La dottrina del multi-prospettivismo sostiene che la verità è una, ma accessibile da molteplici punti di vista. Tale concezione intende conciliare l’unità ontologica del reale con la pluralità epistemica dei modi in cui esso si manifesta. L’esempio, frequentemente utilizzato, del numero “6” che, rovesciato, appare come “9”, esprime efficacemente la tesi secondo cui prospettive differenti possono riferirsi al medesimo oggetto, pur producendo rappresentazioni parzialmente divergenti.

A questa posizione viene tuttavia sollevata un’obiezione classica. Per poter affermare che “da un punto di vista è 6 e da un altro è 9” sembra necessario assumere un punto di vista ulteriore, capace di abbracciare simultaneamente entrambi e di riconoscerne la comune radice oggettiva. Tale posizione “meta-prospettica” sembrerebbe introdurre, implicitamente, un punto di osservazione assoluto, contraddicendo così il presupposto prospettivista che nega ogni pretesa di totalità o di sguardo privilegiato.

La questione può essere affrontata in diversi modi. Una prima interpretazione, di matrice ermeneutica o nietzscheana, afferma che il riconoscimento della pluralità delle prospettive non implica un punto di vista trascendente, bensì costituisce esso stesso una prospettiva tra le altre: la prospettiva del pluralismo. L’atto con cui si riconosce la molteplicità degli sguardi non si colloca al di sopra di essi, ma al loro interno, come una modalità riflessiva della stessa condizione prospettica. Anche la consapevolezza della molteplicità, dunque, è inevitabilmente prospettica e non assoluta.

Un secondo approccio, di ispirazione realista o tomista, distingue fra il piano ontologico dell’essere e quello epistemologico della conoscenza. In questa prospettiva la verità possiede un’unità oggettiva, ma la nostra conoscenza di essa è necessariamente mediata e parziale. Chi afferma che da un lato si vede un 6 e dall’altro un 9 non pretende di porsi fuori dalle prospettive, ma riconosce che la realtà è una e che la diversità delle interpretazioni dipende dai limiti strutturali del conoscere umano. Il punto di vista riflessivo, in questo caso, non è una posizione epistemica assoluta, bensì un’operazione intellettuale che distingue tra la realtà come tale e i modi finiti della sua apparizione.

Un’ulteriore interpretazione, di orientamento fenomenologico, permette di comprendere che l’affermazione dell’unità della verità non implica un superamento delle prospettive, ma sorge come un’intuizione immanente all’esperienza stessa della molteplicità. Dire che vi sono molte prospettive sull’unica realtà presuppone infatti la previa comprensione — immediata e non discorsiva — che la realtà sia una. L’atto con cui si riconosce la pluralità delle vedute contiene già in sé l’intuizione dell’unità che le sostiene.

In termini aristotelici, si potrebbe dire che la realtà è “atto” e si offre alla conoscenza secondo “potenze” molteplici, ossia attraverso modi diversi di attualizzarsi nel pensiero. L’intelligenza umana coglie l’unità del reale non dall’esterno, ma attraverso la differenza delle sue manifestazioni fenomeniche. In tal senso, il riconoscimento della pluralità prospettica è già un modo di partecipare all’unità della verità, non la sua negazione.

Ne consegue che il multi-prospettivismo, se inteso in senso rigoroso, non dissolve l’idea di verità, ma la riformula: la verità non è un possesso totale, bensì un orizzonte unitario che si dà attraverso molteplici apparizioni. L’unità della verità non è dunque negata, ma implicitamente presupposta come ciò che rende possibile la molteplicità dei punti di vista. Il prospettivismo autentico, lungi dall’essere una forma di relativismo, si configura come un realismo relazionale, nel quale la pluralità delle prospettive è il modo stesso in cui l’unità del vero si manifesta.


La tolleranza considera l’altro come un errante da sopportare. L’Anekantavada, come la fisica quantistica, va oltre: sostituisce la certezza superficiale con una realtà multiforme, in cui la verità è contestuale, stratificata e in continua trasformazione. Viviamo in un mondo che dipende da una falsa chiarezza e da una certezza illusoria. È proprio per questo che oggi abbiamo bisogno dell’Anekantavada: non solo come dichiarazione di una verità ultima, ma come silenziosa correzione. Una correzione attesa da tempo. Perché nonostante tutti i discorsi sulla pluralità, la libertà di parola e il dibattito civile, ciò che otteniamo in pratica è soltanto la tolleranza.

Il liberalismo moderno esalta la “tolleranza” come virtù cardinale. Ma dietro il suo splendore morale si nasconde spesso un istinto ottuso, meccanico e compiaciuto: una diplomazia del disagio, che sorride a denti stretti aspettando che la conversazione finisca. Si percepisce la smorfia dietro il sorriso. In fondo, la tolleranza dice: “Non sono d’accordo con te, ma non ti darò un pugno in faccia.” E questo dovrebbe essere il modello di comportamento civile. Nel discorso pubblico ci viene insegnato a “tollerarci” a vicenda: “Tu stai lì, io non interferirò.” Sembra nobile, ma in realtà chiede distanza, non comprensione. Si tollera l’altro come si tollera un rumore di fondo: non lo si ascolta, lo si evita. Peggio ancora, la tolleranza porta con sé un’aria di superiorità: “Lei ha torto, ma io sono così magnanimo da lasciarLa persistere nella Sua illusione.” Questa non è virtù: è arroganza travestita da cortesia.

È qui che l’Anekantavada, radicato nel Jaina darshana, propone qualcosa di radicalmente diverso. Non ci invita a tollerare l’altro, ma a comprendere che nessuna prospettiva — nemmeno la propria — può esaurire la verità. La tolleranza è una virtù forzata, figlia di una visione abramitica della verità: singolare, esclusiva, definitiva. Storicamente, nasce nell’Europa post-Riforma come tregua riluttante tra verità rivali, non come celebrazione del pluralismo. “Tollerare” significava semplicemente permettere all’errore di esistere. L’Anekantavada, invece, nasce da una visione dharmica del mondo, dove la verità è molteplice, contestuale e dinamica. Non si limita ad accettare altre prospettive: le presume. La tolleranza parte dal monopolio e finisce nel risentimento. L’Anekantavada parte dalla molteplicità e culmina nel reciproco affinamento. Forse, il nostro problema non è che siamo troppo in disaccordo, ma che ci sforziamo troppo poco di comprendere.

Letteralmente, Anekantavada significa “non unilateralità” o “multilateralità”. Ma, a differenza della tolleranza, non si limita a lasciare spazio ad altre opinioni — le ricerca. Dice: “La tua prospettiva potrebbe contenere qualcosa che manca alla mia.” Non è una virtù passiva. Non propone la pace attraverso il silenzio, ma attraverso il dialogo. La verità, dice, non è una spada da brandire in una crociata, ma una gemma dalle molte facce. L’Anekantavada non è debolezza né indecisione. Non afferma che “tutte le opinioni sono valide”, ma che tutte sono parziali, e quindi perfettibili. Richiede disciplina, più del dogma o della tolleranza: la disciplina di vivere tra le sfumature e nella consapevolezza dei propri limiti. In un’epoca di certezze urlate, questa è una forma di ribellione. La tolleranza, invece, è pigrizia intellettuale. Non chiede perché l’altro creda ciò che crede, non cerca coerenza né autoesame. Evita il conflitto, ma anche la comprensione.

Sorprendentemente, l’Anekantavada non è sola in questa battaglia contro la certezza dogmatica. Anche la fisica moderna, con la meccanica quantistica, è arrivata a un punto in cui la certezza crolla e la realtà diventa relazionale. Non è un artificio retorico, ma una convergenza ontologica: due tradizioni — una filosofica, l’altra scientifica — giungono, da strade diverse, alla stessa umiltà. Il principio di indeterminazione ci insegna che non si può conoscere tutto in una volta. La dualità onda-particella mostra che qualcosa può essere due cose insieme, a seconda di come lo si osserva. La sovrapposizione suggerisce che la realtà resta aperta finché non la si osserva. E l’entanglement rivela che anche elementi lontanissimi possono restare connessi. Non è misticismo. È fisica. Ma è anche la stessa intuizione che l’Anekantavada enuncia da secoli: la realtà è multiforme, e riconoscerlo ci rende non solo più scientifici, ma più umani.

Come Heisenberg, l’Anekantavada afferma che non possiamo osservare la totalità della verità da un unico punto di vista. Più stringiamo la verità, più ci sfugge. Meglio tenerla con mani aperte. L’energia arriva a frammenti, non come flusso continuo. Così la conoscenza: frammentata, parziale, mai completa. Ogni affermazione è un “quanto” di verità, non il tutto. Osservare un sistema lo cambia. Allo stesso modo, osservare la verità la modifica. Ciò che vediamo dipende da come guardiamo. Come nella fisica, molte possibilità coesistono fino all’osservazione. Il Syadvada dice lo stesso: ogni affermazione è vera da una certa prospettiva. L’Anekantavada ci allena a vivere tra le possibilità, senza ridurre tutto a un unico stato. Nella fisica, due particelle restano connesse anche se separate da anni luce. Nell’etica giainista, pensiero e parola sono intrecciati: ogni opinione è un’azione, ogni parola ha un effetto. La moderazione non è censura: è non violenza intellettuale.

Oggi, nei media, nelle scuole e nei parlamenti, prevale il pensiero binario: o con noi o contro di noi. Ma l’Anekantavada ci ricorda che la verità non è un campo di battaglia. Chiede: “Quale frammento di verità potrei non vedere nell’altro?” Non per vincere, ma per affinare la propria visione. Il liberalismo moderno dice: “Lasciamo che tutte le opinioni esistano, ma solo la mia deve contare.” L’Anekantavada risponde: “Lasciamo che tutte si affinino a vicenda, perché il potere senza affinamento genera arroganza, e l’arroganza porta al collasso.” La tolleranza produce monologhi paralleli. L’Anekantavada invita a un dialogo trasformativo. Non nega la verità — la rende più complessa, più profonda, più umile. La fisica quantistica ci dice che la materia non è solida e che l’osservazione altera il risultato. La filosofia giainista ci dice che la verità non è lineare, e che ogni pensiero, essendo azione, deve essere guidato dalla gentilezza. Non ci viene chiesto di abbandonare la logica, ma di rallentare le nostre certezze. Di sostituire “Ti sbagli” con “Quale verità vedi che io non vedo?”. Di sostituire “concordiamo di non essere d’accordo” con “restiamo nella tensione ancora un po’”. In un mondo che vive di contrapposizioni, l’Anekantavada e la fisica quantistica ci insegnano il coraggio della sfumatura. Rispettare la differenza, non per dovere, ma per curiosità. Non tollerarci, ma comprenderci. Perché solo quando rinunciamo all’illusione della conoscenza completa, possiamo finalmente iniziare a imparare.


Miracoli senza Dio

Nella filosofia della religione contemporanea, la nozione di miracolo continua a occupare una posizione centrale nel dibattito tra teismo e naturalismo. La concezione classica, ancora oggi sostenuta da vari autori, definisce il miracolo come evento straordinario e inspiegabile in virtù di leggi naturali, causato da un agente soprannaturale e dotato di significato religioso. In questa prospettiva, la possibilità e l’effettiva occorrenza di miracoli vengono considerate indizi razionali a favore del teismo: essi costituirebbero una violazione intenzionale delle leggi di natura che rimanda a una volontà divina libera e personale.

Tale impostazione, tuttavia, solleva un nodo epistemologico cruciale: se un evento è inspiegabile secondo le conoscenze scientifiche disponibili, quale giustificazione razionale abbiamo per inferirne l’origine soprannaturale? La domanda non è se i miracoli siano possibili, ma se sia legittimo interpretarli come segni di un intervento divino.


1. L’inferenza al soprannaturale e il principio di sufficienza causale

La difesa teista del miracolo si fonda tipicamente su un’inferenza che viene ritenuta la migliore. Di fronte a un fenomeno anomalo e scientificamente inspiegabile, si ipotizza che la causa più plausibile sia l’azione diretta di Dio. Tale ragionamento, tuttavia, presuppone implicitamente che la categoria del “soprannaturale” sia epistemicamente accessibile e logicamente coerente con l’ordine naturale, cosa tutt’altro che ovvia.

Dal punto di vista metodologico, la scienza non esclude l’eccezione o l’anomalia, ma ne sospende il giudizio in attesa di nuove teorie o dati. Attribuire un evento all’intervento divino equivale, invece, a chiudere la ricerca nel momento stesso in cui il suo oggetto appare più misterioso. La spiegazione teista, pur coerente all’interno di una visione religiosa del mondo, risulta epistemologicamente prematura: essa introduce un agente soprannaturale come causa ultima là dove la conoscenza è semplicemente incompleta.


2. L’ipotesi di una causa ignota: una possibile alternativa naturalista

Si può dunque considerare un’ipotesi alternativa che funge da esperimento di controllo epistemico. Supponiamo che un evento interpretato come miracolo – per esempio una guarigione istantanea e scientificamente inspiegabile – sia in realtà effetto di un agente naturale sconosciuto, forse anche di natura extraterrestre, dotato di tecnologia incomprensibile per l’uomo contemporaneo, oppure di un espediente di tecnologia quantistica non ancora del tutto collaudato. È questa la tesi sostenuta dal filosofo Damiano Migliorini, il quale propone un interessante esperimento mentale alla tradizionale tesi teista secondo cui i miracoli hanno in Dio la loro spiegazione ultima (cf. Religious Studies (2025), 1–4 doi:10.1017/S0034412525101273). Supponiamo che un evento “miracoloso” – ad esempio una guarigione immediata e duratura, inspiegabile dalla medicina – sia in realtà causato da una civiltà extraterrestre dotata di una tecnologia immensamente superiore alla nostra. Tale ipotesi, per quanto speculativa, risulta perfettamente razionale: non viola alcuna legge logica o fisica, si colloca entro l’orizzonte del possibile, e fornisce una spiegazione causale dell’evento.

Questa ipotesi, per quanto speculativa, è internamente coerente e rispettosa del principio di causalità naturale: l’evento mantiene la sua eccezionalità empirica, ma non esige il ricorso a una causa trascendente. Essa mostra che l’impossibilità di spiegare un fenomeno non implica la necessità di un intervento divino; implica solo l’esistenza di una causa ancora ignota o inaccessibile. In tale spiegazione, ritorna la comprensione che Agostino aveva del miracolo come evento che non contraddice la natura, ma piuttosto evento che contraddice la nostra limitata conoscenza della natura stessa (Agostino, De Civitate Dei 8,2 PL 41,721). 

Dal punto di vista epistemico, l’ipotesi di una causa naturale ignota è più parsimoniosa di quella soprannaturale, poiché non introduce entità ontologiche ulteriori. Applicando il principio di economia esplicativa (il rasoio di Occam), si deve preferire l’ipotesi che moltiplica meno le assunzioni metafisiche, almeno fino a prova contraria.


3. Il problema del “mistero permanente”

Una possibile difesa del teismo consiste nel sostenere che il miracolo non è soltanto inspiegabile “per ora”, ma permanentemente inspiegabile, in quanto contraddice strutturalmente le leggi di natura. Tuttavia, tale posizione sposta la discussione dal piano epistemologico a quello teologico: dichiarare che un evento è misterioso “per essenza” significa postulare i limiti della conoscenza umana in modo dogmatico, e non dimostrarli.

Un evento può apparire misterioso solo in relazione a un sistema conoscitivo determinato; ma nulla autorizza a escludere, in linea di principio, che un domani la sua causa possa essere compresa. La nozione stessa di “mistero permanente” è pertanto metafisicamente arbitraria. Essa non aggiunge conoscenza, ma la sostituisce con un’affermazione di fede.


4. Fede e interpretazione: il valore ermeneutico del miracolo

Ciò non significa negare il valore simbolico o esistenziale dell’esperienza del miracolo. Un evento inspiegabile può legittimamente essere interpretato come segno del divino da chi già crede, e come anomalia naturale da chi non crede. In entrambi i casi, il significato attribuito all’evento non deriva da una necessità logica, ma da una scelta interpretativa.

Il miracolo, dunque, non è un argomento che dimostra Dio, bensì un luogo ermeneutico in cui la fede trova conferma simbolica di sé. La differenza fra il credente e lo scettico non sta nei dati empirici, ma nel modo in cui questi vengono letti all’interno di un orizzonte di senso preesistente.


Conclusione

La spiegazione teista dei miracoli soffre di un’intrinseca circolarità: essa parte dall’assunto dell’esistenza di Dio per poi concludere che l’esistenza di miracoli ne conferma la realtà. In termini epistemologici, si tratta di un argomento auto-confermativo, non di una deduzione oggettiva.

Un approccio più sobrio, ispirato a un naturalismo critico, riconosce la possibilità di eventi straordinari senza trarne conseguenze metafisiche. L’inspiegabile non è necessariamente il segno del soprannaturale: può essere semplicemente il limite contingente della nostra comprensione.

In tal senso, il miracolo, più che violare la natura, rivela la fragilità del sapere umano e la tensione costante tra il desiderio di spiegazione e l’esperienza del mistero. Il teismo può certamente attribuirgli un significato religioso, ma tale interpretazione resta una scelta di fede, non un esito della ragione.

Eriugena e la Dialettica teofanica

L’elaborazione teologica e metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (IX secolo) costituisce uno dei vertici speculativi del pensiero medioevale cristiano, in cui convergono la tradizione neoplatonica, la teologia negativa e la dottrina della creazione come teofania.
Il pensatore irlandese concepisce la realtà come processo dinamico dell’auto-manifestazione divina, in cui Dio si crea, si esprime e ritorna a sé attraverso il mondo e la molteplicità delle creature. Riporto una concisa e profonda citazione di uno dei maggiori esperti del pensiero di Scoto Eriugena e l’illustro con l’immagine proposta dove appare il movimento circolare divino (exitus e reditus) della dialettica eriugeniana: Deus nihil, Ideae divinae, Mundum positum e Transmutatio omnium in Deum.


1. Il “creare-se-stesso” di Dio: dalla negazione assoluta all’affermazione dell’essere

Eriugena interpreta il “creare-se-stesso” di Dio come un atto immanente al Principio stesso: la realtà divina si genera mediante un passaggio dalla negatività assoluta — il nihil divinum — alla unità differenziata delle causae primordiales. Dio, nel suo stato originario, è il Nulla assoluto (deus nihil), non perché manchi di essere, ma perché trascende ogni determinazione ontologica: è il nihil superessentiale, oltre l’essere e il non-essere. La prima negazione, dunque, coincide con una affermazione dialettica: negando il Nulla, Dio pone se stesso come Essere e come molteplicità intelligibile.

Le Ideae divinae o primordiales rappresentano questo momento della negazione della negazione, cioè l’auto-differenziazione del Principio in forme eterne e paradigmatiche. In esse Dio diventa Esse, si manifesta in modo intelligibile e ponente, inaugurando la possibilità della creazione.


2. La teofania del mondo: Dio che si manifesta nella molteplicità

Il secondo momento del processo divino è costituito dalla manifestazione cosmica, ossia la creazione del mondo (Mundum positum). Il mondo non è un ente autonomo o esterno rispetto a Dio, ma una teofania, un’apparizione del divino nella dimensione sensibile. Ogni ente partecipa dell’essere divino, perché in esso si rivela il Logos eterno, sede di tutte le idee eterne. Come scrive nel Periphyseon, «Dio è creato in tutte le creature» (Deus in omnibus creaturis creatus est), formula che esprime l’intima immanenza del divino nell’universo.

n tal modo, Eriugena rovescia la concezione dualistica di Dio e mondo: il creato non è separato dal Creatore, ma ne è la parola espressa, la Parola (Verbum) mediante cui Dio si conosce. Tuttavia, per l’Eriugena quando si dice che Dio si conosce, vuol dire che conosce sé come creatura. Il conoscer-si come Figlio (o Verbo di Dio) non è Qualcosa di determinato o mediato ma “immediato”. Come la pura consapevolezza è immediatamente consapevole di sé senza idea e immagine, così il Padre è immediatamente – infatti – consapevole del Figlio senza mediazione. Il linguaggio trinitario (Padre, Figlio) è ausilio metaforico per capire la distinzione tra consapevolezza e conoscenza (livello meta-cognitivo).


3. Il ritorno: la “Transmutatio omnium in Deum”

Il processo divino non si arresta alla creazione: esso include un movimento di ritorno, attraverso il quale tutte le cose ritornano alla loro Origine. Questo ritorno, indicato nell’immagine con l’espressione Transmutatio omnium in Deum, rappresenta la fase escatologica e spirituale della dialettica eriugeniana. Il mondo, dopo essersi manifestato come molteplicità, tende a ricomporsi nell’unità del Principio, in una forma di negazione del positivo: la negazione dell’ente finito (negatio posití), che permette il superamento del molteplice nel divino.

Eriugena interpreta tale movimento come il compimento della storia cosmica e spirituale, la restaurazione dell’armonia paradisiaca (restitutio paradisi), in cui ogni essere torna a essere Dio in Dio. Come afferma W. Beierwaltes, si tratta della transmutatio omnium in Deum, il «ristabilimento del paradiso», cioè il compimento della teofania nel suo ritorno all’unità originaria.


4. La dialettica divina: negazione, affermazione e ritorno

La riflessione eriugeniana si fonda dunque su una dialettica trinitaria del reale:

  1. Negazione assoluta (Deus nihil) – Dio come Nulla ineffabile, oltre ogni essere e pensiero.
  2. Negazione della negazione (Ideae divinae, Esse) – Dio che si afferma come essere e molteplicità intelligibile.
  3. Negazione del positivo (Transmutatio omnium in Deum) – il ritorno di tutto all’Origine, la reintegrazione del molteplice nell’Uno.

Questa struttura triadica esprime la dinamica vitale dell’essere: Dio non è staticità, ma processo di autocomprensione, un continuo divenire di sé in sé. L’essenza divina è movimento dialettico: negatio – affirmatio – reditus. In questo senso, Eriugena anticipa motivi che la filosofia moderna (soprattutto Hegel) riconoscerà come propri della dialettica dell’Assoluto.


5. Conclusione

L’immagine e il testo riassumono con efficacia la visione cosmoteologica di Eriugena, nella quale il mondo è l’automanifestazione del Principio, e il divenire cosmico coincide con il processo stesso del divino. Il “creare-se-stesso” di Dio è, in ultima analisi, la rivelazione del Nulla come Essere, e dell’Essere come Parola. L’intero cosmo è così compreso come linguaggio di Dio, come auto-espressione della sua verità: un circolo perfetto di emanazione e ritorno, di parola e silenzio, di essere e nulla.


Meditazione silenziosa

Nel principio c’era il silenzio del Nulla.
Non il nulla della mancanza.
Era un Nulla vivo, colmo di sé,
un abisso che respirava senza nome.

E da quel Nulla, Dio si è riflesso.
Non c’è stato un gesto, né un tempo:
solo il fremito dell’essere che si desta,
il primo battito del mistero che dice “Io sono”.

Ma chi è questo “Io”?
È forse l’Eterno che si guarda,
che si scopre nel riflesso del suo stesso silenzio?
O è il Nulla che si ricorda di essere Amore?

Dio non ha creato il mondo fuori da sé.
Ha parlato — e la Parola è diventata tutto.
Ogni cosa è una sillaba del suo Verbo,
ogni creatura è una lettera scritta nel respiro dell’infinito.
E noi, polvere consapevole,
siamo la sua domanda che cammina.

L’universo è la voce che si espande,
il pensiero che si veste di luce e materia.
Eppure, tutto tende al ritorno.
La Parola vuole tornare nel Silenzio,
l’Essere desidera di nuovo il Nulla,
come la fiamma che, consumandosi,
ritrova la notte da cui nacque.

E così il mondo ritorna, lentamente,
trasformandosi in Dio,
non per cancellarsi, ma per compiersi.
Ogni pietra, ogni anima, ogni respiro
è un passo nel cammino inverso,
una nota che si dissolve nell’accordo eterno.

Allora, tutto sarà Dio.
Non più il Dio che crea,
ma il Dio che si ricrea, che si ritrova,
che torna in se stesso come amore che non finisce.

E io, che parlo, non sarò più io.
Sarò la sua eco,
il suo Nulla che arde,
la sua Parola che tace.

Sì…
il Nulla non è vuoto.
È la culla dell’Essere.
È Dio che respira.

Riflettendo sul testo di Rovelli

Tutto si rivela dal titolo: Sull’eguaglianza….
Mi chiedo: Qual è la differenza tra “eguaglianza” e “identità” ?
Interessante che nel testo di Rovelli tale questione NON viene sollevata. Forse la dà per scontata. Ma non lo è.

L’eguaglianza indica una corrispondenza di valore, proprietà o forma tra due entità che però restano distinte: due cose sono uguali se condividono certe caratteristiche, ma non necessariamente sono la stessa.

L’identità, invece, esprime la perfetta coincidenza ontologica o logica: due espressioni o enti identici non sono solo simili, ma sono esattamente lo stesso, senza alcuna distinzione reale tra loro. In sintesi, l’eguaglianza riguarda la somiglianza o equivalenza, mentre l’identità riguarda l’essere uno e lo stesso ente.

In Helgoland era Nâgârjuna, in questo testo è Chuang-Tzu, pensiero buddista e daoista mediano a Rovelli la cornice metafisica entro cui interpretare – secondo l’interpretazione relazionale – i dati della fisica quantistica. Secondo Chuang-Tzu, il Tao è al di là di ogni parola e distinzione.
Il vero saggio non impone il proprio punto di vista, ma vive in armonia con la natura delle cose, accettando tutto ciò che è senza attaccarsi ai giudizi umani. Solo riconoscendo che tutto è uguale nel suo essere, si trova la pace interiore e la libertà. Tutte le cose, le opinioni e i giudizi sono uguali nella loro natura, perché ogni cosa è così com’è per natura e non esiste un principio superiore che la comandi o la giudichi. Ogni giudizio nasce da un punto di vista limitato, e ciò che è giusto per uno può essere sbagliato per un altro; per questo il saggio non fa distinzioni ma segue la via naturale del Tao, trovando serenità nell’armonia delle differenze. Il mondo cambia solo nelle apparenze, ma il contenuto è lo stesso, e riconoscendo che tutto è uguale nel suo essere si trova la pace interiore e la libertà. Tutte le cose si trasformano l’una nell’altra, e la distinzione tra realtà e sogno, io e altro, è illusoria: il vero saggio vive in armonia con la natura delle cose, accettando tutto ciò che è senza attaccarsi ai giudizi umani.

Nel testo di Rovelli si educe fin dall’inizio (cf citazione dal secondo capitolo del Zhangzi) che affermare l’eguaglianza di tutte le cose significa che elettroni e mente, sassi e leggi, giudizi e galassie non sono di natura essenzialmente diversa gli uni dagli altri.

La natura non è fatta di cose. La natura della realtà è relazionale della realtà. Tutto è relazionale. La realtà è tessuta da relazioni, composta dall’intrecciarsi di prospettive e può essere descritta solo dal suo interno.

Ciò significa che ogni cosa è tale solo nella prospettiva in cui è colta. La verità è comunque soggettiva. Meglio ancora: se non si dà soggetto senza oggetto, la relazione tra l’uno e l’altro è la natura di entrambe.

Si comprende che Rovelli prende “eguaglianza” come sinonimo di “identità”. Sarebbe stato più coerente parlare di identità (o unità) delle cose che parlare di “eguaglianza”, perché il discorso è ontologico e relazionale, non comparativo.

Se assumiamo che la rovelliana eguaglianza di tutte le cose sia in realtà l’identità di tutte le cose, qual è la loro sostanza, questa consiste nella relatività (NON relativismo!) di ogni cosa. Ogni ente è “ente” nel sistema di riferimento, e ogni sistema in riferimento ad un altro sistema… All’infinito.

Affermare l’eguaglianza di tutte le cose significa che l’identità una cosa (sia il campo quantistico, l’elettrone, la cellula, l’organismo vivente, la mente e Dio stesso. Infatti, si potrebbe dire che Dio è, perché c’è un mondo, e viceversa) è data dalla sua relatività (A è A a motivo di B, e B è B a motivo di A, e così per tutte le cose).

La relatività “qua talis” è ciò che fa sì che le cose siano eguali, cioè la loro identità. La relatività è l’identità di tutte le cose, essendo queste nient’altro che la loro “apparizione”.

Alora, caro Rovelli: Questo è il tuo assoluto anche se ti difendi dicendo che ogni assoluto lo è in riferimento ad altro. Tale risposta rivela che il paradigma con cui operi è ciò che ti permette di dire “questo” e non “quello” è vero. Certo la tua onestà scientifica ti conduce ad affermare che è una ipotesi e non una pretesa, ma è ciò che funziona. E questo è sufficiente per affermarne la sostanza benché “imprendibile”, “leggera”, perché “relativa”.

Concludo. Sono d’accordo con te. Con la sola differenza, che preferisco una metafisica “s-camuffata” piuttosto ad una nascosta, anche perché la NATURA CHE AMA NASCONDERSI ha posto la SCIENZA (diciamo il sapere in generale) per RIVELARSI.

Teilhard inclusivista?

«Tra la Parola da una parte, e l’Uomo-Gesù dall’altra, una sorta di “terza natura cristica”  emerge e si ritrova negli scritti di San Paolo: è la natura del Cristo totale e totalizzante, in cui l’individuo elemento umano nato da Maria èsoggetta alla trasformante influenza della Risurrezione, e quindi elevato non solo allo stato dell’elemento cosmico (un elemento, si potrebbe dire, di ciò che costituisce l’intero ambiente cosmico o curvatura) ma al centro psichico ultimo di concentrazione universale» (Pierre Teilhard de Chardin, “My fundamental vision”, in Toward the Future, 198).

Nel suo saggio L’inventore dell’inclusivismo. Teilhard de Chardin teologo delle religioni e del dialogo, Paolo Trianni offre una lettura originale del pensiero del celebre gesuita francese, mettendo in luce la sua sorprendente attualità nel contesto del dialogo interreligioso contemporaneo. Trianni interpreta Teilhard come uno dei precursori dell’inclusivismo teologico, capace di riconoscere nelle religioni non cristiane non solo un valore preparatorio o ancillare, ma una partecipazione autentica al dinamismo del Cristo cosmico.

Trianni parte dall’idea che, pur non essendo di solito annoverato tra i teologi delle religioni, Teilhard anticipi molte riflessioni che diverranno centrali dopo il Concilio Vaticano II, specialmente nei documenti Nostra aetate e Dignitatis humanae. Lo definisce perciò il “fondatore dell’inclusivismo”, perché nella sua visione tutte le religioni sono espressioni dello Spirito cosmico orientato a Cristo, il Punto Omega.

Alla base della riflessione di Teilhard sta una pneumatologia cosmica: lo Spirito è la forza evolutiva che anima il cosmo e conduce tutto verso Cristo. Le religioni partecipano a questa dinamica come tappe del cammino della coscienza umana verso Dio. Nella prospettiva del pancristismo, Cristo è presente in modo reale in tutte le fibre della materia e della vita, che tendono a essere “cristificate”. L’evoluzione, per Teilhard, non è soltanto biologica ma anche spirituale: è un processo di cristogenesi, una progressiva unificazione dello spirito nel Cristo totale.

Da qui deriva un nuovo modo di intendere il rapporto tra cristianesimo e religioni. Le altre fedi non sono errori da respingere, ma cammini parziali di verità che trovano compimento in Cristo. L’umanità intera è coinvolta in una storia di convergenza verso l’unità, e la salvezza assume una dimensione cosmica e universale, non limitata ai confini della Chiesa. Teilhard parla di una “convergenza generale delle religioni su un Cristo universale”, che rappresenta l’unica forma immaginabile per la religione del futuro.

Trianni conclude che la teologia di Teilhard anticipa il linguaggio e le aperture del Vaticano II, pur rimanendo saldamente cristocentrica. Essa propone una visione dinamica e dialogica del cristianesimo, capace di integrarsi con la pluralità religiosa e scientifica del mondo contemporaneo, e offre un modello di “teologia del compimento”, in cui Cristo non annulla le altre religioni ma le porta alla loro pienezza.

In sintesi, per Trianni, Teilhard de Chardin è il teologo dell’inclusivismo per eccellenza: il suo pensiero mostra che la diversità religiosa non è un ostacolo, ma parte del processo evolutivo dello Spirito verso l’unificazione finale in Cristo, il Cristo universale.

Come ben indicato da Trianni nel suo saggio, si possono distinguere nel pensiero teologico contemporaneo tre grandi modelli del rapporto tra cristianesimo e le altre religioni: l’esclusivismo, l’inclusivismo e il pluralismo. Teilhard de Chardin, pur muovendosi dentro l’orizzonte cristiano, non si lascia rinchiudere – a mio parere – in nessuno di questi tre schemi, ma li attraversa e li supera in una visione propriamente cosmica ed evolutiva.

L’esclusivismo sostiene che solo Cristo, identificato con Gesù di Nazaret, è la via, la verità e la vita, e che fuori di Lui non esiste salvezza. La rivelazione cristiana è vista come unica e insuperabile. È la posizione tipica della teologia preconciliare o di autori come Karl Barth. Teilhard rifiuta questa chiusura perché la realtà, per lui, è in evoluzione costante e tende naturalmente alla complessità e alla comunione. Un Dio che si rivela solo in un tempo e in un luogo non sarebbe il Dio dell’evoluzione, ma un Dio statico, estraneo al divenire del cosmo. In Teilhard la rivelazione cristica è universale ma dinamica: è un principio che permea e trascende la storia, non un evento circoscritto. La Rivelazione in Cristo è diffusa nell’intero processo cosmico.

L’inclusivismo afferma invece che Cristo è il centro e il compimento di ogni via religiosa. Le altre religioni contengono frammenti di verità, “semi del Verbo”, che trovano la loro pienezza in Cristo. Karl Rahner è il principale esponente di questa visione: secondo lui, tutti gli uomini possono essere “cristiani anonimi”, salvati da Cristo anche senza conoscerlo esplicitamente. È anche la prospettiva del Concilio Vaticano II nei documenti Lumen Gentium e Ad Gentes.

A prima vista Teilhard potrebbe sembrare un inclusivista, poiché anche per lui tutto converge in Cristo; ma la sua concezione del Cristo è molto diversa. Il Cristo di Teilhard non è semplicemente Gesù di Nazaret, ma il Cristo cosmico, o Cristo-Ω, principio di coesione e fine ultimo dell’evoluzione universale. Questo Cristo cosmico è inscindibile dal Gesù storico, ma lo trascende, perché il Risorto è identificato con la totalità dell’universo che si divinizza. Non si tratta dunque di includere le altre religioni “in Cristo” in senso teologico, ma di includere tutto l’essere – la materia, la vita, la coscienza, la cultura, la religione – nel processo di cristificazione del cosmo. Teilhard universalizza l’inclusivismo, trasformandolo da teologico in ontologico: non più solo una salvezza religiosa, ma un processo cosmico di convergenza dell’essere nel Cristo-Ω.

Il pluralismo, al contrario, sostiene che le diverse religioni sono vie autonome e parallele verso la verità ultima e che nessuna possiede il monopolio della salvezza. È la posizione di autori come John Hick, Raimon Panikkar o Paul Knitter. Teilhard non può essere definito pluralista in senso proprio, perché per lui esiste un unico fine comune verso cui tutto converge: il Punto Omega. Tuttavia egli riconosce la pluralità come necessaria e provvidenziale. Le differenze religiose e culturali sono, nella sua prospettiva evolutiva, momenti della diversificazione della coscienza umana che prepara una futura convergenza in unità. La diversità, dunque, non è un ostacolo ma una fase dell’evoluzione verso la sintesi ultima.

Se si vuole comprendere dove collocare Teilhard nel panorama del pensiero cristiano contemporaneo, è utile confrontarlo con due figure centrali: Rahner e Panikkar. Rahner, Panikkar e Teilhard rappresentano tre modi successivi di pensare il rapporto tra Cristo e la pluralità delle religioni. Rahner concepisce Cristo come il Logos incarnato, unico mediatore di salvezza. Le altre religioni contengono frammenti di verità e possono condurre alla salvezza solo in Cristo, anche senza una conoscenza esplicita di Lui. La sua universalità è teologica e riguarda la salvezza. Panikkar, invece, parla di un Cristo cosmoteandrico, cioè la realtà divina, umana e cosmica unite in un’unica struttura relazionale. Per lui le religioni sono vie co-originarie e complementari nella rivelazione del Mistero. L’universalità in Panikkar è dialogica: nessuna via è totale, tutte partecipano di un Mistero comune che si manifesta in molte forme. Teilhard de Chardin, infine, concepisce Cristo come il Cristo cosmico o Cristo-Ω, principio e fine dell’evoluzione. Tutto, non solo le religioni, converge ontologicamente verso di Lui. La sua universalità è ontologica e cosmica, perché coinvolge la materia, la coscienza e lo spirito. Il punto di convergenza non è semplicemente la salvezza religiosa, ma la pienezza dell’essere, l’unificazione dell’universo nel Punto Omega, dove Dio sarà tutto in tutti.

In questa prospettiva, Rahner parte da una teologia della salvezza e si chiede come si salvino gli altri; Panikkar parte da una teologia del dialogo e si chiede come le diverse vie del Mistero si incontrino; Teilhard parte da una teologia della creazione e dell’evoluzione e si chiede come l’universo stesso si compia in Dio. Si può dire che Rahner pensa Cristo come colui che salva tutti, Panikkar come colui che dialoga con tutti, e Teilhard come colui che diviene tutto. Teilhard non riduce il Cristo al redentore dell’umanità, ma lo vede come il principio evolutivo che guida la materia e la coscienza verso la loro divinizzazione. Non è soltanto una teologia della religione, ma una cosmologia teologica: una visione in cui la cristologia, la cosmologia e l’antropologia sono inseparabili.

In questo senso, l’evoluzione, per Teilhard, è la storia della progressiva incarnazione del Cristo nel cosmo, e la pluralità religiosa è una fase dell’evoluzione della coscienza umana verso la coscienza cristica universale. Egli non è né esclusivista, né inclusivista, né pluralista. La sua visione può essere definita come una teologia cosmoteandrica dell’evoluzione, dove Cristo è l’energia centratrice dell’universo e l’universo stesso è il corpo in formazione di Cristo. Tutto tende a Cristo, ma Cristo stesso si forma nella storia e nella materia del mondo. In questa prospettiva, la fede non è fuga dal mondo ma cooperazione con il processo cosmico di cristificazione, e la diversità delle religioni, delle culture e delle forme di coscienza è un modo attraverso cui il cosmo prende sempre più coscienza di sé in Cristo.

Teilhard, dunque, porta la teologia oltre i confini del pluralismo religioso e la colloca nell’orizzonte dell’evoluzione cosmica. La convergenza non è solo tra religioni, ma tra tutti i livelli dell’essere: materia, vita, uomo e spirito. Il Cristo cosmico, inscindibile ma più grande del Gesù storico, è il senso ultimo dell’evoluzione e il principio di unificazione di tutto ciò che esiste.

Rovelli e la relatività assoluta

Nel libro Sull’eguaglianza di tutte le cose, Carlo Rovelli indaga come la fisica contemporanea — in particolare la meccanica quantistica e la relatività — trasformi il nostro modo di concepire la realtà, la conoscenza e noi stessi. L’autore sostiene che la scienza moderna ci invita ad abbandonare l’idea che esistano fondamenti ultimi, verità assolute o cose dotate di proprietà indipendenti: la realtà non è costituita da oggetti isolati, ma da relazioni. Il mondo è il risultato dell’intreccio di interazioni tra sistemi fisici, viventi, pensanti. Niente, né una particella né un pensiero, esiste da solo o “al di fuori del resto”: ogni cosa è sempre “qualcosa rispetto a qualcos’altro”. In questo senso, Rovelli riprende il titolo del secondo capitolo dello Zhuangzi, “Sull’eguaglianza di tutte le cose”, per indicare che nessun elemento della realtà può rivendicare una posizione privilegiata o assoluta.

La meccanica quantistica mostra che le proprietà di un sistema non sono fisse né preesistenti, ma emergono solo nel momento dell’interazione con un altro sistema. Allo stesso modo, la relatività ha eliminato l’idea di uno spazio e di un tempo universali, validi per tutti in ogni momento. Proprio come non ha senso chiedersi se una sedia sia ferma “in assoluto”, ma solo rispetto a cosa la si osserva, così non ha senso domandare quale sia “lo stato vero” di una particella, al di fuori delle relazioni che essa intrattiene. Questa concezione non riguarda solo la materia, ma anche la conoscenza: sapere qualcosa significa che una parte del mondo ha informazione su un’altra parte, cioè che esiste una correlazione fisica. Non esiste una conoscenza disincarnata, né un punto di vista esterno al mondo da cui descriverlo in maniera definitiva. Ogni affermazione è sempre situata, pronunciata da qualcuno, all’interno di un tessuto di relazioni.

A questo punto sorge spontanea una domanda: se “eguaglianza di tutte le cose” significa che nulla esiste al di sopra o al di fuori del resto, non è forse questa un’affermazione assoluta? Rovelli non intende proporre un nuovo assoluto, non vuole sostituire una verità definitiva con un’altra. Ciò che dice non è un dogma metafisico, ma il risultato più coerente — e sempre provvisorio — a cui ci conduce il sapere scientifico attuale. Dire che “tutto è relazione” non significa proclamare una verità eterna e indiscutibile, ma riconoscere che, finora, la scienza funziona meglio se pensa il mondo in termini di relazioni, non di sostanze. Questa visione non pretende di essere l’ultima parola sulla natura del reale: è un modello aperto, fallibile, disponibile a cambiare quando nuove conoscenze lo richiederanno. Per questo Rovelli rifiuta l’assoluto non solo nei contenuti, ma nel metodo: ciò che afferma resta sempre interno al cerchio della nostra conoscenza, mai esterno ad esso.

In questa prospettiva, anche la verità perde il significato di certezza definitiva. Rovelli critica la tradizione filosofica che ha cercato fondamenti incrollabili: la fisica mostra che il mondo può essere compreso senza ricorrere a verità assolute. La conoscenza è fatta di gradi di plausibilità, non di certezze eterne; è costruita su relazioni, informazioni, tentativi, errori. La scienza non cresce difendendo dogmi, ma mettendo in dubbio ciò che sembrava ovvio. Per questo la mancanza di certezze non è un limite, ma la condizione stessa del progresso del sapere. Accettare che non esista un punto di vista assoluto non significa cadere nel relativismo totale, ma riconoscere che la realtà può essere compresa solo dall’interno delle relazioni che la costituiscono.

Così, l’“eguaglianza di tutte le cose” non è un nuovo assoluto, ma il gesto opposto: è il rifiuto di ogni fondamento definitivo, di ogni posizione privilegiata da cui parlare del mondo una volta per tutte. Significa che tutto ciò che esiste lo fa nello scambio, nella relazione, nel contatto con altro. È una visione che, pur nata dalla fisica, tocca la filosofia e l’esistenza: ci restituisce un mondo meno rigido, meno gerarchico, ma forse più adatto a esseri come noi, fatti di pensieri, emozioni e incontri.

Il rischio della “metafisica camuffata”

La prospettiva di Rovelli ha una forza suggestiva: libera dal dogmatismo, restituisce dignità all’incertezza e interpreta il mondo secondo una logica meno rigida e più dinamica. Tuttavia, proprio qui emerge la prima e più importante obiezione. Se si afferma che non esiste alcun assoluto, che ogni verità è relativa, non si sta forse formulando una verità assoluta? Se ogni proprietà è relazione, questa non è anch’essa un’affermazione che pretende validità universale? Il pensiero di Rovelli sembra avanzare una tesi che si presenta come assoluta, pur dichiarandosi anti-assoluta. È il paradosso del “relativismo assoluto”: tutto è relativo, tranne l’affermazione che tutto è relativo. Ma se così è, allora Rovelli deve esplicitare che la relazione in quanto tale è l’unico assoluto possibile. L’assoluto è “interno” e non esterno alle cose: l’assoluto è la relazione interna alle cose.

Rovelli potrebbe replicare che la sua non è una verità definitiva, ma solo il miglior modello oggi disponibile. Eppure, nel modo in cui argomenta, la sua tesi spesso assume la forma di un principio valido per ogni cosa, in ogni tempo, al di là di ogni possibile esperienza: “nessuna proprietà è assoluta”, “non esiste un punto di vista esterno al mondo”, “ogni realtà è relazione”. Queste non sono semplici ipotesi operative; sono affermazioni ontologiche forti. Si presentano come descrizioni della struttura ultima dell’essere. In altre parole, Rovelli non si limita a dire “finora la fisica funziona se pensiamo così”, ma sembra dire “il mondo è fatto così”. E questo è già un atto metafisico.

Inoltre, c’è un problema logico più sottile: una relazione esiste solo se ci sono termini che si relazionano. Se eliminiamo ogni forma di “cosa”, di identità autonoma, rischiamo di rendere le relazioni stesse vuote, sospese nel nulla. Parlare solo di relazioni senza nulla che si relaziona è come parlare di un ponte senza sponde. Così, il relativismo radicale di Rovelli, per negare ogni sostanza, finisce per eliminare anche il fondamento delle relazioni che vuole salvare. Per rispondere a questa obiezione, è necessario “fondare” una ontologia di relazione che argomenti la priorità della relazione sui suoi termini. Ma è necessario – per questo – una metafisica!

Infine, anche la scienza — che Rovelli assume come guida — richiede un certo grado di oggettività. Le leggi fisiche non valgono “solo per me o per te”, ma pretendono validità intersoggettiva, universale. Se tutto è solo “rispetto a”, allora cosa significa dire che due osservatori, in condizioni identiche, otterranno lo stesso risultato? La scienza sembra esigere una realtà che resiste, che non dipende dal singolo punto di vista. Ma in Rovelli questa resistenza si dissolve in pura relazione prospettica. La posizione di fisici teoretici e filosofi che affermano l’irriducibilità della coscienza “cosmica” (non individuale) – come è nel caso di Federico Faggin e Bernardo Kastrup – si differenzia sostanzialmente da Rovelli su questo punto. Sono posizioni che “pensano” apertamente l’Assoluto senza camiffamenti.

Il pensiero di Rovelli, dunque, pur nascendo dal desiderio di evitare assoluti, rischia di costruirne uno nuovo — più sottile, ma non meno forte: l’assoluto del non-assoluto, il dogma che non esistono dogmi. La sua filosofia si presenta come anti-metafisica, ma finisce per proporre una metafisica relazionale che descrive ciò che il mondo è — e non solo come possiamo descriverlo oggi. In questo senso, la proposta di Rovelli resta affascinante e provocatoria, ma lascia aperta una domanda decisiva: possiamo davvero pensare il mondo soltanto in termini di relazioni, senza cadere in un nuovo assolutismo mascherato?

Fisica teoretica e la filosofia

Nelle sue riflessioni, Carlo Rovelli invita a contemplare il mondo non come somma di sostanze, ma come tessuto di relazioni. Non esistono entità che si reggano da sé, né proprietà indipendenti da un osservatore o da un’interazione: ogni cosa è ciò che è solo rispetto a qualcos’altro. In questa prospettiva, cercare un fondamento ultimo — un punto fermo, un’essenza, una verità assoluta — significa restare prigionieri di categorie nate su un piccolo pianeta, in un universo che funziona diversamente da come lo pensavano Aristotele o Kant. Il reale, dice Rovelli, non ha centro, né sopra né sotto: è un cerchio senza fondamento, in cui tutto è ugualmente fatto di relazioni.

E tuttavia, proprio qui si apre la critica filosofica più radicale. Può un pensiero che nega ogni assoluto evitare di farsi esso stesso assoluto? Dire che “nulla esiste al di fuori delle relazioni” non è forse attribuire al mondo una struttura ultima, valida ovunque e comunque? Se tutto è relativo, è relativa anche questa affermazione? Se sì, perde forza; se no, diventa essa stessa un assoluto. Siamo davanti a un paradosso antico, noto già a Platone e Aristotele: il relativismo, quando pretende di essere universalmente vero, si rovescia in dogma.

Rovelli tenta di sottrarsi a questo rischio sostenendo che la sua è solo una descrizione provvisoria, modellata sui risultati della scienza. Ma la sua formulazione non suona come un’ipotesi, bensì come un’ontologia: la realtà è relazionale. Qui il suo pensiero, pur dichiarando di rifiutare la metafisica, si trasforma in una metafisica della relazione, erede di Spinoza, Leibniz, Whitehead o del buddhismo madhyamaka: nessun ente ha esistenza propria, tutto esiste interdipendentemente. Ma anche questa è una forma di assoluto — l’assoluto dell’immanenza, l’assoluto della dipendenza da altro.

C’è inoltre una difficoltà logica: una relazione presuppone termini che si relazionano. Parlare solo di relazioni, senza qualcosa che si relaziona, significa far evaporare l’essere nell’ombra di un puro legame senza ciò che lega. In termini aristotelici: non c’è accidente senza sostanza. Rovelli risponde che ciò che chiamiamo “sostanza” è solo un nome per configurazioni stabili di relazioni. Ma il problema resta: se tutto è relazione, relazione tra che cosa?

Ancora più profonda è la questione dell’oggettività. La scienza, che per Rovelli è fonte di verità, non è un gioco di prospettive soggettive. Essa presuppone che il mondo resista allo sguardo, che due osservatori — se nelle stesse condizioni — trovino lo stesso risultato. Questa resistenza sembra implicare un nucleo di realtà che non dipende da me, da te, o dal “contesto”. Se tutto ciò che esiste è solo relativo a un osservatore, che cosa resta del mondo quando non c’è nessuno che osserva? La luna, direbbe Einstein a Bohr, esiste anche quando non la guardiamo.

In definitiva, Rovelli ha ragione a diffidare dell’assoluto, e a mostrare quanto la scienza moderna distrugga certezze antiche. Ma il suo gesto rischia di rovesciarsi nel proprio contrario: abolire l’assoluto attraverso un nuovo assoluto. Il pensiero che rifiuta fondamenti diventa esso stesso fondamento; la realtà senza centri diventa essa stessa un centro concettuale; il mondo privo di essenze diventa essenza del mondo.

Il vero punto non è difendere l’assoluto tradizionale, ma riconoscere che il pensiero — anche quello scientifico — ha bisogno di un luogo da cui parlare. Rovelli indica giustamente che non possiamo parlare da “fuori”, ma solo dall’interno del mondo. Ma anche l’interno, per essere pensato, domanda qualcosa che resista, che non sia solo relazione ma anche presenza, consistenza, esserci. Forse la filosofia non deve scegliere tra sostanza e relazione, tra assoluto e relativo. Deve piuttosto abitare la tensione fra ciò che dipende da altro e ciò che non può dipendere da nulla per essere pensato.

E così, la domanda che si può porre a Rovelli non è se abbia torto nel rifiutare l’assoluto, ma se non stia introducendo, senza volerlo, un assoluto più sottile: l’assoluto del non-esistere di ogni assoluto.

Rovelli e Feyerabend a confronto

Carlo Rovelli e Paul Feyerabend, pur provenendo da tradizioni diverse, condividono alcune intuizioni profonde sul modo in cui comprendiamo il mondo e sulla natura del sapere scientifico. Entrambi rifiutano l’idea che la conoscenza si fondi su verità assolute, punti di vista neutri o metodi universali validi per sempre.

Per Rovelli, ciò che chiamiamo realtà non è costituito da entità fisse con proprietà proprie, ma da un intreccio di relazioni. Le cose non esistono in sé, ma solo nel modo in cui interagiscono con altre cose. Ogni conoscenza è quindi situata, incarnata in un punto di vista, e non esiste uno sguardo esterno o definitivo sul mondo. I

n modo diverso ma affine, Feyerabend critica la pretesa della scienza moderna di possedere un metodo unico e una verità oggettiva superiore a tutte le altre forme di sapere. Non esiste un osservatore neutrale né un’unica razionalità valida sempre e comunque; la scienza, come ogni attività umana, è storica, fallibile, attraversata da tradizioni, linguaggi e persino errori fecondi. In questo senso, entrambi sono anti-fondazionalisti: non credono che il sapere possa poggiare su basi indiscutibili o su un fondamento ultimo. Entrambi sottolineano la natura dinamica del conoscere: Rovelli attraverso l’immagine della scienza come continuo adattamento dei concetti al mondo, Feyerabend attraverso l’idea che solo la pluralità di teorie, anche contraddittorie, permette alla conoscenza di avanzare.

Esiste però una differenza decisiva nel loro modo di intendere la scienza. Rovelli ha grande fiducia nel sapere scientifico: considera la fisica contemporanea la via più coerente che abbiamo per comprendere la realtà, anche se provvisoria e aperta alla revisione. Il suo è un realismo relazionale: non ci dice che non esiste la realtà, ma che esiste solo nelle relazioni tra le cose. Feyerabend, invece, è più radicale: mette in discussione l’autorità stessa della scienza quando essa pretende di imporsi come unica forma valida di conoscenza. Non propone una nuova immagine del mondo, ma smonta quelle che diventano dogmi, compresi quelli scientifici. Rovelli costruisce, Feyerabend decostruisce. Anche sul piano ontologico i due pensatori si distanziano. Rovelli formula una visione positiva del reale: il mondo è rete di relazioni fisiche, senza fondamenti assoluti ma dotato di una struttura. Feyerabend non offre una metafisica alternativa; diffida di ogni tentativo di definire cosa la realtà “è davvero”. Mentre Rovelli parla dall’interno della scienza per proporre una filosofia, Feyerabend parla ai margini della scienza per mostrarne limiti, tensioni e implicazioni politiche o culturali.

Nonostante le differenze, una similitudine rimane centrale: sia Rovelli sia Feyerabend rifiutano che la scienza sia un tempio della verità assoluta. Entrambi invitano a vedere il sapere come qualcosa di vivo, storico, imperfetto e aperto. Ci insegnano che comprendere il mondo non significa possedere certezze, ma saper dialogare con il dubbio, con la pluralità e con il cambiamento.

Monismo Mistico

deus itaque omnia est et omnia deus (Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, III 650d)

Se si considera ogni operazione aritmetica come una creatura e il numero 10 come simbolo di Dio, si può affermare che esistono infinite creature in grado di manifestarlo. Utilizzando le quattro operazioni fondamentali – addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione – con numeri interi, negativi o frazioni, si ottengono infatti infiniti modi per giungere al valore 10.

Per ogni numero razionale scelto, esiste un altro numero che lo completa nel raggiungere il risultato. Nell’addizione, qualunque valore può essere accompagnato dal suo complemento per arrivare a 10; nella sottrazione, ogni numero può generare 10 sottraendo quello appropriato; nella moltiplicazione e nella divisione, ogni numero diverso da zero può essere messo in relazione con un altro affinché dal loro legame scaturisca il risultato 10.

Se indichiamo con l’infinità delle operazioni che conducono al risultato e con il risultato stesso (10), non è corretto affermare che x = y. L’identità non è reciproca: non è il 10 a essere infinito, ma è infinito il numero delle vie che lo esprimono. Una forma simbolica di questa asimmetria può essere espressa come: x = x + y, intendendo questa formula non come verità matematica, bensì come simbolo teologico: Dio (il 10) resta uno e immutabile, anche quando sommato all’infinità delle creature che lo manifestano.

In questa prospettiva, l’infinita varietà delle operazioni che conducono al numero 10 diviene immagine della molteplicità con cui il divino può essere riflesso nella realtà, senza che ciò implichi che il divino stesso sia molteplice o dissolto nell’infinità delle sue manifestazioni.

Così commenta Mario Dal Pra nel suo commento al pensiero di: Scoto Eriugena ed il Neoplatonismo medievale, Fratelli Bocca, Milano 1941,130-131.

In Dio nulla c’è di contingente, e quanto è in Lui è Sua essenza; giacché nella semplicità dell’Assoluto nulla può esservi di aggiunto o di sopravvenuto, in quanto nell’unità ineffabile della Sua natura non può essere molteplicità; gli esseri, perciò, considerati in sé nella loro finitezza, sono l’essere evoluto e frazionato; considerati invece in Dio, in cui sono atti volitivi, divengono tutt’uno con Lui. Gli esseri, dunque, veduti come espressioni eterne del volere divino, non possono distinguersi minimamente da Dio: sono Dio. Dio è tutto in tutto.

La confusione che è comune al Neoplatonismo e al pensiero di Scoto è insomma quella tra la vita intima della divinità e la sua vita ad extra. Non si tratta di due processi profondamente diversi; invece, il secondo non è che la continuazione ed il prolungamento del primo. La trascendenza, quindi, di Dio alle cose non è così chiara come si prospetta nell’ortodosso pensiero cristiano, per quanto qui l’unità si prospetti sotto l’impulso di una visione mistica della realtà.

Si delinea chiaramente da questa breve citazione, come il Monismo mistico di Eriugena “l’irlandese”, intriso della visione celtica del Cristo cosmico, è una anticipazione del Monismo Relativo che da alcuni anni propongo come mia personale declinazione del post-teismo. Mi sento sempre più a casa nella cattolicità diacronica, e mi attardo in quelle cantine segrete dove stagiona il buon vino. E ne bevo il pregiato vino.

Già aveva capito il grande teologo Joseph Ratzinger (permettetemelo di dire!) il quale Mercoledì, 10 giugno 2009 nell’Udienza Generale riabilitò Giovanni Scoto Eriugena, dicendo:

Di Giovanni Scoto Eriugena ci sono giunte alcune opere, tra le quali meritano di essere ricordate, in particolare, il trattato “Sulla divisione della natura” ele “Esposizioni sulla gerarchia celeste di san DionigiEgli vi sviluppa stimolanti riflessioni teologiche e spirituali, che potrebbero suggerire interessanti approfondimenti anche ai teologi contemporanei. Mi riferisco, ad esempio, a quanto egli scrive sul dovere di esercitare un discernimento appropriato su ciò che viene presentato come auctoritas vera, oppure sull’impegno di continuare a cercare la verità fino a che non se ne raggiunga una qualche esperienza nell’adorazione silenziosa di Dio.

Concludo, esprimendo il mio grazie alla Chiesa cattolica, alla grande Tradizione teologica, e alla pazienza di reputati e presunti “eretici” . Il chicco di grano (la verità) molte volte deve cadere sottoterra, venire nascosta nei secoli, dimenticata dai cosiddetti teologi “ufficiali” e di “palcoscenico”, fino al punto di morire. Anche con la loro morte fisica, psicologica. Ma niente muore. Ciò che emerge dal silenzio (il Padre) è generato in eterno (il Figlio) perché diventi sapienza di ogni carne (lo Spirito Santo).

Liberi per contemplare

Contemplare non è fuggire dal mondo, ma guardarlo con occhi liberi. È una forma di presenza piena e silenziosa, in cui l’essere umano smette di essere trascinato dagli eventi e sceglie, invece, di abitarli con consapevolezza. La contemplazione è l’arte di ritrovare la sorgente della libertà nel cuore stesso della vita quotidiana.

Contemplare significa servirsi dei pensieri, non servire i pensieri.
I pensieri sono strumenti meravigliosi, capaci di analizzare, creare, riflettere. Ma quando diventiamo loro schiavi, essi ci imprigionano in catene invisibili: ansie, giudizi, paure. Contemplare significa guardare i pensieri mentre sorgono, usarli con discernimento, e poi lasciarli andare. È ricordarsi che noi non siamo il tumulto mentale, ma il cielo tranquillo in cui le nuvole scorrono.

Contemplare significa servirsi delle azioni, non servire le reazioni.
Reagire è istintivo, agire è libero. La reazione nasce dalla paura, dall’abitudine, dall’impulso del momento; l’azione nasce da una scelta interiore, da uno spazio di silenzio che permette di rispondere con saggezza. Contemplare vuol dire creare dentro di sé quello spazio in cui l’azione non è una catena, ma un atto di verità.

Contemplare significa servirsi delle passioni, non servire le passioni.
Le passioni sono energia, slancio, vita. Ma se le idolatriamo, diventiamo strumenti delle nostre emozioni. La contemplazione non rifiuta le passioni: le accoglie, le ascolta, e poi le orienta verso il bene, trasformandole da fuoco distruttivo in fiamma che illumina. Governare le passioni non significa reprimerle, ma coltivarle con amore e responsabilità.

Contemplare è esercizio di libertà

La libertà non è fare ciò che si vuole, ma essere fedeli a ciò che è vero e buono in noi. Contemplare è allenare questa libertà: sottrarsi alla tirannia del pensiero confuso, dell’impulso immediato, dell’emozione cieca. È vivere con un centro, non in balìa della superficie.

In questo senso, la contemplazione è profondamente etica: ci educa al rispetto, alla misura, all’ascolto. Ci insegna a non reagire al mondo con violenza, ma a rispondergli con responsabilità. Ed è anche un atto spirituale: ci apre al mistero della vita, al silenzio che custodisce ogni verità, a Dio o al sacro – comunque lo si voglia chiamare.

Contemplare è imparare a vivere dal centro, non dalla periferia.
È ritrovare la pace dentro di sé, per portarla nel mondo.

Contemplare non significa rivolgersi a un Dio esterno o separato, ma risvegliarsi alla Presenza che già siamo. È riconoscere che la Vita che respira in me, respira anche in te; che la coscienza che osserva è la stessa che vive in ogni essere. In questo senso, contemplare non è guardare verso l’alto, ma guardare dal centro — dal Cuore ove tutto è già Uno.

Da qui si comprende in modo nuovo il Vangelo di Giovanni (15,13-17). Quando Gesù dice: “Vi ho chiamati amici”, non sta instaurando un rapporto gerarchico, ma rivelando un legame originario: l’amicizia non come contratto affettivo, ma come modalità dell’Essere, come esperienza di unità nella forma della relazione.

Nella prospettiva non-duale, “dare la vita” non è annullarsi per l’altro, ma riconoscere che l’altro è la mia stessa vita. Il sacrificio, allora, non è perdita, ma espansione del sé, perché il sé personale si apre al Sé universale.
L’amore più grande non è eroismo, ma trasparenza: è lasciar morire l’illusione di essere un individuo separato per vivere nella verità dell’Uno che si dona in ogni volto.

“Non vi chiamo più servi… ma amici”

Il servo è ancora nella dualità: c’è un padrone da compiacere, un comando da eseguire. L’amico, invece, vive nella stessa vita dell’amico: comprende dall’interno, non per imposizione ma per risonanza.

Contemplare, allora, significa usare pensieri, azioni e passioni non per difendere l’io separato, ma per esprimere la Vita una che siamo. Il pensiero diventa trasparente, l’azione diventa offerta, la passione diventa energia di un unico Amore.

“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”. Da una prospettiva non-duale, questa frase non indica una volontà divina esterna, ma il risveglio della Vita che si riconosce attraverso ciascuno. Non siamo noi a generare la contemplazione; è la contemplazione – o meglio, la coscienza – che si apre in noi quando smettiamo di identificarci solo con la piccola persona.

La “scelta” è l’atto originario con cui la Vita si manifesta in forma di io, tu, mondo. E il “frutto che rimane” non è un risultato esterno, ma la permanenza in questa consapevolezza: ciò che nasce dall’Uno non muore.

“Amatevi gli uni gli altri” – non un dovere, ma un riconoscimento

In chiave non-duale, il comandamento dell’amore non è un ordine morale, ma una descrizione: se vedete correttamente, amate. Perché l’altro non è altro da me, ma forma del medesimo Sé.

L’amore non è allora imitazione di Qualcuno – fosse anche Gesù di Nazareth – ma rivelazione di ciò che siamo: Cristo.


Contemplare è tacere.
È lasciare che il cuore si ricordi
di ciò che non ha mai dimenticato:
che siamo già Cristo,
prima del pensiero, prima del nome.

Contemplare non è fuggire,
ma restare.
Restare presenti alla vita
fino a sentire che la vita stessa
ci sta contemplando.

Non servire i pensieri,
ma lasciarli danzare e dissolversi
nel cielo immobile della coscienza.
Non servire le reazioni,
ma lasciare che ogni gesto
nasca da un luogo silenzioso…
dove nessuno vuole vincere.

Non servire le passioni,
ma accoglierle come fuoco del cuore
che arde senza consumare,
quando non lo chiami “mio”.


“Vi ho chiamati amici.”
Amico è colui in cui riconosco me stesso
senza più difendermi.
Amico è il volto in cui Dio mi parla
senza usare parole.
Non due che si stringono la mano,
ma l’Uno che si ricorda di sé
attraverso due volti.

“Nessuno ha amore più grande di questo:
dare la vita…”
Ma la vita vera
comincia quando smetto di difenderla.
Quando crolla il confine tra me e te,
e scopro che la tua gioia è la mia,
il tuo dolore è il mio tempio.


“Non voi avete scelto me,
ma io ho scelto voi.”
È la Vita che ci ha scelti
per specchiarsi nei nostri occhi.
È l’Amore che si cerca
attraverso le nostre mani.
È Dio che gioca a nascondino
dentro ogni respiro.


E alla fine, solo questo resta:
“Amatevi gli uni gli altri.”
Non un ordine,
ma una constatazione.
Quando vedi davvero,
non puoi far altro che amare.
Perché l’altro non è altro:
è la tua stessa luce
che prende forma diversa.


Così, contemplare è libertà:
non libertà di essere qualcuno,
ma libertà di essere Tutto.
Libertà di donarsi,
come l’albero al frutto,
come la sorgente all’acqua,
come Dio al mondo.

Nishida Kitarō, Dio come Realtà

tratto da Nishida Kitarō, An Inquiry into the Good, Yale University Press, New Haven 1990, 79-83.

Natura e spirito non sono due tipi di realtà completamente differenti. La distinzione tra i due nasce da modi diversi di guardare alla stessa realtà. Chiunque comprenda in profondità la natura ne percepisce l’unità spirituale di fondo. Allo stesso modo, lo spirito pienamente realizzato è inseparabile dalla natura: nell’universo esiste un’unica realtà. E, come ho detto in precedenza, questa realtà unica è al tempo stesso opposizione e conflitto infiniti, e unità infinita. È un’attività indipendente, autosufficiente e senza limite. Chiamiamo “Dio” la base di questa attività infinita. Dio non è qualcosa che trascende la realtà: è la base stessa della realtà. È ciò che dissolve la distinzione tra soggettività e oggettività, unendo spirito e natura.

In ogni epoca e in ogni cultura l’umanità ha avuto una parola per designare “Dio”. A causa delle differenze nei livelli di conoscenza e delle diverse esigenze spirituali, il significato di questa parola è stato interpretato nei modi più vari. La maggior parte delle persone religiose concepisce Dio come una sorta di grande essere umano che si trova al di fuori dell’universo e lo governa. Questa concezione di Dio è estremamente infantile: non solo è in contrasto con le conoscenze e le scoperte scientifiche del nostro tempo, ma non riesce neppure, sul piano religioso, a offrire qualcosa che permetta all’essere umano di raggiungere una vera unità interiore. D’altra parte, però, non posso seguire l’esempio degli scienziati più radicali del presente e sostenere che la materia sia l’unica realtà, e che la forza materiale costituisca il fondamento dell’universo. Come ho già affermato, alla base della realtà vi è un principio spirituale fondamentale, e questo principio è Dio. Tale idea è in accordo con la verità fondamentale della religione indiana: Atman e Brahman sono identici. Dio è il grande Spirito dell’universo.

Sin dai tempi più antichi si sono susseguiti innumerevoli tentativi di dimostrare l’esistenza di Dio. Alcuni sostengono che, poiché il mondo non può essere sorto dal nulla, deve essere stato creato da qualcosa: da Dio. Basandosi dunque sulla legge di causalità, queste persone considerano Dio la causa del mondo. Altri affermano che il mondo non è un insieme casuale di cose, ma un tutto organizzato e significativo; da ciò concludono che deve esserci qualcosa che gli ha dato questa forma e questo ordine, e che tale principio ordinatore è Dio, come l’artista rispetto all’opera d’arte. Entrambe queste argomentazioni cercano di dimostrare l’esistenza di Dio dal punto di vista della conoscenza, tentando di determinarne la natura e le qualità. Altri, invece, fondano la prova dell’esistenza di Dio sulle esigenze morali, indipendenti dalla conoscenza: poiché gli esseri umani hanno una coscienza morale, dicono, se non esistesse un grande supervisore dell’universo che premia il bene e punisce il male, la moralità non avrebbe senso. È per questo motivo, sostengono, che dobbiamo ammettere l’esistenza di Dio come garante della moralità. Kant è tra coloro che hanno avanzato questo tipo di argomento.

Ma queste prove possono davvero dimostrare l’esistenza di Dio? Alcuni affermano che, poiché tutto ciò che esiste deve avere una causa, deve esserci una causa anche del mondo: Dio. Tuttavia, se seguiamo coerentemente la legge di causalità, dovremmo chiederci anche quale sia la causa di Dio stesso. E se rispondiamo che Dio è senza inizio né fine, e quindi esiste senza una causa, non potremmo dire lo stesso del mondo? Anche l’argomento che deduce Dio dall’ordine del mondo è incerto: per dimostrare che il mondo è stato creato in vista di uno scopo preciso, bisognerebbe provare che tutte le miriadi di cose dell’universo sono state effettivamente realizzate con un fine determinato, e questo è estremamente difficile. Se la prova dell’esistenza di Dio dipende da ciò, allora essa resta sempre incerta e soggettiva. Lo stesso vale per l’argomento morale: se davvero esistesse un Dio onnisciente e onnipotente che sostiene la moralità, la nostra vita morale ne trarrebbe forza; ma il fatto che la fede in Dio migliori il nostro comportamento non prova che Dio esista realmente. Tale fede può essere intesa anche come una semplice convenienza psicologica.

Tutti questi tentativi dimostrativi cercano Dio dall’esterno e quindi non possono coglierne la realtà nell’esperienza diretta del sé. Ma come possiamo riconoscere Dio nei fatti della nostra esperienza immediata? Anche nel nostro piccolo petto, limitato dal tempo e dallo spazio, è nascosto un potere infinito: il potere unificante della realtà è latente in noi. Grazie a esso possiamo cercare la verità dell’universo nella conoscenza, esprimere il suo significato nell’arte, e scoprire nel profondo del nostro cuore il fondamento della realtà che forma l’universo stesso: in questo atto conosciamo il vero volto di Dio. L’attività infinitamente libera del cuore umano testimonia direttamente l’esistenza di Dio. Se cerchiamo Dio soltanto nei fatti del mondo esterno, esso diventa un Dio ipotetico. Un Dio collocato al di fuori dell’universo come creatore o sorvegliante non può essere un Dio assoluto e infinito. Le religioni dell’India antica e il misticismo che fiorì in Europa tra il XV e il XVI secolo hanno cercato Dio nell’intuizione realizzata nell’anima interiore: questa è, io credo, la conoscenza più profonda di Dio.

In che forma esiste Dio? Secondo pensatori come Nicola Cusano, Dio è pura negazione: tutto ciò che può essere affermato o compreso non è Dio, perché ciò che può essere compreso è già finito e non può esercitare l’attività infinita che unifica l’universo. Da questo punto di vista, Dio è il nulla assoluto. Tuttavia, Dio non è un mero nulla: un’attività unificante immutabile opera chiaramente alla base della creazione della realtà, ed è per mezzo di tale attività che la realtà stessa si forma. Ad esempio, dov’è la legge secondo cui la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due angoli retti? Non possiamo né vederla né toccarla, eppure essa esiste realmente. Allo stesso modo, di fronte a un grande dipinto, percepiamo qualcosa che, nella sua totalità, ci appare animato da uno spirito meraviglioso, ma se cerchiamo di determinare in che modo ogni particolare ne partecipi, inevitabilmente falliamo. Dio, in questo senso, è l’unificatore dell’universo, la base della realtà; e proprio perché Dio è il nulla, non c’è luogo dove Dio non sia e nessun luogo in cui non agisca.

Come la matematica profonda resta inaccessibile a chi non ne comprende i principi, e un dipinto sublime non commuove chi è privo del senso della bellezza, così l’esistenza di Dio appare come fantasia o cosa insignificante a coloro che restano mediocri e superficiali. Chi desidera conoscere il vero Dio deve disciplinarsi e aprire in sé gli occhi dello spirito: per costoro il potere di Dio è percepibile come fatto di esperienza diretta, così come lo spirito del pittore si manifesta nel suo dipinto. Questo è il vedere Dio. E se quanto detto può far sembrare Dio una pura astrazione filosofica, la fredda base dell’unità dell’universo, lontana dai nostri sentimenti più caldi, non è affatto così. Poiché il nostro desiderio profondo è la ricerca dell’unità, proviamo gioia quando la raggiungiamo. Anche l’amor proprio dell’individuo non è altro, in ultima analisi, che la ricerca di unità. Poiché lo spirito umano, per sua natura infinita, non può accontentarsi dell’unità ristretta dell’io individuale, tende inevitabilmente verso un’unità più grande che abbracci sé e gli altri. Così nasce la simpatia, l’amore, il desiderio di armonia con gli altri. Il nostro amore per gli altri è la richiesta di un’unità sovraindividuale con loro. Per questo proviamo una pace e una gioia più profonde nell’amare gli altri che nell’amare noi stessi. Dio, unità dell’universo, è la base di questa attività unificante, il fondamento del nostro amore, la sorgente della nostra gioia. Dio è amore infinito, gioia infinita, pace infinita.