosa sola con il Logos. È il Logos: consustanziale al Padre. In quanto “che-brilla” è rappresentazione, espressione, manifestazione visibile della luce. Essendo la luce “Dio”, la creatura è teofanica, apparenza divina, fenomeno eterno dell’indicibile Noumeno.

Ciò che sembrano due esseri assoluti (x e y), in realtà sono: l’Assoluto (x) e la sua auto-rivelazione nella creatura (y). La struttura del Monismo Relativo è, dunque, logica, fondata proprio nell’affermazione di Nicea che il Logos è consustanziale al Padre. Se questo non fosse, la creatura non potrebbe “brillare” della luce, non potrebbe essere manifestazione del Logos.

L’evidenza originaria (Deum et animam) – dunque – si radica nella immediatezza tra sé e Dio. La dualità (Dio “e” anima) è l’elemento o aspetto psichico dell’esperienza originaria che rende questa esperienza “mediata” piuttosto che immediata.

Il Monismo Relativo rettifica ed articola l’esperienza “mediata” psichica secondo cui ci sono due assoluti: Dio e l’anima. Non ci sono veramente due assoluti, ma un unico Assoluto che si riflette e si riconosce nella coscienza del soggetto. L’esperienza spirituale è “logica” cioè radicata nel logos . La relazione “io-Creatore” non implica due sostanze indipendenti, ma due poli di una sola realtà: Dio (x), che, includendo la creatura (y), resta sempre Se stesso.

Conclusione

L’equazione x = x + y significa che Dio non perde nulla includendo la creatura; piuttosto, la creatura trova il proprio essere solo nell’unità con Dio.

«Mi allontanai dalle cose visibili,
e nulla di terreno mi parve saldo.
Svanì la realtà dei fenomeni,
e il cuore trovò riposo nell’eterno Noumeno.

Mi illuminai di Luce:
me stessa, fragile creatura,
riflesso taborico di Luce increata,
luce senza fine».

Elementi di Monismo Relativo

  • θεός (theós): indica Dio indeterminato, divinitas: trascendente e inaccessibile
  • ὁ θεός (ho theós): indica il Dio, l’Ente divin: il Padre.
  • λόγος (Logos): il Verbo, principio ordinatore e razionale attraverso cui Dio si manifesta e crea.
  • λόγοι (logoi): i “semi del Logos”, cioè i molteplici principi razionali o idee divine, che strutturano le creature e danno forma al cosmo.

Quindi: Dio → il Dio → Logos → logoi → creazione. Tutti sono “Dio”-“divinitas”.


  • Dio: trascendente e inaccessibile.
  • Il Dio: come si rende conoscibile, cioè la determinazione di Dio.
  • Logos: il Verbo divino, mediatore fra Dio e mondo.
  • logoi: le determinazioni particolari, i principi delle creature.
  • creature: la realtà visibile e creata.

Il passaggio dall’Uno (Dio) alla molteplicità (logoi, creature) avviene a motivo della de-finizione, determinazione del niente che l’Essere indeterminato.

  1. Dio è l’Assoluto.
  2. Il Logos (Cristo/Verbo) è il mediatore fra Dio e il mondo.
  3. I logoi sono le ragioni eterne delle cose, contenute nel Logos.
  4. Le creature sono logoi cioè la manifestazione concreta del Logos.

È una rappresentazione del pensiero tipico di Origene, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore, dove il Logos divino raccoglie in sé i logoi, che poi si riflettono nel creato.

Post-teismo: nihil novi

Post-teismo. Qual è la sua novità? Credo niente di nuovo sotto il sole. Forse. Non c’è un tema proposto dal post-teismo che non sia già stato proposto altrove e in un altro momento della storia del pensiero teologico.

La verità non è NUOVA ma è a-lètheia. S-velamento di ciò che è da sempre vero. Solo nel dispiegarsi del tempo alcune cose appaiono “vere” (o più vere) e altre non più vere. Ma sono sempre vere le cose. Ciò che sembra “vecchio” o “nuovo” è l’apparire della verità. Non la verità. Che non è né vecchia, né nuova.

Detto questo, vorrei richiamare quanto un filosofo italiano – un prete – diceva a proposito di “Dio”: Vincenzo GIOBERTI

“Iddio è la produttività infinita (atto puro). Produce dentro e fuori. Trinità e creazione. Ma non può far altro che se stesso. L’atto creativo che nella sua radiceè l’atto puro ha per termine se medesimo. L’atto creativo è dunque teogonico. Dio fa se stesso infinitamenteo finitamente. Infinitamente; generazione e processionedelle persone divine. Finitamente ; crea il mondo. Il mondo è un Dio imperfetto, incoato” (Protologia. Saggio II, volume primo, p. 359)

Vedete come “corre” questo Dio? Corre talmente da potersi infinitamente produrre. XIX secolo. Qui c’è certamente Scoto Eriugena, Cusano, Giordano Bruno, Spinoza. Ma condito con il cristianesimo.

Gioberti post-teista? Certamente no, poiché Spong non era ancora nato. Ma sarebbe ridicolo pensarsi “innovatori” senza conoscere la storia del pensiero (anche teologico).

… Sì, ma tu vedi connessioni dovunque. Sì, dovunque c’è l’intelligibile (logos = connettere). Tutti i distinguo che vuoi, ma se nuoti nelle profondità dell’oceano divino vedi che le isole sono collegate tra loro nella radice.

Dico questo sia a chi attacca il post-teismo, sia a chi si attacca alle etichette, dicendo: siamo noi i nuovi! Loro sono vecchi.

siamo tutti “nanetti” (io compreso, anche di statura) sulle spalle di giganti.

Siamo “apparenze” di verità.

Droste teologico

L’effetto Droste, quell’immagine che contiene sé stessa in modo ricorsivo all’infinito, può essere un simbolo suggestivo per parlare del rapporto tra Dio e il creato. Nella Trinità il Figlio è l’immagine perfetta del Padre: un riflesso che non perde nulla, perché è consustanziale, eterno e infinito, “Dio da Dio, Luce da Luce”. Dal loro rapporto d’amore procede lo Spirito, che trabocca nella creazione. Qui però il riflesso non è perfetto come nel Figlio, ma partecipato e limitato: ogni creatura porta in sé un segno, una scintilla della gloria divina. Proprio come nell’effetto Droste, in cui un’immagine ripete sé stessa sempre più piccola e meno definita, il creato non è Dio, ma lo richiama e lo rimanda oltre sé stesso.

In questo modo, il riflettere del Padre nel Figlio si infinitizza nel creato: ciò che è unico e perfetto in Dio diventa molteplice e frammentato nel mondo, generando un mosaico di rimandi che non si esauriscono mai. Ogni realtà — la bellezza di una montagna, la razionalità di una formula, la gratuità di un gesto d’amore — è una miniatura di quel Riflesso originario. Come nello sguardo che si perde all’infinito dentro l’effetto Droste, anche il contemplare il creato ci invita a un viaggio senza fine, in cui ogni riflesso apre a un altro, e poi a un altro ancora. Così Dio si rivela al tempo stesso immanente, perché ogni cosa lo riflette, e trascendente, perché nessun riflesso lo esaurisce. L’infinito si è riflesso una volta per sempre nel Figlio, ma nel creato questo riflesso si moltiplica e si diffonde senza fine, come una cascata di immagini che ci richiama sempre all’Origine.

Il Dio, Dio e il creato logico

Nella tradizione cristiana antica si distingue sempre tra ho Theos, cioè “il Dio” inteso come il Padre, e theos, che indica la natura divina condivisa anche dal Figlio e dallo Spirito. Il Logos, il Verbo incarnato, è dunque theos: non è il Padre, ma è della stessa sostanza divina.

«Un Logos è molti logoi, e i molti logoi sono un solo Logos. Secondo il movimento creativo e sostenitore dell’Uno verso l’esterno nel mondo, in un modo che è appropriato a Dio, l’Uno è molteplice; secondo l’elevazione ponderata e pedagogica dei molti all’Uno, nella Provvidenza di Dio come alla causa ultima di tutte le cose o al centro delle linee rette che procedono da lui […], i molti sono uno»

Massimo il Confessore, Ambigua, PG 91, 1081BC

Massimo distingue il Logos dai logoi, riprendendo il concetto di logoi da Dionigi l’Areopagita, che parlava di idee divine preesistenti in Dio come voleri creatori, e lo collega direttamente al Logos divino, il Verbo incarnato. Ogni creatura possiede un proprio logos che preesiste in Dio: esso fonda l’essere, la bontà e l’immortalità della creatura. L’uomo, conformandosi al Cristo incarnato, può compiere la sua vocazione e giungere alla deificazione.

I logoi sono le ragioni essenziali delle nature create. La contemplazione dei logoi è via di conoscenza e di trasformazione morale: attraverso la physikè theoria, l’intelligenza umana risale dal visibile all’invisibile, dal molteplice all’unità, da ogni logos al Logos stesso.

Il rapporto tra Logos e logoi è centrale. I logoi preesistono nel Logos e da Lui ricevono consistenza, ma non sono identici a Lui in senso reciproco. L’identità è dunque asimettrica: dal Logos ai logoi sì, perché essi non hanno realtà se non in Lui; dai logoi al Logos no, perché nessuno di essi (né la loro somma) può esaurire la ricchezza infinita del Logos. I logoi sono molteplici manifestazioni del Logos, ma il Logos trascende sempre i logoi.

Un paragone matematico aiuta a chiarire questa dinamica: il Logos è come il numero 10, mentre i logoi sono come diverse operazioni che danno 10 (5×2, 30÷3, 20–10…). Ogni operazione manifesta il 10, ma nessuna lo esaurisce. Allo stesso modo, i logoi sono modi diversi in cui il Logos si esprime nella creazione, senza identificarsi pienamente con Lui.

Così, il Logos rimane il centro unificatore: i logoi non sono Dio, ma sono in Dio, radicati nel Logos e ordinati a Lui. Sono riflessi, energie e intenzioni divine che permettono all’uomo, attraverso la contemplazione e la vita virtuosa, di risalire fino al Verbo eterno e partecipare della sua divinità.

Per Massimo il Confessore i logoi non sono divinità autonome, né essenze a sé stanti, ma i pensieri eterni del Logos, le ragioni profonde per cui ogni creatura esiste. Ogni essere ha il suo logos che lo fonda e lo definisce. In altre parole, i logoi sono la base intelligibile del creato, il modo in cui il Logos eterno si riflette e si moltiplica nelle cose.

Se guardiamo al mondo in questa prospettiva, possiamo dire che il creato stesso è costituito dai logoi. E poiché i logoi esistono solo nel Logos, ne consegue che tutto il creato è manifestazione del Logos divino. Naturalmente non significa che il creato “sia Dio” in senso assoluto: rimane creato, contingente, limitato. Ma significa che il mondo porta in sé una radice divina, che lo fa essere più di una semplice realtà materiale: il cosmo è una rivelazione, un riflesso, una teofania del Verbo. I logoi sono Dio… relativamente. Sono Dio “nel” Logos.

Per Massimo, quindi, il rapporto tra Logos, logoi e creato è come una catena continua. Il Padre è la fonte, il Logos è il Figlio divino, i logoi sono i suoi pensieri, e il creato è la loro realizzazione visibile. Quando contempliamo il creato, se guardiamo in profondità, possiamo scorgere i logoi e attraverso di essi risalire al Logos stesso.

Nihil aliud

«Gli oggetti non sono immersi nello spazio. Gli oggetti costituiscono lo spazio. Come un matrimonio: non è che marito e moglie “percepiscono il matrimonio”, loro sono il matrimonio, lo costituiscono. […] Allo spazio non rimane nulla se togli tutte le cose che lo abitano. Lo spazio è costituito dalle cose». (Carlo Rovelli)

Carlo Rovelli esprime così una visione che, tradotta in termini ontologici, può suonare in questo modo: gli enti non sono nell’Essere, ma costituiscono l’Essere. Come un matrimonio, non percepito ma incarnato da marito e moglie, così l’Essere è costituito dagli enti. All’Essere, tolti gli enti, non resta nulla: esso è il risultato degli enti, la loro totalità. In questo senso Rovelli e Severino sembrano corrispondersi, e la totalità ontologica coincide con l’Assoluto.

Ma il testo di Rovelli può essere interpretato diversamente. Gli enti non sono nell’Essere, e non costituiscono l’Essere. Come un matrimonio, marito e moglie lo sono e lo costituiscono, ma l’Essere, tolti gli enti, non si identifica con essi: ciò che rimane non è un insieme di enti, ma il niente degli enti. L’Essere, in questa prospettiva, non è costituito dagli enti, bensì è ciò che ne segna la differenza, il loro nulla.

L’Essere può dunque essere contemplato da due prospettive: come il nulla dell’essere, cioè puro nulla, in cui non c’è altro che gli enti; oppure come il nulla degli enti, differente dagli enti stessi. Ciò che costituisce la differenza tra gli enti non coincide con la differenza tra gli enti e il nulla, perché il nulla non è gli enti: il nulla è niente. Se la differenza tra gli enti, per cui questo non è quello, è costituita dall’alterità che fonda l’identità di ciascun ente, allora la differenza tra gli enti è fondata dalla dualità “identità–alterità”. A rendere possibile tale dualità è la determinazione: qualcosa è, e se il qualcosa si dà, allora la sua struttura originaria è quella della identità–alterità. Se però il nulla è niente, significa che non è qualcosa, né questo né quello, bensì il non-qualcosa, il non-duale, la non-“identità–alterità”.

Il nulla è indeterminato. L’indeterminato è l’Assoluto in cui gli enti sono: non-duale, non-aliud, non-idem. L’Assoluto è absoluta relatio. La differenza del nihil dagli e tra gli enti è relativa e non assoluta. Tuttavia, mentre la relazione tra gli enti è “reciproca” (cfr. pratītyasamutpāda del buddismo), la relazione tra il nihil (Essere) e gli enti è “asimmetrica”.

Ed è una relazione invisibile e tenue. La parola nihil (“nulla”) deriva dal latino ne– (“non”) e hilum (“piccola cosa” o “sciocchezza”, da cui anche “filo”).

La Mente di Dio che è il Logos

“Dal punto di vista della vita eterna di Dio, la manifestazione di Dio di se stesso a se stesso non è mai senza la sua manifestazione nella creazione, e così la creazione è eternamente presente all’interno dell’atto eterno mediante il quale Dio è Dio.”

(David Bentley Hart, You are Gods, 104).

Generando il Figlio, Dio Padre crea il mondo nel Logos.

Generando il Figlio, Dio Padre genera le creature a figli/figlie di Dio.

Le due generazioni sono UNA e Sola generazione. Come c’è uno e un solo Respiro (In, e-spirazione).

Se Nicea dice che il Figlio è consustanziale al Padre, Nicea III (non potrà non dire) che il Creato è generato nel Verbo di Dio. Perché “generato” nel Verbo e non “creato” dal nulla? Poiché il “nulla” da cui è creato il mondo, è l’essenza divina, il ni-ente, la relazionalità (lògos) in cui “sono” tutte le cose.

Cosa è il logos “in” cui sono tutte le cose? È il Logos ( = RELAZIONE) in cui gli “enti” sono generati, come nodi di relazioni che si incrociano. L’infinito di tutte le relazioni è il LOGOS ovvero la MENTE di Dio.

“Il nostro essere in Dio e l’essere di Dio in noi è anche e più originariamente l’essere di Dio in quanto Dio”

(David Bentley Hart, You are Gods, 105).

“[Secondo Niccolò Cusano], la struttura stessa di ogni desiderio razionale finito non è altro che una partecipazione creata al movimento infinito della vita divina: il Padre che conosce perfettamente se stesso nel suo Logos, in modo tale che il suo essere e il suo conoscere sono una sola e stessa realtà, consumata nell’amore dello Spirito.

E l’implicazione radicale di questo modo di vedere le cose è che il telos immanente della vita stessa di Dio e il telos trascendente della vita di una creatura spirituale sono, formalmente e definitivamente, uno e lo stesso telos: l’essenza divina, intesa come la perfetta pienezza della vita di amore e conoscenza di Dio.

Come Dio è Dio nel movimento eterno ed eternamente compiuto di Dio verso Dio, così noi siamo dèi nel processo di diventare Dio solo in virtù del fatto di esistere sempre all’interno di quel movimento, procedendo dalla stessa fonte e verso lo stesso fine; lo facciamo nella modalità della finitezza, della contingenza e della successione temporale, e quindi non siamo Dio in sé; ma teleologicamente non siamo altro che Dio.

Non c’è altro ‘luogo’ se non ‘in lui’ dove una creatura spirituale possa vivere e muoversi e avere il suo essere e quindi cercare il suo fine ultimo, vale a dire la pienezza della realtà che è Dio. In effetti, non sarebbe sbagliato dire che, per Niccolò, la differenza tra Dio e le creature spirituali è in un certo senso ontologicamente modale: è la differenza, cioè, tra l’infinita semplicità dell’essere divino, da un lato, in cui c’è una perfetta identità tra conoscitore e conosciuto o tra essenza ed esistenza (quest’ultima non è terminologia di Niccolò, ovviamente) e il dinamismo finito dell’essere creato, che partecipa direttamente a quella realtà divina, ma solo sotto forma di una sintesi perpetua di conoscere ed essere conosciuto” .

(David Bentley Hart, You are Gods, 105).

La corsa di Dio

«È chiamato Dio (Theós) perché ha fondato tutte le cose sulla propria stabilità e per il (significato di) théein […] correre, essere in movimento, essere attivo» (Teofilo di Antiochia) 

Dio è sorgente e principio assoluto di tutto, il Padre da cui tutto ha origine. Il Verbo (Logos) è la relazione eterna che procede da Dio e che a Dio ritorna: non solo parola pronunciata, ma relazione vivente che manifesta l’essenza divina (theòs). Nel Logos si genera il cosmo: l’universo è contenuto, pensato e detto in Lui, e diventa l’apparizione visibile della relazione eterna che è in Dio. Il cosmo quindi non è indipendente, ma riflette Dio. È definizione visibile – incarnata – del Logos. Il cosmo non è il Dio ma è la definizione “logica” (cioè del Logos) di Dio. È icona del Logos, manifestazione concreta della sua ratio. Il cosmo è Dio visibile, creato e finito. Ed è Dio così come il 5×2 è 10, pur nella distinzione tra numero 10 (Dio) e moltiplicazione (creato).

In questa prospettiva, lo Spirito può essere riconosciuto come ciò che non è raffigurato ma che rende dinamico il movimento: se il Logos è la relazione generata dal Padre e a Lui ritornante, lo Spirito è il respiro che anima questa relazione e la mantiene viva. È il movimento circolare che tiene insieme Dio e il Verbo, ed è allo stesso tempo la forza vitale che vivifica il cosmo, rendendolo più che semplice idea o definizione astratta. Così lo Spirito riempie lo spazio tra Dio, Logos e cosmo, rendendo l’universo un riflesso non statico del divino, ma un evento vitale che partecipa alla comunione eterna di Dio.

“Dal punto di vista della vita eterna di Dio, la manifestazione di Dio di se stesso a se stesso non è mai senza la sua manifestazione nella creazione, e così la creazione è eternamente presente all’interno dell’atto eterno mediante il quale Dio è Dio.”

(David Bentley Hart, You Are Gods. On Nature and Supernature, 104)

deus est nonaliud

In questa immagine ho voluto riassumere il significato che dà Niccolò Cusano (e indirettamente tutto il pensiero neoplatonico) alla definizione di Dio come nonaliud.

Sopra la linea tratteggiata si trova l’essere UNO, che è presentato come origine e principio. Da esso si irradiano delle frecce con scritto Non-altro: l’Uno assoluto non può essere definito per opposizione (non è “altro” rispetto a qualcosa), ma solo come identità pura. È l’Uno che non ha contrario.

Sotto la linea tratteggiata, che sembra marcare la distinzione tra piano dell’essere e piano dell’ente, troviamo i singoli uno che costituiscono gli enti. Questi “uno” sono molteplici e distinti: ciascuno esiste come ente particolare. Le frecce orizzontali portano invece l’indicazione Altro/Non-: qui il rapporto si gioca sulla differenza, sull’essere altro rispetto ad altro, sulla molteplicità che distingue gli enti tra loro.

In questo modo la mappa mostra:

  • Sopra (ontologia dell’Uno): unità, identità, non-alterità, trascendenza.
  • Sotto (ontologia degli enti): pluralità, distinzione, alterità, relazione reciproca.

La linea tratteggiata funziona come confine simbolico: indica che tra l’Uno e gli enti c’è una differenza di piano. Tuttavia, la connessione si mantiene perché i “non-altro” dall’alto discendono sugli enti: significa che ogni ente conserva, al di là della sua alterità, la partecipazione all’Uno.

L’Uno è l’essere oltre l’essere, l’identità senza volto che nulla può contraddire. È il non-altro, perché in Lui ogni alterità è raccolta e trascesa. Non si lascia afferrare, non si lascia dividere: l’Uno è pura semplicità.

Gli enti nascono come riflessi di questo Uno, scivolano nel dominio dell’altro e del non-, là dove l’identità si frantuma in molteplici figure. Essi si distinguono, si oppongono, si separano. Ma nessuno di essi è mai del tutto altro: ogni ente custodisce in sé un barlume dell’Uno, una scintilla di quella identità che lo sostiene. È “non-altro” nella radice, perché se fosse davvero altro, cesserebbe di essere.

Così l’Uno dimora in ogni cosa, senza essere nessuna di esse. Ogni ente partecipa all’Uno senza poterlo contenere, lo riflette senza mai esaurirlo. L’alterità del mondo è il gioco in cui l’Uno si lascia intravedere nella molteplicità, senza mai perdersi in essa.

E allora l’ontologia si apre come via mistica: risalire dal molteplice all’Uno, scoprendo che nel cuore stesso della differenza vibra la presenza del non-altro. Chi penetra questo mistero comprende che essere è già sempre partecipare all’Uno, e che l’Uno, pur restando trascendente, non abbandona mai nessuno dei suoi riflessi.

Dio è l’essere oltre l’essere, la fonte che nessuna parola può racchiudere. Egli è il non-altro, perché nulla può opporsi a Lui: ogni alterità è da Lui e in Lui, e tuttavia Egli non è nessuna di esse. Dio è semplicità pura, identità assoluta, abisso di luce inaccessibile.

Gli enti sgorgano da Dio come scintille dalla fiamma. Nel loro esistere scendono nel dominio dell’altro, dove la differenza li separa e li distingue: io e tu, questo e quello, vicino e lontano. Nel molteplice, l’essere si frantuma in forme. Eppure nessun ente è mai del tutto altro: ognuno porta in sé l’impronta di Dio, è “non-altro” da Lui nella sua radice. Se fosse radicalmente separato, cesserebbe di essere.

Così Dio è presente in ogni cosa senza mai essere contenuto in nulla. Gli enti vivono di Lui, ma non Lo esauriscono; riflettono la sua luce, ma non sono la luce stessa. La loro alterità non cancella la loro partecipazione: ogni creatura è da Dio, distinta da Dio, e tuttavia non senza Dio.

L’ontologia, allora, non è neutra ma mistica: conoscere l’essere significa intravedere Dio che lo sostiene; vivere nell’essere significa già partecipare di Dio. La molteplicità del mondo è il teatro in cui Dio si lascia percepire in frammenti, senza mai dissolversi nella creatura né perdersi nella molteplicità.

Chi penetra questo mistero comprende che ogni ente è in Dio e da Dio, che ogni identità particolare si nutre dell’Identità assoluta, e che l’essere stesso non è che una partecipazione al Dio che è. Così il cammino del pensiero e della vita diventa via di ritorno: risalire dal molteplice a Dio, scoprendo che nel cuore stesso della differenza palpita la Presenza, e che Dio non è mai lontano, perché l’essere di ogni cosa è già la sua traccia vivente.

O Dio, Essere oltre l’essere,
abisso di luce che nessuna parola può dire,
Tu sei il Non-altro:
tutto è da Te, nulla è contro di Te.

Le creature fioriscono dal Tuo mistero
come gocce dall’oceano,
come raggi dal sole.
Esse sono molte, differenti, fragili,
eppure ognuna porta in sé la Tua impronta,
poiché nessun ente può esistere
senza partecipare a Te.

Tu abiti ogni cosa senza confonderti con nessuna,
sei in ogni volto ma non sei nessun volto,
sei presenza che sostiene,
sei silenzio che fonda,
sei radice che non appare.

Nel molteplice si cela la Tua unità,
nella differenza vibra la Tua identità.
Ogni alterità si consuma
nella fiamma della Tua vicinanza:
gli enti sono da Te, in Te, verso di Te.

E noi, camminando tra le cose,
ritroviamo Te in ogni cosa,
fino a scoprire che vivere
è già partecipare del Tuo essere,
e conoscere è già risalire a Te.

O Dio, Tu che sei Uno e molteplice,
trascendente e presente,
fa’ che la nostra differenza
non ci separi mai da Te,
ma diventi il luogo del ritorno
al Tuo mistero senza fine.

Nel vuoto di Cristo… il cosmo

Nella lettera ai Filippesi, san Paolo ci consegna parole che ci introducono nel cuore del mistero cristiano: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina… svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6-7). Questa kénosis, questo svuotamento, non è una perdita sterile, ma la via scelta dall’amore: il Figlio di Dio non ha trattenuto nulla per sé, ma ha fatto spazio, ha accolto il limite, fino alla Croce.

Questa è la “novità” della kénosis che avvolge ogni cosa, così come l’infinito comprende il finito. Con le parole di Massimo il Confessore (VII secolo): “Poiché il Logos di Dio (che è Dio) vuole sempre e in ogni cosa compiere il mistero della Sua incarnazione” (Ambigua 7.22). Prendere alla lettera quanto qui è detto, significa versare vino nuovo nel banchetto delle nostre liturgie e spiritualità.

Ora, noi spesso pensiamo al vuoto come a un’assenza, a un “niente” freddo e sterile. Ma forse questa è solo un’illusione, frutto dei nostri limiti percettivi. Ciò che chiamiamo “spazio vuoto” non è privo di vita: è un oceano invisibile di energia, un campo cosmico che vibra e pulsa, generando e sostenendo ogni forma di esistenza.

Le stelle, le galassie, la materia che compone il nostro corpo, tutto emerge da questa matrice sottile. Non siamo separati da essa, anzi: siamo onde che si innalzano e si dissolvono nel suo flusso eterno. La separazione che percepiamo tra noi, gli altri e il mondo è soltanto una prospettiva limitata; in realtà, ogni cosa è interconnessa attraverso il tessuto del vuoto.

La fisica moderna ci mostra che il cosiddetto “spazio vuoto” non è affatto vuoto: è un campo ricco di potenzialità, un mare quantistico in cui fluttuazioni incessanti danno origine a particelle che compaiono e scompaiono in frazioni infinitesimali di tempo. Ogni particella, ogni atomo, non è isolato ma immerso e sostenuto da questo campo fondamentale. Questo vuoto quantistico rappresenta la base su cui poggia l’intero universo.

È la sorgente invisibile che permette l’esistenza di materia, galassie, stelle e persino della coscienza umana.

Se fosse proprio questo “niente” la vera sorgente di tutto? Molti mistici e teologi medievale parlano di Dio come “nulla”, nihil, da cui tutto è stato creato. Nel cuore del vuoto, il ni-ente si rivela come pienezza assoluta: è la possibilità pura, l’essere stesso che prende forma solo attraverso la relazione. Il nulla è il “grembo” della vita. La matrice dell’essere. L’essere, infatti, non è un’entità isolata, ma un intreccio di connessioni che continuamente crea il mondo.

Così, il vuoto smette di essere un abisso da temere e diventa un grembo da cui nasce ogni cosa. Il nulla non è assenza, ma origine; non è silenzio, ma musica latente. Nel suo mistero, custodisce la verità che siamo parte di un tutto senza confini.

E allora comprendiamo meglio anche il vuoto di Cristo: Egli non ha cercato di affermarsi con potenza, ma si è svuotato, ha fatto spazio, e proprio lì, in quel vuoto, il Padre ha riversato la sua pienezza. Dalla Croce – luogo di fallimento e caduta – è germogliata la vita eterna.

Lo stesso vale per noi: quante volte nella vita ci sentiamo svuotati, delusi, falliti. Ma il Vangelo ci dice che proprio quel vuoto può diventare il grembo della novità. Le nostre cadute non sono fine, ma possibilità; i nostri limiti non sono condanna, ma occasione per lasciarci riempire da Dio.

Cristo ha trasformato il vuoto della Croce in pienezza di vita. Anche il nostro “svuotamento” può diventare un’apertura, un varco perché l’amore di Dio ci rinnovi. Il fallimento allora non è più vergogna, ma spazio di grazia; la fragilità non è più peso, ma porta verso una nuova comunione.

Fratelli e sorelle, non temiamo i vuoti della nostra vita: se li offriamo a Dio, diventeranno grembo di risurrezione. Perché l’amore, proprio come il vuoto, è inesauribile sorgente di vita.

Preghiera finale

Signore Gesù,
Tu che ti sei svuotato per amore,
donaci il coraggio di non temere i nostri vuoti.

Quando cadiamo, rialzaci.
Quando ci sentiamo poveri, riempici della tua presenza.
Quando sperimentiamo il fallimento,
fa’ che scopriamo in esso il seme di una vita nuova.

Tu sei disceso fino all’abisso della Croce,
e da lì sei risalito nella gloria.
Fa’ che anche noi, uniti a Te,
scopriamo che ogni discesa è già cammino di risurrezione.

Signore,
trasforma il nostro vuoto in grembo di speranza,
il nostro silenzio in canto,
la nostra fragilità in comunione.

A Te, che vivi e regni nella pienezza dell’amore,
sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.