Nel libro Sull’eguaglianza di tutte le cose, Carlo Rovelli indaga come la fisica contemporanea — in particolare la meccanica quantistica e la relatività — trasformi il nostro modo di concepire la realtà, la conoscenza e noi stessi. L’autore sostiene che la scienza moderna ci invita ad abbandonare l’idea che esistano fondamenti ultimi, verità assolute o cose dotate di proprietà indipendenti: la realtà non è costituita da oggetti isolati, ma da relazioni. Il mondo è il risultato dell’intreccio di interazioni tra sistemi fisici, viventi, pensanti. Niente, né una particella né un pensiero, esiste da solo o “al di fuori del resto”: ogni cosa è sempre “qualcosa rispetto a qualcos’altro”. In questo senso, Rovelli riprende il titolo del secondo capitolo dello Zhuangzi, “Sull’eguaglianza di tutte le cose”, per indicare che nessun elemento della realtà può rivendicare una posizione privilegiata o assoluta.
La meccanica quantistica mostra che le proprietà di un sistema non sono fisse né preesistenti, ma emergono solo nel momento dell’interazione con un altro sistema. Allo stesso modo, la relatività ha eliminato l’idea di uno spazio e di un tempo universali, validi per tutti in ogni momento. Proprio come non ha senso chiedersi se una sedia sia ferma “in assoluto”, ma solo rispetto a cosa la si osserva, così non ha senso domandare quale sia “lo stato vero” di una particella, al di fuori delle relazioni che essa intrattiene. Questa concezione non riguarda solo la materia, ma anche la conoscenza: sapere qualcosa significa che una parte del mondo ha informazione su un’altra parte, cioè che esiste una correlazione fisica. Non esiste una conoscenza disincarnata, né un punto di vista esterno al mondo da cui descriverlo in maniera definitiva. Ogni affermazione è sempre situata, pronunciata da qualcuno, all’interno di un tessuto di relazioni.
A questo punto sorge spontanea una domanda: se “eguaglianza di tutte le cose” significa che nulla esiste al di sopra o al di fuori del resto, non è forse questa un’affermazione assoluta? Rovelli non intende proporre un nuovo assoluto, non vuole sostituire una verità definitiva con un’altra. Ciò che dice non è un dogma metafisico, ma il risultato più coerente — e sempre provvisorio — a cui ci conduce il sapere scientifico attuale. Dire che “tutto è relazione” non significa proclamare una verità eterna e indiscutibile, ma riconoscere che, finora, la scienza funziona meglio se pensa il mondo in termini di relazioni, non di sostanze. Questa visione non pretende di essere l’ultima parola sulla natura del reale: è un modello aperto, fallibile, disponibile a cambiare quando nuove conoscenze lo richiederanno. Per questo Rovelli rifiuta l’assoluto non solo nei contenuti, ma nel metodo: ciò che afferma resta sempre interno al cerchio della nostra conoscenza, mai esterno ad esso.
In questa prospettiva, anche la verità perde il significato di certezza definitiva. Rovelli critica la tradizione filosofica che ha cercato fondamenti incrollabili: la fisica mostra che il mondo può essere compreso senza ricorrere a verità assolute. La conoscenza è fatta di gradi di plausibilità, non di certezze eterne; è costruita su relazioni, informazioni, tentativi, errori. La scienza non cresce difendendo dogmi, ma mettendo in dubbio ciò che sembrava ovvio. Per questo la mancanza di certezze non è un limite, ma la condizione stessa del progresso del sapere. Accettare che non esista un punto di vista assoluto non significa cadere nel relativismo totale, ma riconoscere che la realtà può essere compresa solo dall’interno delle relazioni che la costituiscono.
Così, l’“eguaglianza di tutte le cose” non è un nuovo assoluto, ma il gesto opposto: è il rifiuto di ogni fondamento definitivo, di ogni posizione privilegiata da cui parlare del mondo una volta per tutte. Significa che tutto ciò che esiste lo fa nello scambio, nella relazione, nel contatto con altro. È una visione che, pur nata dalla fisica, tocca la filosofia e l’esistenza: ci restituisce un mondo meno rigido, meno gerarchico, ma forse più adatto a esseri come noi, fatti di pensieri, emozioni e incontri.
Il rischio della “metafisica camuffata”
La prospettiva di Rovelli ha una forza suggestiva: libera dal dogmatismo, restituisce dignità all’incertezza e interpreta il mondo secondo una logica meno rigida e più dinamica. Tuttavia, proprio qui emerge la prima e più importante obiezione. Se si afferma che non esiste alcun assoluto, che ogni verità è relativa, non si sta forse formulando una verità assoluta? Se ogni proprietà è relazione, questa non è anch’essa un’affermazione che pretende validità universale? Il pensiero di Rovelli sembra avanzare una tesi che si presenta come assoluta, pur dichiarandosi anti-assoluta. È il paradosso del “relativismo assoluto”: tutto è relativo, tranne l’affermazione che tutto è relativo. Ma se così è, allora Rovelli deve esplicitare che la relazione in quanto tale è l’unico assoluto possibile. L’assoluto è “interno” e non esterno alle cose: l’assoluto è la relazione interna alle cose.
Rovelli potrebbe replicare che la sua non è una verità definitiva, ma solo il miglior modello oggi disponibile. Eppure, nel modo in cui argomenta, la sua tesi spesso assume la forma di un principio valido per ogni cosa, in ogni tempo, al di là di ogni possibile esperienza: “nessuna proprietà è assoluta”, “non esiste un punto di vista esterno al mondo”, “ogni realtà è relazione”. Queste non sono semplici ipotesi operative; sono affermazioni ontologiche forti. Si presentano come descrizioni della struttura ultima dell’essere. In altre parole, Rovelli non si limita a dire “finora la fisica funziona se pensiamo così”, ma sembra dire “il mondo è fatto così”. E questo è già un atto metafisico.
Inoltre, c’è un problema logico più sottile: una relazione esiste solo se ci sono termini che si relazionano. Se eliminiamo ogni forma di “cosa”, di identità autonoma, rischiamo di rendere le relazioni stesse vuote, sospese nel nulla. Parlare solo di relazioni senza nulla che si relaziona è come parlare di un ponte senza sponde. Così, il relativismo radicale di Rovelli, per negare ogni sostanza, finisce per eliminare anche il fondamento delle relazioni che vuole salvare. Per rispondere a questa obiezione, è necessario “fondare” una ontologia di relazione che argomenti la priorità della relazione sui suoi termini. Ma è necessario – per questo – una metafisica!
Infine, anche la scienza — che Rovelli assume come guida — richiede un certo grado di oggettività. Le leggi fisiche non valgono “solo per me o per te”, ma pretendono validità intersoggettiva, universale. Se tutto è solo “rispetto a”, allora cosa significa dire che due osservatori, in condizioni identiche, otterranno lo stesso risultato? La scienza sembra esigere una realtà che resiste, che non dipende dal singolo punto di vista. Ma in Rovelli questa resistenza si dissolve in pura relazione prospettica. La posizione di fisici teoretici e filosofi che affermano l’irriducibilità della coscienza “cosmica” (non individuale) – come è nel caso di Federico Faggin e Bernardo Kastrup – si differenzia sostanzialmente da Rovelli su questo punto. Sono posizioni che “pensano” apertamente l’Assoluto senza camiffamenti.
Il pensiero di Rovelli, dunque, pur nascendo dal desiderio di evitare assoluti, rischia di costruirne uno nuovo — più sottile, ma non meno forte: l’assoluto del non-assoluto, il dogma che non esistono dogmi. La sua filosofia si presenta come anti-metafisica, ma finisce per proporre una metafisica relazionale che descrive ciò che il mondo è — e non solo come possiamo descriverlo oggi. In questo senso, la proposta di Rovelli resta affascinante e provocatoria, ma lascia aperta una domanda decisiva: possiamo davvero pensare il mondo soltanto in termini di relazioni, senza cadere in un nuovo assolutismo mascherato?
Fisica teoretica e la filosofia
Nelle sue riflessioni, Carlo Rovelli invita a contemplare il mondo non come somma di sostanze, ma come tessuto di relazioni. Non esistono entità che si reggano da sé, né proprietà indipendenti da un osservatore o da un’interazione: ogni cosa è ciò che è solo rispetto a qualcos’altro. In questa prospettiva, cercare un fondamento ultimo — un punto fermo, un’essenza, una verità assoluta — significa restare prigionieri di categorie nate su un piccolo pianeta, in un universo che funziona diversamente da come lo pensavano Aristotele o Kant. Il reale, dice Rovelli, non ha centro, né sopra né sotto: è un cerchio senza fondamento, in cui tutto è ugualmente fatto di relazioni.
E tuttavia, proprio qui si apre la critica filosofica più radicale. Può un pensiero che nega ogni assoluto evitare di farsi esso stesso assoluto? Dire che “nulla esiste al di fuori delle relazioni” non è forse attribuire al mondo una struttura ultima, valida ovunque e comunque? Se tutto è relativo, è relativa anche questa affermazione? Se sì, perde forza; se no, diventa essa stessa un assoluto. Siamo davanti a un paradosso antico, noto già a Platone e Aristotele: il relativismo, quando pretende di essere universalmente vero, si rovescia in dogma.
Rovelli tenta di sottrarsi a questo rischio sostenendo che la sua è solo una descrizione provvisoria, modellata sui risultati della scienza. Ma la sua formulazione non suona come un’ipotesi, bensì come un’ontologia: la realtà è relazionale. Qui il suo pensiero, pur dichiarando di rifiutare la metafisica, si trasforma in una metafisica della relazione, erede di Spinoza, Leibniz, Whitehead o del buddhismo madhyamaka: nessun ente ha esistenza propria, tutto esiste interdipendentemente. Ma anche questa è una forma di assoluto — l’assoluto dell’immanenza, l’assoluto della dipendenza da altro.
C’è inoltre una difficoltà logica: una relazione presuppone termini che si relazionano. Parlare solo di relazioni, senza qualcosa che si relaziona, significa far evaporare l’essere nell’ombra di un puro legame senza ciò che lega. In termini aristotelici: non c’è accidente senza sostanza. Rovelli risponde che ciò che chiamiamo “sostanza” è solo un nome per configurazioni stabili di relazioni. Ma il problema resta: se tutto è relazione, relazione tra che cosa?
Ancora più profonda è la questione dell’oggettività. La scienza, che per Rovelli è fonte di verità, non è un gioco di prospettive soggettive. Essa presuppone che il mondo resista allo sguardo, che due osservatori — se nelle stesse condizioni — trovino lo stesso risultato. Questa resistenza sembra implicare un nucleo di realtà che non dipende da me, da te, o dal “contesto”. Se tutto ciò che esiste è solo relativo a un osservatore, che cosa resta del mondo quando non c’è nessuno che osserva? La luna, direbbe Einstein a Bohr, esiste anche quando non la guardiamo.
In definitiva, Rovelli ha ragione a diffidare dell’assoluto, e a mostrare quanto la scienza moderna distrugga certezze antiche. Ma il suo gesto rischia di rovesciarsi nel proprio contrario: abolire l’assoluto attraverso un nuovo assoluto. Il pensiero che rifiuta fondamenti diventa esso stesso fondamento; la realtà senza centri diventa essa stessa un centro concettuale; il mondo privo di essenze diventa essenza del mondo.
Il vero punto non è difendere l’assoluto tradizionale, ma riconoscere che il pensiero — anche quello scientifico — ha bisogno di un luogo da cui parlare. Rovelli indica giustamente che non possiamo parlare da “fuori”, ma solo dall’interno del mondo. Ma anche l’interno, per essere pensato, domanda qualcosa che resista, che non sia solo relazione ma anche presenza, consistenza, esserci. Forse la filosofia non deve scegliere tra sostanza e relazione, tra assoluto e relativo. Deve piuttosto abitare la tensione fra ciò che dipende da altro e ciò che non può dipendere da nulla per essere pensato.
E così, la domanda che si può porre a Rovelli non è se abbia torto nel rifiutare l’assoluto, ma se non stia introducendo, senza volerlo, un assoluto più sottile: l’assoluto del non-esistere di ogni assoluto.
Rovelli e Feyerabend a confronto
Carlo Rovelli e Paul Feyerabend, pur provenendo da tradizioni diverse, condividono alcune intuizioni profonde sul modo in cui comprendiamo il mondo e sulla natura del sapere scientifico. Entrambi rifiutano l’idea che la conoscenza si fondi su verità assolute, punti di vista neutri o metodi universali validi per sempre.
Per Rovelli, ciò che chiamiamo realtà non è costituito da entità fisse con proprietà proprie, ma da un intreccio di relazioni. Le cose non esistono in sé, ma solo nel modo in cui interagiscono con altre cose. Ogni conoscenza è quindi situata, incarnata in un punto di vista, e non esiste uno sguardo esterno o definitivo sul mondo. I
n modo diverso ma affine, Feyerabend critica la pretesa della scienza moderna di possedere un metodo unico e una verità oggettiva superiore a tutte le altre forme di sapere. Non esiste un osservatore neutrale né un’unica razionalità valida sempre e comunque; la scienza, come ogni attività umana, è storica, fallibile, attraversata da tradizioni, linguaggi e persino errori fecondi. In questo senso, entrambi sono anti-fondazionalisti: non credono che il sapere possa poggiare su basi indiscutibili o su un fondamento ultimo. Entrambi sottolineano la natura dinamica del conoscere: Rovelli attraverso l’immagine della scienza come continuo adattamento dei concetti al mondo, Feyerabend attraverso l’idea che solo la pluralità di teorie, anche contraddittorie, permette alla conoscenza di avanzare.
Esiste però una differenza decisiva nel loro modo di intendere la scienza. Rovelli ha grande fiducia nel sapere scientifico: considera la fisica contemporanea la via più coerente che abbiamo per comprendere la realtà, anche se provvisoria e aperta alla revisione. Il suo è un realismo relazionale: non ci dice che non esiste la realtà, ma che esiste solo nelle relazioni tra le cose. Feyerabend, invece, è più radicale: mette in discussione l’autorità stessa della scienza quando essa pretende di imporsi come unica forma valida di conoscenza. Non propone una nuova immagine del mondo, ma smonta quelle che diventano dogmi, compresi quelli scientifici. Rovelli costruisce, Feyerabend decostruisce. Anche sul piano ontologico i due pensatori si distanziano. Rovelli formula una visione positiva del reale: il mondo è rete di relazioni fisiche, senza fondamenti assoluti ma dotato di una struttura. Feyerabend non offre una metafisica alternativa; diffida di ogni tentativo di definire cosa la realtà “è davvero”. Mentre Rovelli parla dall’interno della scienza per proporre una filosofia, Feyerabend parla ai margini della scienza per mostrarne limiti, tensioni e implicazioni politiche o culturali.
Nonostante le differenze, una similitudine rimane centrale: sia Rovelli sia Feyerabend rifiutano che la scienza sia un tempio della verità assoluta. Entrambi invitano a vedere il sapere come qualcosa di vivo, storico, imperfetto e aperto. Ci insegnano che comprendere il mondo non significa possedere certezze, ma saper dialogare con il dubbio, con la pluralità e con il cambiamento.