Una precisazione sottile

«Ego, la parola “io”, a nessuno appartiene più propriamente che a Dio nella sua unità. Vos significa “voi”: che voi siate una cosa sola nell’unità. Ovvero, ego e voi, io e voi, rimanda all’unità» (Meister Eckhart, Sermone 28: Io ho scelto voi dal mondo, in I Sermoni, Paoline, Milano 2002, 266.)

«Se Dio non fosse un Io, come potrei essere io stesso un Io? In fondo al mio io, alla radice, c’è l’Io di Dio. E dunque, se Dio è io, io sono il tu che egli si dice, che egli mi dice» (Henri Lesaux, Diario di un monaco cristiano-samnyasin hindu, Mondadori, Roma 2002, 432).

In alcuni suoi recenti interventi pubblici, Marco Vannini ha espresso le sue critiche rispetto ai nuovi orientamenti teologici del cosiddetto post-teismo o trans-teismo, diffusi nella teologia contemporanea (ad esempio in autori come il sottoscritto) , che tendono ad abbandonare o superare l’immagine tradizionale di Dio come soggetto personale, come Io. Tali correnti, nel tentativo di liberare il discorso su Dio da antropomorfismi e da categorie ormai culturalmente obsolete, propongono una visione di Dio come pura energia, processo, profondità dell’essere, oppure come semplice simbolo dell’Assoluto.

Vannini concorderebbe in parte con questa critica alle rappresentazioni mitiche o infantili di Dio ma avverte che, in questo processo, si compie spesso un passo ulteriore e più pericoloso: si arriva a negare che Dio possa essere pensato come un “Io”, ossia come soggetto, come autocoscienza. È qui che Vannini interviene in modo radicale.

Secondo Vannini, se Dio non è un Io, allora nemmeno l’uomo può esserlo. L’Io umano non è un dato semplicemente psicologico o biologico, ma ha radice metafisica. Il nucleo profondo dell’io umano — la coscienza, la libertà, l’autocoscienza — è un riflesso dell’Io divino. Eliminare l’idea di Dio come soggetto significa minare le fondamenta stesse della soggettività umana.

Per Vannini, la formula fondamentale è: L’Io umano ha la sua radice nell’Io di Dio.

Se Dio venisse ridotto a puro principio impersonale, forza cosmica o anonima profondità ontologica, l’uomo non potrebbe più pensarsi come persona. L’Io non può emergere da ciò che è non-personale. Solo ciò che è Io può generare l’io.

Questo è il punto in cui Vannini si distanzia tanto dal teismo ingenuo quanto dal post-teismo impersonale. Da Eckhart, Vannini eredita l’idea che Dio è sì oltre ogni rappresentazione, oltre ogni immagine, ma non è meno di un Io; è piuttosto l’Io originario, l’Io che non dice “io” contro un tu, ma è l’Io puro, assoluto, libero da ogni possesso, l’io che non è egoità (Ichheit o pseudo-io). Questo Io divino — assoluto e non egoico — è il principio da cui deriva la possibilità stessa dell’autocoscienza umana.

Perciò, spiega Vannini, eliminare Dio come “Io” non significa superarLo, ma perdere la sorgente stessa dell’interiorità: significa, in fondo, perdere l’uomo.

Vorrei a questo punto offrire una possibile alternativa a questa interpretazione di Eckhart, giocandola a favore del post-teismo.  Ciò che manca in Vannini – a mio parere – è una piena assunzione della distinzione eckhartiana tra divinitas e deus, che è tutt’altro che un dettaglio terminologico nel pensiero di Eckart: essa segna il passaggio cruciale tra l’Assoluto indeterminato e la sua manifestazione personale e relazionale. Mi faccio aiutare in questo da un interprete autorevole di Meister Eckhart: Shizuteru Ueda.

«”Dio” è Dio così come si rivolge alla creatura, e in particolare all’essere umano, e si manifesta come “qualcosa”, sia come Trinità, sia come Creatore, sia come Amore, sia come Verità, sia anche come “Dio”; in questo senso, “Dio” è ancora sempre figurativo. La seconda persona divina, ad esempio, il Figlio di Dio, è imago Dei, affinché e in quanto Dio si riconosca in sé stesso senza immagine e allo stesso tempo si manifesti all’uomo in forma figurativa (nella misura in cui è concepibile e nominabile come Figlio). Gli attributi trinitari e le cosiddette perfectiones generales, come bontà, giustizia, verità, ecc., sono il vestito con cui Dio si mostra all’uomo e insieme si nasconde a sé stesso. “Dio” è il lato esteriore di Dio. Là dove Dio si manifesta all’uomo come qualcosa, come figurativo, lì entra in gioco la fantasia da parte dell’uomo (l’uomo si rappresenta Dio come Dio); in questo senso, Dio è ancora “toccato” dall’uomo» (Die Gottesgeburt in der Seele und der Durchbruch zur Gottheit. Die mystische Antjropologie Meister Eckharts und ihre Knfrontation mot der Mystik des Zen-Buddhismus, Verlag Karl Alber, Baden-Baden, 2018, 114)

Eckhart introduce due essenziali distinzioni. Innanzitutto distingue tra Gott (Dio), il Dio personale, trinitario che si relaziona alla creatura ed è ancora “immagine”, e Gottheit (Divinità), il fondo assoluto, senza forme né relazioni, che è oltre anche Dio; è il puro Uno, la vera trascendenza. La seconda distinzione è tra divinità e fondo dell’anima che sono la stessa realtà. La Divinità è il fondo dell’anima e coincide con l’Uno semplice e senza proprietà. Ne deriva che il Seelenfünklein (la scintilla dell’anima) è identico all’intelletto puro, potremo dire alla pura consapevolezza, che è ciò in cui Dio e anima sono una sola cosa, prima e a fondamento dell’auto-coscienza (Io-Sono).

Dio e anima si trovano in una relazione reciproca dal punto di vista “esteriore”. Dal punto di vista “interiore”, invece, Dio e anima sono la stessa cosa. Questa interiorità è la divinità. A questo punto la questione dell’ “Io” (assoluto) di Dio si chiarifica. Secondo Eckhart, la parola “io” (ego) appartiene propriamente a Dio in quanto deus personalis, il Dio che si manifesta e si determina, che entra nell’ambito del dicibile e del rappresentabile, colui che può dire “Io” a un “altro”.

Dire “io” significa essere ancora nell’ambito di ciò che può essere pensato, nominato, distinto: implica un’identità che si afferma e che, proprio affermandosi, si pone in relazione, e dunque in uscita (Ausgang) dalla Divinità verso Dio (deo de deo) e verso le creature. Ma nella Divinità (Gottheit) — il fondo senza fondo (Abgrund), l’essenza trans-personale, l’Uno senza nome — non c’è alcuna distinzione, alcuna reciprocità, alcuna proprietà (Eigen-schaft), nessun Padre, nessun Figlio, nessuno Spirito, nessun “io” e nessun “tu”. Lì non si dà nemmeno il nome “Dio”, perché anche quel nome appartiene ancora all’ordine della manifestazione, dell’immagine, del relativo.

In questo senso, l’“io” appartiene a Dio, ma non alla Divinità: nella Divinità non c’è alcuna forma che possa dire “io”, perché ogni forma, ogni nome, ogni immagine (Bild) è già altro rispetto all’assoluta identità dell’Uno. Da ciò segue che nella Divinità vi è identità assoluta tra Dio e l’anima: non c’è più “io” e “Dio”, perché il pensare l’“io” implica già una distinzione, un duale, una relazione. Tutto ciò che si mostra come qualcosa — Dio come amore, come verità, come creatore, come figlio, come Trinità — è ancora immagine, è Gott, non Gottheit. Per questo si può dire che la parola “io”, riferita a Dio, secondo Eckhart, vale solo per Dio in quanto manifestazione personale, ma non per la Divinità, in cui Dio e l’anima condividono un medesimo fondo, una stessa sostanza, nella quale non vi è più alcun “io”. Dio può dire “io”, perché è ancora relazione reciproca (io e tu; io e voi), nome, immagine; la Divinità, invece, non può dire né “io” né “Dio”, poiché nell’abisso della Divinità non ci sono né Dio né anima, ma soltanto Uno.

Per Eckhart, la divinitas (Gottheit) è relatio absoluta, cioè pura origine, abisso indistinto, oltre ogni determinazione concettuale, persino oltre l’essere e oltre Dio stesso. È la sorgente divina nella sua quiete senza nome, che non ha ancora detto “Io”. Affermando che questa relatio absoluta è trans-personale non si afferma che è meno persona ma oltre la dialettica personale/impersonale.

A livello trans-personale, non c’è propriamente un dialogo, poiché nessun “io” e nessun “tu” hanno determinazione. La divinitas in quanto trans-personale e relazione assoluta precede ogni distinzione, alterità, logos. La divinitas è, per così dire, senza volto e senza parola.

Il deus invece – e in modo eminente il deus-trinitas – è il divenire della divinitas: è la divinità che si dice, che si manifesta come “Dio”. Qui l’Uno si fa relazione (reciproca), parola, volto. È in questo “divenire Dio” che emerge la distinzione delle Persone in Dio, e con essa la possibilità dell’io e del tu. E proprio in questo orizzonte nasce anche la possibilità della creatura, come ciò a cui il volto di Dio è ri-volto.

A questo livello, del deus-trinitas, Dio è certamente personale; a livello della divinitas, invece, non può essere pensato come l’Io assoluto (come talvolta sembra suggerire Vannini), poiché è differente, nel senso che pone la differenza tra Io e Tu, e con la diifferenza anche l’alterità. Dio è Io ed anche Tu, nella misura in cui – attraverso il Logos – si pone “relazionalmente”: Tu rispetto alla creatura. Ma questa struttura relazionale sorge solo nell’ambito del Deus, non nella divinitas. La divinitas, infatti, è relazione senza termini.

Ne consegue che Dio è Io – ma è anche Tu – all’interno della relazione reciproca (x + y), perché l’Io assoluto senza un Tu non sarebbe persona ma relazione assoluta (x = x). E proprio questo è ciò che distingue la pura divinitas (pura relazione assoluta senza termini) da deus (relazione reciproca). Il Monismo relativo (la mia particolare declinazione con cui assumo il post-teismo) articola questa dialettica eckhartiana tra divinitas deus in maniera relazione: x = x + y.


Sequeri fa digiuno di “Dio”

Intervento del teologo Pierangelo Sequeri (45:45 – 1:22:21)

Il teologo, oggi, è chiamato a trovare uno spazio nuovo, non per salvare la faccia, ma per non tradire la verità. Anche l’inchiesta che abbiamo ascoltato è stata condotta con eleganza: non puramente descrittiva, né ideologica, ma interpretativa. Un racconto con una vera ermeneutica, capace di mostrarci che quei dati non sono solo numeri, ma domande, provocazioni, fermento per la coscienza e per la fede.

Monsignor Delpini ha colto un punto decisivo: quando parliamo di Dio, dimentichiamo troppo facilmente Gesù, come se non fosse mai esistito. E cominciamo a chiedere: dov’è Dio? Che cosa fa? Perché ha lasciato morire il nonno o un bambino? Ma queste sono domande poste senza Gesù.

Anche noi abbiamo una responsabilità — non cattiva, ma reale. In un tempo in cui il catechismo e la narrazione di Gesù erano la norma, ci siamo accaniti sulla filosofia, sul confronto con la modernità, sulle prove razionali dell’esistenza di Dio, sulla metafisica. Era uno sforzo rispettabile, ma in fondo non ci avvicinava a Gesù.

Così, nei manuali di teologia, questi argomenti — esistenza di Dio, anima, libertà — sono diventati i preamboli della fede, la patente di razionalità che avrebbe reso la fede “accettabile”. E noi dicevamo: la fede è un dono, sì, ma non è assurda, non è irrazionale, non è distruttiva per l’uomo; anzi, trova sostegno nella ragione.

E ci siamo convinti che per difendere la fede bisognasse metterla da parte e discutere su un terreno neutro, “ad armi pari”. Così, per due secoli e mezzo, l’evangelizzazione si è spostata dalla narrazione di Gesù alla difesa della metafisica. Abbiamo speso energie a dimostrare ciò che noi stessi dicevamo non essere oggetto della fede. E abbiamo dato l’impressione che la fede dipendesse da lì.

In questo modo, senza volerlo, abbiamo finito per sbeffeggiare la fede: come se senza la metafisica non valesse nulla. E oggi vediamo i frutti: nei percorsi scolastici, letterari e filosofici, il cristianesimo veniva ridotto ai “grandi temi”: esistenza di Dio, libertà, male, dolore. Ma quasi mai si parlava di Gesù, del Vangelo, di come la forma evangelica della fede abbia generato cultura, arte, ospitalità, umanità.

Credo che oggi dobbiamo recuperare la compatibilità cristologica del discorso su Dio. Dobbiamo fare un digiuno: non assoluto, ma necessario. Non ha senso parlare di Dio senza parlare di Gesù e del Vangelo. È questo il post-teismo. Non mi interessa un Dio astratto, cosmologico, architetto dell’universo, se non vedo il suo volto nelle pagine evangeliche.

Dopo cinquant’anni di insegnamento in teologia fondamentale, posso dirlo: i laici non leggono libri di teologia fondamentale. Quando si interessano al cristianesimo, leggono la Bibbia, o la vita di Gesù. E, paradossalmente, oggi accade che siano i laici — che magari non credono — a spiegarci la Bibbia. Una situazione tenera, ironica, ma istruttiva.

Venendo al presente, dico: evitiamo di incoraggiare un ecclesiocentrismo difensivo, aggressivo, un “se diventi come me il problema è risolto”. Serve riscoprire l’ironia evangelica di Gesù, che smaschera ogni sicurezza religiosa. “Signore, cosa avremo noi che ti abbiamo seguito?”. “Avrete il centuplo… anche cento mogli”. Ecco l’ironia: Gesù svela le nostre pretese, senza distruggere la nostra ricerca.

La formula dell’evangelizzazione, allora, è semplice e radicale: Gesù è l’unico fondamento della mia fede. Non ho altro. Gesù è l’unico Salvatore del mondo. E non sono io.

Questo significa che l’amore di Dio riguarda anche chi non è come me, anche chi non lo sarà mai. Il battesimo non è prima di tutto un atto di reclutamento ecclesiale, ma un gesto che pone una vita sotto la protezione della benedizione di Dio. Un segno che dice: nulla, per l’eternità, potrà distruggere quella vita agli occhi di Dio.

Quanto alla crisi della fede, forse siamo diventati ciò che descrive quel monaco del X secolo, Olone di Sant’Emmeram: credente, osservante, ortodosso, ma privo di gioia, spento. Dice: “Io credo in Dio, credo in Cristo, credo nella Chiesa… ma nella mia vita questa fede non ha alcun peso”. Non sono incredulo, ma la fede non mi muove.

Cosa lo salva? L’intuizione che, anche se per lui la fede non ha più peso, potrebbe averlo per altri. Decide così di fondare una piccola comunità ospitale, dove altri possano vivere con gioia ciò che lui non sente più. E trova la sua pace non nel sentire, ma nel generare spazio per la fede degli altri.

Forse anche a noi tocca questo: creare luoghi dove la fede possa avere peso per qualcuno, anche se noi la sentiamo affievolita. Offrire ospitalità evangelica.

E qui Sant’Anselmo diventa maestro. Tutti parlano della prima parte del Proslogion, quella della “prova” dell’esistenza di Dio. Ma pochi leggono la seconda parte, dove Anselmo si chiede: “Questo Dio che ho dimostrato, mi commuove? Mi tocca? Ha un peso nella mia vita?”. Il vero incontro con Dio avviene quando qualcosa della sua bontà ci commuove senza tornaconto, quando siamo felici del bene dell’altro anche se non ne ricaviamo nulla. In quel momento — dice Anselmo — si apre lo spazio della presenza di Dio.

Ecco la fede che oggi può avere peso: non quella che calcola, dimostra o argomenta, ma quella che commuove, ospita, genera”.

Risposta in 10 punti a Sequeri:

1. Rischio di svalutare eccessivamente metafisica e “preamboli”

Sequeri denuncia giustamente quando i preambula fidei diventano il centro dell’evangelizzazione. Però rischia di passare dal “troppo” al “quasi niente”:

  • La tradizione cattolica non ha mai detto: “senza metafisica la fede non vale nulla”, ma piuttosto: la ragione può preparare, chiarire, difendere la fede.
  • Se li liquidiamo come quasi irrilevanti, rischiamo di:
    • indebolire il dialogo con la cultura filosofica e scientifica;
    • lasciare il campo libero a forme di fideismo o anti-razionalismo (“basta il Vangelo, il pensiero è sospetto”).

Obiezione: più che un “digiuno” dai preamboli, servirebbe una ri-integrazione armonica: Cristo al centro, sì, ma senza amputare la dimensione razionale.


2. “Non voglio parlare di Dio se non parliamo di Gesù”: bello, ma rischioso

Il suo “non parlo di Dio senza Gesù” ha una forza cristologica salutare. Però:

  • La Scrittura stessa parla anche di un cammino di ricerca di Dio “prima” o “fuori” dalla rivelazione esplicita (Rom 1, Atti 17, sapienza naturale, desiderio del cuore umano).
  • La Chiesa ha sempre riconosciuto una conoscenza naturale di Dio, parziale ma reale.

Obiezione: se assolutizziamo “solo Gesù”, rischiamo:

  • un certo biblicismo (come se ogni discorso naturale su Dio fosse sospetto);
  • di non valorizzare la ricerca autentica di chi non ha ancora incontrato Cristo ma non per questo è “fuori gioco”.

3. “Gesù mi difende anche da Dio”: formula efficace ma teologicamente ambigua

L’immagine è potentissima, ma antropomorfa e retorica:

  • Rischia di contrapporre Gesù al Padre, come se il Figlio fosse buono e il Padre potenzialmente minaccioso.
  • La tradizione, invece, insiste sull’unità della volontà trinitaria: in Gesù vediamo il vero volto del Padre, non un Dio diverso da lui.

Obiezione: ottimo l’intento (liberarci dall’immagine di un Dio sadico), ma la frase, presa alla lettera, può generare confusione cristologica e trinitaria. Andrebbe subito “corretta” esplicitando che Gesù non ci difende da Dio, ma dalle nostre false immagini di Dio.


4. Lettura storica un po’ caricaturale della teologia moderna

Quando dice che per “due secoli e mezzo” l’evangelizzazione è stata quasi solo disputa metafisica, l’affresco rischia di essere:

  • vero come tendenza, ma ingeneroso nella generalizzazione;
  • poco attento a interi filoni: spiritualità, movimenti, catechesi popolari, missioni, santità “non accademica” che hanno continuato a parlare di Gesù, non solo di prove dell’esistenza di Dio.

Obiezione: la diagnosi coglie una deriva reale in certi ambienti, ma se presentata come quadro totale rischia di oscurare la ricchezza della storia della Chiesa e di far passare i secoli recenti come quasi solo un grande errore di impostazione.


5. Rischio di anti-intellettualismo “di ritorno”

Quando Sequeri insiste (con gusto polemico) su quanto le dimostrazioni siano noiose, su quanto pochi laici leggano teologia fondamentale, ecc., il sottotesto può diventare:

“Tutto questo lavoro razionale in fondo non serve, bisogna tornare solo al Vangelo e alla commozione”.

Obiezione:

  • Il cuore della fede non è un sistema filosofico, ma neppure è solo emozione, commozione o “brivido buono”.
  • Senza un pensiero forte, si rischia:
    • spiritualismo vago,
    • fragilità di fronte alle obiezioni culturali serie,
    • impossibilità di dialogo strutturato con filosofia, scienze, diritto, politica.

Insomma: va bene criticare il “razionalismo cristiano”, ma non va bene spegnere la ragione per salvare il Vangelo.


6. Una concezione del battesimo molto bella ma incompleta

L’immagine del battesimo come “presidio di benedizione” che protegge per l’eternità è splendida. Però:

  • Il Nuovo Testamento e la tradizione parlano anche di conversione, seguela, lotta spirituale, possibilità di rifiuto.
  • Se si insiste solo sul lato “campana di vetro della grazia”, si rischia:
    • di attenuare la serietà della libertà umana;
    • di dare un’idea quasi automatica del sacramento.

Obiezione: bisognerebbe tenere insieme battesimo come dono irrevocabile di Dio e chiamata a una risposta libera, storica, drammatica.


7. Religione e guerra: diagnosi vera ma troppo “lineare”

Dire che le motivazioni religiose sono ancora oggi fra le più potenti per giustificare la guerra coglie un dato reale. Ma:

  • spesso la religione viene usata come “vernice simbolica” di conflitti che hanno radici politiche, economiche, etniche;
  • c’è il rischio di appiattire la religione a carburante di violenza, dimenticando la sua enorme capacità di disinnescare conflitti, generare riconciliazione, critica al potere.

Obiezione: servirebbe distinguere meglio fra strumentalizzazione religiosa del potere e cuore evangelico/spirituale che proprio il potere lo relativizza.


8. Gesù sì, ma che ne facciamo della Chiesa?

Quando mette in guardia dall’“ecclesiocentrismo al quadrato”, il bersaglio è giusto. Però:

  • il rischio opposto è un cristocentrismo “disincarnato”: Gesù sì, la Chiesa quasi solo come luogo di osservanti un po’ malati.
  • La tradizione cattolica non conosce un Cristo senza Corpo, senza sacramenti, senza comunità concreta.

Obiezione: la critica al clericalismo e all’autoreferenzialità è sacrosanta, ma andrebbe accompagnata da una visione positiva, robusta, della Chiesa come “corpo di Cristo”, non solo come organizzazione da alleggerire.


9. La centralità della “commozione” rischia di scivolare nel sentimentalismo

La parte su Anselmo e sul “commuoversi del bene dell’altro senza vantaggio proprio” è molto bella, quasi mistica. Ma:

  • se la traduci pastorale “nuda e cruda”, può diventare: “Ti commuovi? Ecco, lì c’è Dio”.
  • Non è sempre così: ci sono emozioni manipolate, commozioni a basso costo, sentimenti intensi ma poco veri.

Obiezione: la commozione può essere un luogo di epifania di Dio, ma va integrata con discernimento, dottrina, vita sacramentale, comunità. Non basta il brivido per dire “qui c’è Dio”.


10. L’immagine del “teologo che combatte i preamboli” è un po’ auto-assolutoria

C’è un filo di autoironia, ma anche un rischio: sembra quasi che la colpa del disastro sia “di altri teologi troppo razionalisti”, mentre lui si pone come quello che ha “capito” la medicina.

Obiezione: per essere pienamente convincente, il discorso avrebbe bisogno anche di:

  • una maggiore autocritica ecclesiale corale (non solo accademica);
  • un riconoscimento che, in alcuni contesti, proprio la riflessione filosofica e fondamentale ha difeso la fede da derive emotivistiche o settarie.

Live, feel and think as Gay Catholic.

In recent years, Homosexuality has become a topic of much heated debate in all Christian churches. Even the Catholic church is not absent in this discussion, although it often prefers to play the role of magistra rather than listener. The church often speaks of gay people as one of the many “categories,” together with: women, the poor, emigrants, divorcees, those who have abortions, prisoners, drug addicts …

The church will have no authority if she does not pay heed to the experience of gay people and learn from their language, and finally if she does not accept their gifts. Many people, inside and outside the Church, think that gays are only interested in sex, performed in a certain way. But if we pay attention to those directly involved in a gay experience, we get a different perspective.

1.   A phenomenology of gay experience

In 1997 the then Archbishop of Westminster, Card. Hume stated in Note on Church Teaching Concerning Homosexual People that “love between two persons, whether of the same sex or of a different sex, is to be treasured and respected.” (Pezzini 1997, pp. 188-191). Card. Martini affirmed on several occasions that “same-sex unions […] can show, under certain conditions, the value of mutual affection.” (Martini 2012, pp. 47-53). A gay relationship is not always and under every circumstance “unnatural,” or even worse “perverse,” but the manifestation of “love.”

Every experience always and inevitably brings with it an interpretation mediated by the language of a community. In my phenomenology of the gay experience, I will primarily focus on the sexual experience of someone who believes in God, that is someone open to the Transcendent dimension of Life, to the One I will call the “Mystery of Love.” This person experiences in his/her depth the voice of the One who loves him and dwells in her. “‘You shall love the Lord your God with all your heart, with all your soul, and with all your mind.’ This is the first and great commandment. And the second is like it: ‘You shall love your neighbor as yourself.’” (Mt 22: 37-39).

Talking about the spiritual friendship, the English Cistercian monk, Aelred of Rievaulx, says: “You and I are here, and I hope that Christ is between us as a third.” (Aelred of Rievaulx 2010, p. 55). “To love another is in fact to reach out to God who shares his lovableness with the one we love. To be loved is to receive a sign, or a share, of God’s unconditional love.” (Pezzini 1997, pp. 188-191).

Wherever and whenever a feeling and a desire for a relationship emerges, there happens an encounter with the other. Gay and straight make the experience of the same kind of sexual energy, which is an essential component of any relationship, either towards oneself, others, or God. What we do with this sexual energy, how we live and channel this powerful desire, that makes a person into a spiritual person. “En una noche oscura, con ansias, en amores inflamada.” Thus says the Spanish mystic Saint John of the Cross: “On a dark night, kindled in love with yearnings.” Desires and longings contain profound truths and tell something about who we are and what our needs are.

Only a spirituality infused with eros will not risk withering and freezing. A true Christian spirituality must be able to recognize that what makes a human being “human” is his/her ability to love in full. “I am convinced that a spirituality without erotic passion becomes lifeless and cold. God becomes an abstraction, an idea rather than a living presence in our lives. I am searching for a Christian spirituality that acknowledges that the human calling is to make passionate love in this world, in our beds and in our institutions. To love well means to share the gift of life with zeal and great generosity and to seek right relations with all others, relations of genuine equality and mutuality, of shared power and respect.” (Ellison 1996, p. 222).

2.   Sense and dis-sense of eros

Sexuality cannot be reduced in its genital component, but engages the whole person: body, senses, feelings, and mind. The energy of “eros” permeates the spectrum of the whole person in all her dimensions. Sexuality is a fire and a drive, expressed and communicated in the experience of sexual pleasure. This power is a δαίμων as the Greeks called it. In Symposium (202, de), Plato defines eros as a great demon, mediating between God and mortal. “[…] between both so that the All is bound together with itself.” Humans may either

  1. repress and suppress eros (the negative taboo attitude);
  2. let it go like a river without banks (the permissive-destructive attitude),
  3. or channel, bond it with soul and spirit.

The role of the spirit is to give a soul, a center (an entelechy in Greek) and a vision to eros. Love disposes and exposes the sexual passion to the encounter with another “you.” The Greek New Testament qualifies love not as eros, but as agape. This kind of love does not seek someone to satisfy its needs. It is simply a love of giving, characterized by an interior and overflowing richness. Agape is love with a direction: beyond the ego towards the other.

Obstructing one’s passionate move towards the other leads to spiritual suicide or to become crazy. Spirituality educates one’s desires (from the verb educare, related to educere “lead out”) from being self-centered to be open to reality. Eros and spirit; pleasure and contemplation, pathos and logos. They are inter-connected. Eliminating

one of the two wings of the human experience of sexuality means to whirl around oneself: either in mental fantasies or pious reflections.

Spirit constitutes the principle of unity for the person (entelechy); eros – instead – is the source of creativity, vital energy, and pleasure. Too much order and normativity suffocate life, whereas chaos or lack of orientation cause our life to go astray and be banned from the garden of Eden. “You made us for yourself, Lord, and our heart is restless until it rests in you.” (Augustine, Confessions). The balance between these two dimensions of the person, eros and spirit, must be continuously sought. It is an ongoing task that changes life. Such dynamic transformation is well described Jacob’s struggle at the Jabbok: “Truly I have seen God face to face, and yet my life has been saved.” (Gen 32: 23-32).

There are two ways to go around and visit a place for the first time. One possibility is by using a map. In this case, the interesting spots are clearly indicated. Another way is by becoming acquainted with the surrounding, in the same way a native does. When that happens, one leaves the usual and signed track, and begins to wander. The impact is more direct, but there are risks and surprises to be met. For example, one may discover that the path is blocked and has no exit. Our human and spiritual life is often like visiting new places. We have precise indications to follow, either from the Bible or from the church, but sometimes we find ourselves in blind alleys and do not know how to get out from these cul-de-sacs.

When two gay people live a sincere and deep experience of love and want to live their faith within the church in sincerity and truth, they find moral norms that impede their spiritual journey. They face the alternative either to comply with the normativity of the church by neglecting their own experience, or to yield to loneliness and accommodating oneself with sexual promiscuity.

3.   Catholic Church and Homosexuality

This paragraph intends to briefly summarize what the Catholic Church affirms about sexuality in general and Homosexuality in particular. What the church teaches, that binds not only the consciences of Catholics but also of every other human beings, because it interprets moral truths related to human nature.

  • The official teaching of the Catholic Church

The fundamental premise for understanding the Catholic position on human sexuality is to keep in mind that the Catholic church understands herself to be the authentic and authoritative interpreter not only of divine revelation but of the moral principles of human nature.

Paul VI’s encyclical Humanae Vitae (1968) defines sexuality as having a double meaning: procreative and unitive. If one of these two is absent, the sexual act is performed against the true nature of sexuality. The legitimate exercise of sexuality exclusively takes place within the bond of marriage, between a man and a woman. Any sexual act consummated within marriage must be intrinsically open to the transmission of life, and consequently to procreation. Every human must observe this double dimension of the sexual act to live sexuality “according to nature” and “morals.”

The Catholic church has clarified its position on Homosexuality in successive and various documents. In Persona Humana (1975) the Congregation for the Doctrine of the Faith at no. 8 makes the distinction between two categories of gay people: those with a transient and those with a permanent tendency. Especially the latter must be treated with understanding and sustained in the hope of overcoming their personal difficulties and inability to fit within the society. The document provides another distinction: between personal responsibility (subjective morality) and intrinsically disordered acts (objective morality). Only the homosexual behavior is objectively immoral, whereas the homosexual orientation – even if it is a tendency against nature – is not in itself “immoral,” since it is a condition towards which the person is merely passive and not active. Only an act can be guilty, not an orientation or a deep-seated tendency. “Their [= homosexual persons] culpability will be judged with prudence. But no pastoral method can be employed which would give moral justification to these acts on the grounds that they would be consonant with the condition of such people. For according to the objective moral order, homosexual relations are acts which lack an essential and indispensable finality.” (n. 8)

In a later document The pastoral care of homosexual persons (1986), the Congregation for the Doctrine of the Faith restated that “although the particular inclination of the homosexual person is not a sin, it is a more or less strong tendency ordered toward an intrinsic moral evil; and thus the inclination itself must be seen as an objective disorder.” (n. 3) The Catechism of the Catholic Church (1992) defines in n. 2357 that “homosexual acts are intrinsically disordered. They are contrary to the natural law. They close the sexual act to the gift of life. They do not proceed from a genuine affective and sexual complementarity. Under no circumstances can they be approved.”

We must remember that when the Catholic church speaks of “disorder,” regarding homosexual orientation, she does not make a biological, psychological, or sociological statement, but an ontological one. The church does not “describe” sexuality as it appears, but “prescribes” what sexuality should be. She makes a statement about the ultimate meaning of sexuality from the perspective of natural law. As we know the American Psychiatric Association in 1973 indicated that Homosexuality is not a pathology but a normal orientation of human sexuality, that is a variant of sexuality. The World Health Organization in 1990 confirmed the same evaluation. According to the Catholic church, however, these pronouncements do not change the church’s stand

on Homosexuality, because what the church teaches has to do with the end of human sexuality (ontology) and not with its phenomenology.

Only within marriage – as the 1986 document of the Congregation for the Doctrine of the Faith states – realizes human sexuality its metaphysical end and therefore can be morally considered “right.” A person with a homosexual behavior is “immoral” for two reasons. First, because s/he acts out with people of the same sex, contradicting the procreative meaning of human sexuality. Secondly, because s/he contravenes the unitive dimension of human sexuality, because he performs sex “outside of marriage.” “Homosexual activity is not a complementary union, able to transmit life; and so, it thwarts the call to a life of that form of self-giving which the Gospel says is the essence of Christian living. This does not mean that homosexual persons are not often generous and giving of themselves; but when they engage in homosexual activity, they confirm within themselves a disordered sexual inclination which is essentially self-indulgent.” (n.7)

Since the homosexual inclination is objectively disordered and against nature (contra naturam), homosexual behavior is always and gravely a sin, and contrary to chastity. Such consideration refers not only to homosexual acts but to each and every moral sexual act which is performed “outside” of marriage. The lack of marital, unitive, procreative meaning in sexual acts (either masturbation, premarital or extramarital) qualifies as unnatural, intrinsically disordered, and always gravely immoral any sexual behavior (Catechism of the Catholic church, nos. 2352; 2357).

Those who are thus disorderedly oriented must live in chastity, uniting their sexual struggle to the sacrifice of Jesus’ cross. If the “end” of human sexuality consists in an exclusive, indissoluble and procreative loving marital relationship, any other exercise of sexuality, must be considered objectively disordered, that is, not ordered to the end and the meaning for which human sexuality was created. According to the official teaching of the Catholic church, marriage alone remains the natural, and therefore morally licit, way of living human sexuality. For baptized Catholics, only as sacrament can marriage be realized, thus disposing the conjugal behavior as not sinful.

  • Some observations and critical remarks

A question – at this moment – may arise. Do these three dimensions – exclusive, indissoluble, and procreative – exhaustively identify a loving relation, or is the “erotic” dimension of sexuality, and therefore of pleasure, an essential element of the human sexual experience? The dimension of pleasure (eros) plays an important role in the experience of sexual love. “The meaning of sexual pleasure is to be considered in all its aspects, namely, the pleasure of love, of interpersonal communion, etc. It is a dimension related to the whole phenomenon of human sexuality. All the same, we hold that this dimension is fundamentally derived from the biological aspect. Therefore, it

can be held that the dimension of pleasure is a meaning of the biological aspect of sexuality with reference to the totality of human sexuality.” (Kochuthara 2007, pp. 416-417).

Does the purpose of a moral act simply consist in the observance of a norm, or should this observance, because it is formative, and not only informative of the moral conscience, be oriented to the encounter with another you in whom the ineffable Thou of a loving God is revealed? This is what Jesus of Nazareth taught and did. He broke the religious norm, anytime it challenges what is the “human good.” Shouldn’t spirituality precede and not give in to moral norms? The distinguishing aspect of Christian faith in ethics should be the Spirit who makes moral good to be possible within human conscience, especially in situations of conflict of conscience. “In the same way, the Spirit helps us in our weakness. We do not know what we ought to pray for, but the Spirit himself intercedes for us through wordless groans. And he who searches our hearts knows the mind of the Spirit, because the Spirit intercedes for God’s people in accordance with the will of God.” (Rm 8:26-27).

In his encyclical Amoris Laetitia at no. 305, Pope Francis advises that it is “possible that in an objective situation of sin – which may not be subjectively culpable, or fully such – a person can be living in God’s grace, can love and can also grow in the life of grace and charity, while receiving the Church’s help to this end. Discernment must help to find possible ways of responding to God and growing in the midst of limits. By thinking that everything is black and white, we sometimes close off the way of grace and of growth and discourage paths of sanctification which give glory to God.”

Commenting on the Pastoral Constitution Gaudium et Spes, where at no. 16 states that “the conscience is the most secret center and the shrine of man, where he is alone with God, whose voice resounds in his own intimacy,” the young theologian Joseph Ratzinger in 1967 wrote: “Over the pope as the expression of the binding claim of ecclesiastical authority there still stands one’s own conscience, which must be obeyed before all else, if necessary even against the requirement of ecclesiastical authority. Conscience confronts [the individual] with a supreme and ultimate tribunal, and one which in the last resort is beyond the claim of external social groups, even of the official church.” (Ratzinger 1967, pp. 328-329)

4.   Thinking as a Gay Catholic

When a Gay Catholic listens to his/her own experience, this is already interpreted by others: family, society, and church. The (homo) affective disposition by which s/he lives and feels, is interfaced with words and images transmitted from others. At the same time, the Gay Catholic remains responsible for critically assuming these interpretations from the “outside” and is invited to discern which norms, concepts, and

acts, are more able to preserve, promote and favor his human sexual experience and which frustrate his/her spiritual journey.

Biblical Revelation and anthropological reflection both consider sexuality as a form of human encounter. In God’s plan, the other in front of me defines the borders the sexual difference. “Then God said: ‘It is not good that the man should be alone; I will make him a helper as his partner’.” (Gen 2:18). It is neither man or woman alone the image of God; the “relation” between the two “is” the image of God. The divine image is therefore not primarily to be sought in the sexual difference, but in its relatedness which grounds the human nature. As God is relational (Father, Son and Holy Spirit), so humanity has been created in the image of God: relational. The finality of human nature is therefore relatedness and whatever sustains promotes and realizes it can be considered “moral.”

Complementarity is not exclusive to the relationship between a man and a woman but can be found also in the experience of human friendship and between two persons of the same sex. Christian faith understands agape as the full realization of this encounter with the other: eros and agape cannot be separated from each other. As pope Benedict XVI says in the encyclical Deus Caritas est at no. 7: “The more the two, in their different aspects, find a proper unity in the one reality of love, the more the true nature of love in general is realized.” Human relationships can be realized in two complementary ways: through eros and agape. Without love, eros risks getting stuck within the boundaries of the ego and of its needs, which also include the need for sexual pleasure; but without these needs, without pathos, love (agape) ends up degenerating into a mere commandment.

It is necessary to reclaim an analogical understanding of sexuality, so that we may recognize what is similar and different in the homo and heterosexual orientation. To understand this analogical meaning of human sexuality, we may apply the model Vatican II uses in dealing with the ecclesial status of those churches “outside” the normativity boundaries of the Catholic church. Before Vatican II the distinction was quite clear and sharp: either inside the Catholic church, or outside. Those who were not Catholics were considered “heretics” and their communities were more a “sect” than a “church.” Vatican II introduced a different understanding of these churches through a gradual vision of their character.

The Conciliar document Unitatis Redintegratio states at no. 22 that in the ecclesial communities originated with the Reformation of the XVI. century there is an absence of the sacrament of Orders (defectus ordinis). According to the Catholic church, these protestant communities have no valid priesthood, and therefore celebrate no “valid” Eucharist. Ecumenical theologians, however, argue whether it is a question of absence (defectus ut nihil) or of the fullness of the sacred order (defectus ut minus). Indeed, these ecclesial communities are “true” churches, but not in the sense in which the Catholic church understands and wants to be. They are churches of a different type.

From the Catholic standpoint of view, these churches “lack” elements which are considered essential for the Catholic notion of the “church character.” But they are still to be considered “church.” Their deficiency refers to the confessional and categorical dimension of the Catholic church, but that does not mean that these communities – by not being Roman catholic – cannot be considered “true” churches from the ontological perspective of the Church of Christ. This ecumenical paradigm helped to accept the communities of the Reformation with their true church elements (elementa ecclesiae).

By adopting this ecumenical model, the church may recognize same-sex relationships as bearer of those elements of relationality which are constitutive of the human person. Card. Christoph Schönborn adopted such model at the extraordinary synod on the family (Schönborn 2014). What Lumen Gentium no. 8 says about the elementa ecclesiae can be applied to the many, imperfect forms of marriage and family, such as civil unions and cohabitation of unmarried couples.

Although Homosexuality is not identical to Heterosexuality, it cannot be judged entirely negative. Cardinal Marx, archbishop of Munich and Freising, clearly stated in a interview released in America that “it is not possible to see a person only from one point of view, without considering the whole situation of that person. This is very important for sexual ethics.” (Hansen 2015) Bishop Johan Bonny of Antwerp, Belgium, in De Morgen, a Belgian newspaper, on 27 Dec. 2015, said the church should recognize a “diversity of forms” and could bless gay relationships based on these values of love, fidelity and commitment.

On 20 Sept. 2022, the Flemish-speaking bishops of Belgium published a document, titled “Being Pastorally Close to Homosexual Persons: For a welcoming church that excludes no one,” in which a prayer liturgy for same-sex couples has been created. It is worth noting that God’s blessing is invoked upon the “commitment of love and mutual fidelity” of the couple, and not simply on the individuals as the Responsum of the Congregation for the Doctrine of the Faith, regarding the blessing of the unions of persons of the same sex, declared: “it is not licit to impart a blessing on relationships, or partnerships, even stable, that involve sexual activity outside of marriage (i.e., outside the indissoluble union of a man and a woman open in itself to the transmission of life), as is the case of the unions between persons of the same sex. The presence in such relationships of positive elements, which are in themselves to be valued and appreciated, cannot justify these relationships and render them legitimate objects of an ecclesial blessing, since the positive elements exist within the context of a union not ordered to the Creator’s plan.”

By further applying a hermeneutic of graduality not only to marriage but more generally to sexuality, the church could recognize that relationality is fully realized in the normativity of conjugal love between a man and a woman but is not excluded or absent in the love between two persons of the same sex. Although “imperfect,” this form of relationship is real and valuable. The expression “imperfect” o “deficient” does

not mean that a gay loving experience is inferior. It simply means that it does not enjoy the fullness of that relationality which is present in heterosexual and marital love expressed by the procreative meaning of sexuality. But the other meaning, the unitive, is well expressed in the intimacy of gay people. The unitive dimension of same-sex love is not disjoint from the element of sexual pleasure that deepens the quality of the relationship. Sexual pleasure is an ethical value, but not a self-standing value. It strengthens the unitive value in its life-giving aspect, that is in opening oneself to the ecstatic dynamic of agape towards the other. That means that the gay person seeks the good for and of the other person, loving the other in such a way that this one becomes stronger, more independent, and not weaker and less able to assume his own life.

Heterosexual love does not exhaust the totality of sexual relationality. We need to understand sexuality in an analogical and non-univocal way. Rather than focusing on procreative genitality, the life-giving dimension of sexuality can be expressed in the fecundity and generosity of gay relationships which are “open” to dedicate their lives for others, and from these evaluate the morality of their sexual acts. This disposition can be embodied in many social forms. Although this kind of fruitfulness is not of the same type as that of the heterosexual couples, because is not “biological,” it does express the gift of love. The Kantian principle “Always act by treating the other as an end, and never as a means,” is the requirement for building up any serious human relationship and, consequently, the ultimate standard for evaluating the morality of a sexual behavior.

In his faith journey, the Gay Catholic chooses those acts and lifestyle that are conformed more and more to the image of a relational God. “Perfection” is not an abstract  ideal  according  to  which  moral  acts  are  evaluated,  based  on the right or wrong of a norm, but a journey, a way of sentire, a spiritual sense (both as feeling and direction), in which the sexual tendency is channeled with labor, patience and endurance towards the God’s love. “Progress not perfection,” but also: “progress is perfection.”

We need to realize that friendship and love have an enormous value in the moral and spiritual growth of a person. Such an experience helps any person (not only the Gay Catholic) to “come out” and open him/herself up to another person. The goal of Catholic ethics is not to change a deep-seated tendency into something else, but to enhance the growth of faithful relationships in concrete given situations.

Following his/her moral conscience, a Gay Catholic will choose what more helps him to accomplish the “best possible relationship” with his own body, with another and with God. “[A] small step, in the midst of great human limitations, can be more pleasing to God than a life which appears outwardly in order, but moves through the day without confronting great difficulties” (Pope Francis 2013, no. 44). In this dynamic

context, the “moral good” of homosexual acts will be what enables the Gay Catholic to express and sustain faithful and enduring relationships (fruitfulness) in his/her life.

“A relationship is ‘good,’ promotes other relationships; it is good a behavior that is embedded in this fruitful relational dimension […]. A relationship that promotes other relationships, and does not block them, and in so doing, ends up blocking the relationship […]. The more a relationship is self-diffusive and activates other relationships, the more it realizes what an ethical relationship is. It is a relationship which is able to actualize the good.” (Fabris 2010, pp. 89-91).

This “relational” principle can be applied to gay and straight people. By rethinking the morality of same-sex acts, moral theologians need to broaden the horizon, within which to discern the quality of sexual acts, indicating norms, values and virtues based on what can be considered “moral” in a gay relationship. For example, by paying attention to what makes the gay person grow both psychologically and spiritually, rather than diminishing his/her human dignity and well-being with perverse, libertine, or neurotic acting out. By attentively listening and discerning his/her lived experience with its deep-seated sexual orientation and the desire for a same-sex partnership, a Gay Catholic will not demonize sexual but channel the erotic energy and move it through on his life-journey. The criteria for evaluating such “gay relationships” would be fidelity, reciprocity, and responsible love. Discerning the journey to go a spiritual guide or a priest can be on his/her side listening to their trials and failures in the sacrament of reconciliation and breaking the bread of life in the Eucharist (Pope Francis 2016, footnote 351).

Imposing chastity on those who have not chosen it as permanent lifestyle, and even more on those who are not even Catholic, means to prevent a gay person from seeking the best for him/herself, thus convincing him to consider chastity as a “norm” to be observed rather than a “virtue” by which the good is spontaneously achieved. According to Thomas Aquinas “chastity” is not primarily the suppression of desire, but the awareness to live and act secundum rationem, that is, in the real world, in conformity with the truth of reality (Thomas Aquinas, Summa Theologia , II-II, q. 151, art.1, ad quartum).

The meaning of chastity is not to abandon the test of experience and take refuge in a false image of oneself and others, but to live in touch with our true self and that of others. Chastity brings us back to earth and helps us to relish from within the goodness of the relationship with whom we love. From this perspective, Gay Catholics are called – as anyone else – to live secundum rationem, that is in chastity.

5.   What are the rights for same-sex couples?

One of the major requests of gay activists is the recognition of marriage – or any other form of civil union – for same-sex couples. There are currently 32 countries where same-sex marriage is legal, and forms of “civil unions or partnerships” have been recognized in many other countries. The Catholic church and other conservative Protestant denominations are opposing same-sex marriage or unions. This paragraph intends to briefly summarize what the Catholic church has so far declared on this specific topic and how we may continue the discussion.

  • The Catholic Church and the “rights” of homosexuals

In 1992 the Congregation for the Doctrine of the Faith released a document on The Social Rights of Homosexual Persons. In this official declaration, the Catholic church distinguishes between the homosexual tendency, which is an objective disorder, and all other differences of race, ethnicity, and religion.

Homosexuality is not a right we may ascribe to a human person. The gay person has rights only insofar as s/he is a human person, not as a gay person. For the Catholic church, anyone who publicly reveals his sexual orientation, he or she implicitly acknowledges that homosexual tendency is something indifferent or even “good.” These forms of “outing” cannot be considered “rights,” and therefore they must be legitimately restricted. The Pontifical Council for the Family, in a document on Family, marriage and “de-facto” unions (2000) and the Congregation for the Doctrine of the Faith in Considerations regarding the projects for the legal recognition of unions between homosexual persons (2003) confirmed these official considerations, restating that marriage and civil union are not “rights” that same-sex people enjoy. Rational and natural truth acknowledge that marriage is possible only between a man and a woman. It is only because of sin that human reason has obliterated or weakened the understanding about this natural truth. To reclaim this fundamental truth, revelation is necessary, and the Catholic church is its authoritative interpreter. What the church teaches about human nature and natural law binds not only the Catholic faithful but every other human being. The civil laws of a nation – in order to be observed by its citizens – must comply with the dictates of the natural law that the Catholic church authoritatively interprets.

Divorce and polygamy, but even more same-sex marriage, contradict what the natural law defines as marriage: an exclusive, indissoluble, and procreative union between a man and a woman. To this specific type of relationship, rights and duties are ascribed, and not to other forms of relationships.

  • The “social” meaning of same-sex union

In order to open up the discussion, we need not to identify “marriage” with “same-sex unions.” Both are “relationships” and we must acknowledge the “good” present in both types. These relationships do not only nourish the two partners, but also the society in which they live and act. The difference between marriage and “same-sex” union is that the latter can be considered an “imperfect” form of relationship, only when we look at the procreative dimension of the relationship. Being “imperfect” does not mean “immoral” (intrinsice malum); it only means that fecundity is not biologically present in the relationship, but it is available in other forms: for example, adoption.

In a recent interview for the News Agency Deutsche Welle, the German bishop of Aachen, Helmut Desier, said that “Homosexuality – as science demonstrates – is not a fault, it is not a disease, it is not the expression of a defect, and it is not even a consequence of original sin. Then I have to say: the world is colorful, and creation is diverse. And then I can also accept a diversity in sexuality which is willed by God and does not violate the will of the Creator. Same-sex sentiment and love is not an aberration, but a variant of human sexuality.” (Matic, S./ Strack, C. 2022).

The society has the duty to protect and guarantee the “common good” the gay couple represents. Their rights are not based on their “being gay,” but on the basis of this “common good,” which is the permanent and lasting relationship they embody. To assist one’s partner at the hospital, to share the benefits of the insurance, to inherit the goods purchased together or shared during life: these are all rights that must be acknowledged not only to the single individuals but to the relationship as such. The “good” is not only what benefits each individual apart from the relationship, but what favors both within and out of the relationship.

Normally it is objected that it is not enough to be in a relationship to have rights and duties to be recognized. In the case of “friendship” we have a powerful and permanent bond between two people – in some cases more significant than the marital one – but that is not enough to ascribe to friendship social “rights.” Those who raise such objections do not realize that a same-sex couple live not only a stable, but an exclusive relationship, which is not the case about friendship.

Although family is grounded on marriage, and both are primary and normative models for the society, the two cannot be identified. It is true that marriage originates family, but there is a variety of forms of family, completely independent of marriage. Today we speak of “extended” family model (tribe family), “singular” family, such as the “religious” family of religious orders and congregations, or “communes”. The concept of family, therefore, does not overlap that of marriage. Therefore, we may apply – by analogy – the notion of “family” to all forms of “stable” cohabitation between two or more people who for different reasons decide to live together. Strictly speaking, same-sex marriage is contested not because the Catholic church deems it as something

“negative” or “illegitimate,” but because it is considered “impossible” by definition. Indeed, marriage is defined as an exclusive, indissoluble, and procreative relationship.

If you need eggs, flour, and chocolate to make a “chocolate cake,” when one of these ingredients is missing, you cannot speak of a chocolate cake but something else, for example, of a lemon cake, if you add lemons instead of chocolate to your cake. Similarly, if we define “marriage” as the union between same-sex people, the (biological) procreative dimension of marriage is lacking. It follows that there is no marriage but something else, namely a same-sex civil union.

The rational of this argument is not followed when one of the other two essential elements of marriage is missing: exclusivity or indissolubility. When one of these two is missing, the church still calls the new “union” a marriage. According to natural and ecclesiastical law, polygamy and divorce do not make marriage “impossible.” And why not call same-sex union a marriage, notwithstanding (biological) procreation is missing?

6.   Conclusions

The debate over gay issues confronts the Catholic church with modern society. Without anyone denying their religious, moral, and social convictions, it is nevertheless desirable that both parties deepen the arguments of the other position. According to the Catholic church, the end of human sexuality consists in an exclusive, indissoluble, and procreative loving relationship. Any other exercise of human sexuality “outside” the boundary of marriage is considered objectively disordered and for the baptized Catholic sinful if it is not celebrated as a sacrament.

The considerations I have exposed about the spiritual formation and moral discernment for a Gay Catholic can help to understand the same-sex relationships in a “broader” context and vision. The perspective I propose is that of “relationality” in which rethink the doctrine of creation and anthropology: the encounter with the other you who is the threshold” of the mystery of God’s love. “Love your Lord and love your neighbor as yourself.” (Mt 22:37.39). If the moral doctrine on homosexual acts must change, Catholic teaching on human sexuality must change. But that needs a move towards a new anthropology, in which the notion of “relatedness” constitutes the identity of the person and recognizes the rights that protect that identity in its manifold “relationships.”

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Per un cristianesimo carsico

Da questo schema, si comprende che nella visione di Massimo il Confessore – trasmessa poi a Giovanni Scoto Eriugena e in tutta la tradizione neoplatonica cristiana successiva – il mondo delle idee platonico diventa ciò che Teilhard de Chardin chiamerà “das Christliche” il cristico, cioè il principio dell’unione divino-umana che è l’unione o meglio ancora l’identità ipostatica del Logos, Figlio di Dio e Cristo.

Un possibile sviluppo della tradizione patristica e neoplatonica è che il Cristo cosmico non è una stranezza post-teista o teilhardiana ma una evoluzione del pensiero dei Padri. Purtroppo un certo approccio rigido alla fluidità dei Padri ha bloccato tale interpretazione.

Il neo-cristianesimo, o post-cristianesimo, non deve abbandonare l’Occidente cristiano per ridire il cristianesimo. Deve farsi solamente più attento e ascoltare le proprie radici.

Festa del Cristo Cosmico

XXXIV Domenica – Tempo Ordinario anno C

Oggi la Parola ci conduce al cuore della nostra identità cristiana. Non solo ciò che dobbiamo fare, ma chi siamo. Non solo chi è Cristo, ma chi siamo noi in Cristo.

Nel secondo libro di Samuele, le tribù d’Israele vanno da Davide e gli dicono:
«Noi siamo tue ossa e tua carne». È un modo per dire: noi ti apparteniamo, e tu appartieni a noi. Non è solo fedeltà, è comunione di vita.

Queste parole diventano una profezia di ciò che vivremo pienamente in Cristo. Non siamo solo suoi seguaci, non siamo spettatori del suo regno. Noi siamo carne della sua carne, ossa delle sue ossa. Siamo membra vive del suo Corpo. Non solo lo seguiamo, viviamo di Lui e apparteniamo a Lui.


San Paolo, ai Colossesi, ci porta ancora più in alto: Cristo è il primogenito di tutta la creazione, il cuore dell’universo, il senso della storia. Tutte le cose sono state create in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui.
È il Cristo cosmico, presenza vivente di Dio che abbraccia cielo e terra, visibile e invisibile, materia e spirito, storia e eternità.

E questo Cristo cosmico è anche il capo del corpo, la Chiesa. E noi, fratelli e sorelle, siamo quel corpo.
Questo significa che la vita del Cristo cosmico scorre in noi. Non siamo solo oggetto della salvezza: siamo strumenti della salvezza dell’unico Salvatore.

Ogni volta che amiamo, è Cristo che ama.
Ogni volta che perdoniamo, è Cristo che perdona.
Ogni volta che rialziamo qualcuno, è Cristo che salva.

Per questo, con umiltà ma con verità, possiamo dire: noi siamo Cristo nel mondo. Non perché ci sostituiamo a Lui, ma perché Lui vive in noi e continua in noi la sua opera di riconciliazione.


E tutto questo si illumina nel Vangelo. Gesù è sulla croce, deriso, rifiutato, abbandonato. Gli dicono: «Se sei il Cristo, salva te stesso!». Ma Lui è Cristo proprio perché non salva se stesso — salva l’altro.

E qui entra il ladrone pentito, forse il più lontano, ma anche il più vero. Non vede solo un condannato: vede un Re. Non chiede miracoli, non chiede liberazione dalla croce, ma chiede comunione: «Ricordati di me». E Gesù risponde con le parole del Vangelo:
«Oggi con me sarai nel paradiso».

Con me. Il paradiso è un luogo di identità e appartenenza: è essere con Cristo.


E allora, fratelli e sorelle capiamo che la fede non consiste solo nel credere qualcosa, ma nel vivere con Qualcuno.
Non essere solo salvati, ma entrare in comunione, fino a diventare — come membra del suo Corpo — luogo di salvezza per gli altri.

Quante persone oggi aspettano che Cristo passi nella loro vita…
Aspettano luce, perdono, incoraggiamento, speranza…
Ma Cristo passa attraverso di te.
Attraverso me.
Attraverso noi.

Siamo suoi mediatori, sue mani, suoi occhi, suo cuore nel mondo.


Fratelli e sorelle, questa è la nostra dignità:
Cristo è il Capo. Noi siamo le membra.
Lui è il Mediatore. Noi, in Lui, siamo mediazione.
Lui è la luce. Noi siamo riflesso di quella luce.

Noi siamo Cristo — sue ossa e sua carne, suo corpo e sua presenza — chiamati a manifestare nel mondo il suo amore che salva, riconcilia e trasfigura tutta la creazione.


Allora, oggi possiamo chiederci:
Chi ho salvato questa settimana?
Chi ho perdonato?
A chi ho portato speranza?
In che modo Cristo ha potuto amare attraverso di me?

Perché ogni cristiano dovrebbe poter dire, con umile fierezza:
“Cristo oggi è passato… attraverso di me.”

Cristo non ha mani
ha soltanto le nostre mani
per fare oggi il suo lavoro.

Cristo non ha piedi
ha soltanto i nostri piedi
per guidare gli uomini
sui suoi sentieri.

Cristo non ha labbra
ha soltanto le nostre labbra
per raccontare di sé agli uomini di oggi.

Cristo non ha mezzi
ha soltanto il nostro aiuto
per condurre gli uomini a sé oggi.

Noi siamo l’unica Bibbia
che i popoli leggono ancora
siamo l’ultimo messaggio di Dio
scritto in opere e parole.

Anonimo Fiammingo del XIV secolo

Cristo non è il cognome di Gesù

Cristo non è il cognome di Gesù, ma un concetto molto più ampio. Gesù è la persona storica di Nazaret, mentre Cristo è una realtà universale ed eterna, presente fin dall’inizio della creazione. Come afferma il Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo… e il Verbo si fece carne” (Gv 1,1.14). San Paolo aggiunge che “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16). Cristo è la presenza di Dio nella materia, nella storia e nel cosmo; è ciò che unisce lo spirito e la materia, la vita divina dentro tutte le cose: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). Non è un evento nato duemila anni fa, ma un mistero che precede la creazione stessa: “Egli ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo” (Ef 1,4).

Il cristianesimo si è concentrato molto su Gesù storico, trascurando la dimensione universale del Cristo. Ma la Bibbia dice chiaramente che Cristo è eterno e cosmico: “Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,17). È il principio che sostiene la creazione e la sua logica è quella dell’unità, della comunione, dell’inclusione. Per questo essere cristiani non significa tanto credere in dottrine o frequentare riti, ma imparare a vedere la presenza di Cristo in tutto e in tutti. Ogni essere umano è tempio di Dio: “Voi siete tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi” (1 Cor 3,16), e ogni creatura è segno della sua presenza: “Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).

Cristo non è solo in Gesù, ma riflesso in ogni persona e creatura. Come dice Paolo: “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Per questo, essere cristiani significa saper vedere Cristo ovunque, soprattutto negli altri, nei poveri, negli esclusi: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Cristo non salva solo individui separati, ma è un mistero collettivo e comunitario. “Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1 Cor 15,22). La salvezza riguarda tutta l’umanità e tutta la creazione: “Ricondurre al Cristo tutte le cose, nei cieli e sulla terra” (Ef 1,10), “Anche la creazione sarà liberata e parteciperà alla gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21).

Per questo nella tradizione orientale, Cristo risorto non esce mai solo dal sepolcro, ma trascina con sé l’umanità rappresentata da Adamo ed Eva. Ciò si basa su alcuni passi biblici che parlano della discesa agli inferi: “Cristo discese a predicare agli spiriti prigionieri” (1 Pt 3,19) e “Colui che discese è lo stesso che salì al di sopra di tutti i cieli” (Ef 4,9–10). La risurrezione non è la vittoria personale di Gesù, ma l’inizio di una trasformazione universale.

Alla luce di questa visione, Cristo non è qualcosa da difendere, provare o escludere, ma è una presenza da riconoscere. Il giudizio finale non si basa sull’appartenenza religiosa, ma sulla capacità di riconoscere Cristo nei poveri e nei fragili: “L’avete fatto a me” (Mt 25,40). Ciò porta a una spiritualità non giudicante, umile, contemplativa e inclusiva.

In conclusione, Cristo è la presenza divina nel cosmo, in ogni persona e in ogni cosa. Gesù ne è la piena manifestazione storica, ma Cristo non è limitato a Gesù. Essere cristiani significa imparare a vedere Cristo dappertutto: nella creazione, negli altri, nei poveri, in sé stessi. È una visione universale, unificante, che supera divisioni religiose, culturali e sociali e conduce verso una fede contemplativa, incarnata e inclusiva.

Preferisco Calcedonia

L’immagine mostra due schemi simili, ma con una differenza fondamentale nell’interpretazione del termine Cristo e nell’unione tra Dio increato e Uomo creato. Nel primo schema Cristo è rappresentato come punto di incontro, una sorta di ponte o collegamento tra Dio e uomo. Dio increato e l’uomo creato restano separati, distinti, e Cristo sembra essere intermedio, un tramite esterno ai due, quasi come un mediatore che collega senza realmente unire. Questo suggerisce una concezione funzionale o simbolica di Cristo: Cristo è colui che mette in relazione, ma non è pienamente né l’uno né l’altro. Cristo è “fuori” della storia e del cosmo. L’incarnazione viene intesa in maniera simbolica in questo primo schema. Cristo è una idea. È una visione vicina a certi modelli adozianisti o moralisti, dove Cristo è inteso come uomo speciale scelto da Dio oppure l’idea del bene.

Nel secondo schema il punto di contatto tra Dio increato e uomo creato è interno, unito in modo reale nella figura di Cristo. Non è un semplice tramite, ma vera unione delle due nature: la natura divina e quella umana convivono in un’unica persona. Questa è la dottrina classica della Cristologia ortodossa (Calcedoniana): Cristo è vero Dio e vero uomo, un’unica persona in due nature, senza confusione né separazione. Cristo non collega dall’esterno, ma è l’unione stessa. Nel primo schema Cristo connette Dio e uomo, nel secondo Cristo è Dio e è uomo, nella stessa persona. È la differenza tra un Cristo “messaggero” e un Cristo incarnazione reale di Dio nella natura umana.

Se approfondiamo l’immagine ci accorgiamo, inoltre, che nel primo schema il punto di contatto ha il colore dell’Increato, cioè Dio. Nel secondo schema ha il colore del Creato, cioè l’Uomo. Questa scelta cromatica non è neutra, ma suggerisce due modi teologicamente diversi di concepire Cristo e l’Incarnazione.

Nel primo schema il contatto uomo-Dio appartiene a Dio, non all’uomo. Il movimento parte dall’alto, da Dio che tocca l’uomo. Cristo sembra essere una emanazione divina che interviene dall’esterno nella realtà umana. L’Incarnazione appare come discesa, quasi una visita divina nel mondo umano, ma non realmente assimilata dall’umanità. Il rischio teologico è un docetismo sottile, in cui Cristo è visto più come Dio mascherato da uomo che come vero uomo. L’umanità non è realmente coinvolta nel punto di unione: l’iniziativa e la natura dell’unione rimangono totalmente divine. Questa è la riformulazione di Calcedonia avvenuta al Secondo Concilio di Costantinopoli (553). La cristologia attuale è neocalcedonense e ha il limite di essere cripto-monofisita.

Nel secondo schema l’unione tra Dio e uomo avviene nella natura umana, dall’interno dell’umanità. L’Incarnazione è un processo reale di assunzione della natura umana e creata. Cristo è vero uomo, e proprio nella sua umanità avviene l’unione col divino. Il punto non è un’intrusione divina, ma un’unione ipostatica, reale e sostanziale, che assume l’intero dell’umano. Questa assunzione avviene in un punto determinato della creazione e della storia: secondo la fede cristiana è l’uomo Gesù, ma come è chiaro tale punto “appartiene” al creato, per cui ogni altro punto del cosmo è connesso con questo punto che è Gesù di Nazaret.

La natura umana diventa luogo reale dell’incontro tra Dio e il mondo. La salvezza non è solo rivelazione, ma trasformazione dell’umanità, perché Dio entra nella condizione umana. Nel primo schema Dio tocca l’uomo, ma non diventa realmente uomo. Nel secondo schema Dio non solo tocca, ma diventa uomo, e in Cristo l’umano diventa luogo di Dio. Tutto il cosmo è chiamato a essere Cristo, mentre nel primo schema essendo il punto appartenente all’increato, non comunica a tutto il cosmo la divinità, se non in maniera “indiretta” attraverso la figura di un “mediatore” che è divino e non umano, esterno e non interno al cosmo.

Nel secondo schema il punto di unione è del colore del creato, e questo suggerisce che l’unione tra Dio e l’uomo avviene dentro la realtà creata, non come qualcosa di esterno o isolato. La conseguenza implicita è che Cristo non è solo un individuo (secondo la fede cristiana: Gesù di Nazareth), ma il principio (das Christiliche, il Cristo, il Logos) attraverso cui tutto il creato viene assunto, trasfigurato e chiamato alla divinizzazione.

Questo richiama il Cristo cosmico, la teologia della theosis e l’Incarnazione come evento non solo storico ma cosmico. Cristo è un processo universale: l’intero cosmo è destinato a partecipare alla divinità. Gesù di Nazareth è l’inizio della piena realizzazione di questo principio. Nel primo schema invece il punto appartiene all’Increato, e l’unione è un’iniziativa divina che non coinvolge il cosmo dall’interno. Il cosmo rimane esterno, non viene realmente assunto dalla divinità. Cristo appare come “intervento divino” nella storia, ma non come principio di trasformazione universale. Questo limita la portata cosmica dell’Incarnazione: Cristo come rivelazione, ma non come trasformazione sostanziale della creazione. Nel secondo schema quindi Cristo è non solo il punto di incontro tra Dio e l’uomo, ma il principio attraverso cui tutta la creazione è chiamata a partecipare alla divinità, mentre nel primo schema Cristo rimane principalmente divino e non comunica ontologicamente la divinità al cosmo, ma solo un contatto.

Cristo non è il cognome di Gesù, ma un concetto molto più ampio. Gesù è la persona storica di Nazaret, mentre Cristo è una realtà universale ed eterna, presente fin dall’inizio della creazione. Come afferma il Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo… e il Verbo si fece carne” (Gv 1,1.14). San Paolo aggiunge che “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16). Cristo è la presenza di Dio nella materia, nella storia e nel cosmo; è ciò che unisce lo spirito e la materia, la vita divina dentro tutte le cose: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). Non è un evento nato duemila anni fa, ma un mistero che precede la creazione stessa: “Egli ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo” (Ef 1,4).

Il cristianesimo si è concentrato molto su Gesù storico, trascurando la dimensione universale del Cristo. Ma la Bibbia dice chiaramente che Cristo è eterno e cosmico: “Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,17). È il principio che sostiene la creazione e la sua logica è quella dell’unità, della comunione, dell’inclusione. Per questo essere cristiani non significa tanto credere in dottrine o frequentare riti, ma imparare a vedere la presenza di Cristo in tutto e in tutti. Ogni essere umano è tempio di Dio: “Voi siete tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi” (1 Cor 3,16), e ogni creatura è segno della sua presenza: “Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11).

Cristo non è solo in Gesù, ma riflesso in ogni persona e creatura. Come dice Paolo: “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Per questo, essere cristiani significa saper vedere Cristo ovunque, soprattutto negli altri, nei poveri, negli esclusi: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Cristo non salva solo individui separati, ma è un mistero collettivo e comunitario. “Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1 Cor 15,22). La salvezza riguarda tutta l’umanità e tutta la creazione: “Ricondurre al Cristo tutte le cose, nei cieli e sulla terra” (Ef 1,10), “Anche la creazione sarà liberata e parteciperà alla gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21).

Per questo nella tradizione orientale, Cristo risorto non esce mai solo dal sepolcro, ma trascina con sé l’umanità rappresentata da Adamo ed Eva. Ciò si basa su alcuni passi biblici che parlano della discesa agli inferi: “Cristo discese a predicare agli spiriti prigionieri” (1 Pt 3,19) e “Colui che discese è lo stesso che salì al di sopra di tutti i cieli” (Ef 4,9–10). La risurrezione non è la vittoria personale di Gesù, ma l’inizio di una trasformazione universale.

Alla luce di questa visione, Cristo non è qualcosa da difendere, provare o escludere, ma è una presenza da riconoscere. Il giudizio finale non si basa sull’appartenenza religiosa, ma sulla capacità di riconoscere Cristo nei poveri e nei fragili: “L’avete fatto a me” (Mt 25,40). Ciò porta a una spiritualità non giudicante, umile, contemplativa e inclusiva.

In conclusione, Cristo è la presenza divina nel cosmo, in ogni persona e in ogni cosa. Gesù ne è la piena manifestazione storica, ma Cristo non è limitato a Gesù. Essere cristiani significa imparare a vedere Cristo dappertutto: nella creazione, negli altri, nei poveri, in sé stessi. È una visione universale, unificante, che supera divisioni religiose, culturali e sociali e conduce verso una fede contemplativa, incarnata e inclusiva.

La mediazione di tutte le cose

Ogni creatura, per la sua natura relazionale, è mediatrice perché riflette e mette in connessione il tutto e rimanda in ultima istanza a Dio. Gesù, in quanto vero uomo, vive questa mediazione in modo pieno: unisce perfettamente divino e umano, trasformando la fragilità in luogo di comunione e diventando ponte vivente tra Dio e l’umanità. Maria, come le creature ma in modo esemplare, partecipa a questa mediazione non autonomamente, ma come cooperazione subordinata all’unica mediazione di Cristo, mostrando che la salvezza è un dinamismo condiviso di relazione, comunione e dono.

1) Ogni ente è mediatore della totalità degli enti

Numerose tradizioni filosofiche e teologiche hanno sostenuto che ogni ente racchiude in sé, in forma implicita o esplicita, l’intero universo. Nei presocratici (Anassagora, Eraclito, Empedocle) ogni cosa contiene in potenza le qualità o gli elementi di tutte le altre. Il neoplatonismo, soprattutto in Plotino, descrive la realtà come struttura gerarchica e relazionale, dove ogni livello dell’essere rimanda a quello superiore e inferiore. La tradizione filosofica e teologica medievale sviluppano l’idea del microcosmo e macrocosmo: la creatura (soprattutto l’uomo) riflette l’intera creazione. Cusano parla dell’ente come contractio universi, contrazione del tutto; Giordano Bruno afferma che ogni ente è una monade che rappresenta l’universo; Leibniz riprende l’idea sostenendo che ogni monade rappresenta il mondo intero da un certo punto di vista. In Hegel ogni determinazione è una totalità che contiene il proprio opposto e il processo dialettico. In Whitehead ogni evento “prehends” gli altri, contenendoli e mediandoli; in Bohm ogni parte contiene l’informazione del tutto.

Se ogni ente contiene in sé tracce, immagini o rappresentazioni degli altri enti, allora li media: li rende presenti, li collega, li mette in relazione. Essere significa essere-in-relazione: ogni ente è un punto attraverso cui l’essere degli altri passa, si riflette, si comunica. La mediazione è la struttura ontologica dell’essere. Ogni creatura è quindi mediatrice per essenza, non per un atto specifico, ma per il suo essere stesso: luogo in cui il tutto si rispecchia e si comunica. Il tutto nel frammento e il frammento nel tutto (panenteismo).


2) Gesù è mediatore in quanto creatura

«Uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm 2,5–6). La tradizione cristiana riconosce che Gesù è vero uomo e in quanto tale è “mediatore” di salvezza. Se Gesù è una creatura, significa che Gesù per sua essenza è mediatore della salvezza come ogni altra creatura. Se Gesù è una creatura, significa che è imperfetto e incompleto come ogni altra creatura. La mediazione che struttura l’umanità di Gesù è ciò che gli permette di non essere “isolato” dalle altre creature, cioè dal cosmo. Ogni creatura tende per sua natura a tale compimento o perfezione. Il frammento tende al tutto, perché il tutto ha messo “eco” di sé (cfr. desiderio, conatus, relazionalità) dentro ad ogni frammento.

L’uomo Gesù, quindi, tende a conformarsi a Dio, essendo l’uomo (Adamo) immagine di Dio. Diventare come Dio significa, perciò, compimento dell’umano, poiché l’identità creaturale non va mai concepita come qualcosa di “isolata” dagli altri e da Dio stesso. È come un punto su una circonferenza che quanto più si avvicina al centro (Dio) tanto più si avvicina anche agli altri punti, fino a che tutti i punti della circonferenza diventano “Uno” nel centro. La convergenza al centro è la fede in Dio, l’avvicinamento agli altri punti è l’amore.

La separazione o isolamento dell’ente – dagli altri enti e dalla totalità degli enti – è ciò che biblicamente viene chiamato “peccato”. Il peccato è distorcere la comprensione della propria umanità. Voler essere “uomo” senza la mia umanità è l’essenza del peccato. La salvezza, invece, significa diventare “umani”. Quanto più divento uomo, tanto più divento Dio e diventando Dio divento sempre più fratello e sorella dei miei simili.

In quanto creatura, l’umanità di Gesù è essenzialmente connessa con quella degli altri e vive una relazione filiale, immediata, libera con Dio. Nella sua autocoscienza Gesù si riconosce Figlio, chiamando Dio “Abbà”, rendendo così manifesta la natura mediatrice di ogni creatura: da una parte porta in sé in modo pieno l’immagine del Padre (“io e il Padre siamo una cosa sola”), dall’altra condivide totalmente la condizione umana, inclusa la sofferenza e la morte.

Comprendere la “morte” e la “sofferenza” come un castigo o una pena significa considerare la creatralità divisa dalla divinità. L’esperienza di Gesù ci attesta che la morte o la sofferenza possono essere vissute come espressione d’amore e della solidarietà con l’uomo, cioè dando la vita e servendo altri. In quanto Gesù vive sé come teofania e incarnazione della logica di Dio (con altre parole “regno di Dio”), si spezza per altri non per soddisfare un Dio irato e nemmeno per portare su di sé il castigo dell’umanità. Gesù vive la sofferenza e la morte non come conseguenze di un peccato ma come condizione umana che diventa possibilità di amore.

In tal modo, Gesù ricompone nella sua persona la frattura tra la fragilità e incompletezza umana e la benedizione divina: la fragilità, lungi dall’essere segno della colpa, diventa luogo della comunione e compassione. Gesù diventa così il ponte vivente tra Dio e l’umanità ferita. Gesù è il “nuovo” Adamo nel senso che non si lascia ingannare o sedurre dalla tendenza alla separazione che è l’essenza del peccato ma preferisce favorire la comunione, riaprendo così il rapporto filiale originario con Dio e introduce nella storia la logica del regno di Dio, ossia l’anticipazione dell’Eden nelle relazioni fragili del nostro mondo quotidiano. Gesù, quindi, realizza la possibilità e capacità mediatrice di tutte le creature.

Ogni creatura è mediatrice. In Gesù questa mediazione creaturale si manifesta pienamente e ci incoraggia a divenire anche noi “mediatori” di salvezza per altri. La mediazione di Gesù è unica, solamente nel senso che è uni-cum cioè rivelatrice della mediazione cosmica di tutte le cose.


3) L’idea della mediazione nella Mariologia

La Nota dottrinale Mater Populi Fidelis (2025) chiarisce i titoli mariani legati alla cooperazione nella salvezza, come “Corredentrice” e “Co-mediatrice”. Il documento riafferma che Cristo è l’unico mediatore in senso pieno e assoluto, secondo le Scritture: «In nessun altro c’è salvezza» (At 4,12) e «Uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm 2,5–6). Solo in Lui l’umanità è unita ipostaticamente al Verbo. Tuttavia, questa unicità non esclude mediazioni subordinate e partecipate: Cristo coinvolge liberamente Maria, la Chiesa e tutti i credenti nella sua opera salvifica.

La mediazione di Maria non è autonoma, parallela o aggiuntiva, ma totalmente dipendente da Cristo e orientata a Lui. Perciò i titoli mariani vanno compresi in modo analogico: Maria è l’icona perfetta di ciò che ogni creatura è chiamata a vivere, ovvero partecipare alla mediazione di Cristo come cooperazione al bene. Si tratta di diventare un alter Cristus, manifestando così la natura relazionale della salvezza: le creature, secondo Sapienza 1,14, sono “portatrici di salvezza”.

La redenzione, in questa visione, non è solo un evento puntuale (quel pomeriggio del 33 d.C. a Gerusalemme) o esclusivo (Gesù di Nazareth), ma un processo di liberazione dalla chiusura su di sé (in se ipsa incurvata) e di apertura alla relazione. Gesù, Maria e ogni creatura partecipano, in modi diversi, a questo dinamismo di “s-legamento” delle potenzialità mediatrici di ogni creatura. Ogni atto autentico di bene — come offrire un bicchiere d’acqua — è forma di mediazione salvifica, come partecipazione all’unica opera di riconciliazione. La grazia è unica nella fonte, ma multiforme nella partecipazione. La creazione stessa è voluta da Dio come realtà mediatrice di salvezza.

La questione del rapporto tra il Gesù storico e il Cristo della fede non può essere intesa come una semplice giustapposizione di due prospettive parallele – da un lato la cronaca degli eventi, dall’altro la costruzione dogmatica – bensì come un problema eminentemente ermeneutico. Non è infatti il Gesù storico a interpretare il Cristo della fede, ma viceversa: è la fede che fonda e rende intelligibile il fatto storico.

La ragione di ciò risiede nel carattere inevitabilmente interpretato di ogni evento. Non esistono facta bruta, dati puri e immediati, ma sempre fatti già compresi, osservati, narrati. Già il solo atto di nominare qualcosa come “fatto” o “evento” implica l’introduzione dell’osservatore e delle sue categorie all’interno di ciò che si pretende oggettivo. In questo senso, la storia non è mai neutra, ma sempre mediata da un orizzonte di senso.

Se tale presupposto ermeneutico è valido, ne consegue che il “creduto” precede il “dato”: l’idea, il pensiero, la fede non sono un’aggiunta posteriore alla realtà, ma la condizione stessa della sua intelligibilità. Qui si manifesta la matrice idealistica: il Gesù “vero” non è quello della pura cronaca, ma quello dell’Idea, ossia il Gesù che è Cristo.

Tuttavia, ciò che chiamiamo “Cristo” (das Christliche) non è un concetto statico, fissato una volta per tutte. È piuttosto un’idea dinamica, un processo di rivelazione che si dispiega nella storia. In termini hegeliani, potremmo dire che il Cristo è la figura attraverso cui lo Spirito si manifesta e conduce la comunità – non solo dei credenti, ma dell’intera umanità – verso una verità sempre più compiuta. In termini bultmanniani, la “demitizzazione” non elimina il Cristo della fede, ma lo riconduce al suo nucleo esistenziale, continuamente attualizzato.

La revelatio continua è dunque il movimento stesso dello Spirito: non una verità consegnata una volta per tutte, ma un processo di scoperta e di interpretazione che accompagna la storia umana. «Lo Spirito Santo […] vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Il Cristo non è un oggetto fissato, ma un evento di senso che si rinnova, un’Idea che fonda e insieme trascende il fatto.

Il concetto di revelatio continua indica che la rivelazione non è un deposito di verità cristallizzate, consegnate una volta per tutte, ma un processo dinamico, un cammino di scoperta, interpretazione e comprensione che cresce insieme alla storia umana. Lo Spirito, infatti, non consegna semplicemente informazioni, ma accompagna l’umanità nel discernimento progressivo del senso, illuminando ciò che è stato detto e compiuto da Cristo alla luce delle nuove condizioni storiche, culturali e spirituali. Come afferma il Vangelo di Giovanni: «Lo Spirito Santo […] vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Il ricordare qui non è un atto mnemonico, ma un ri-attualizzare: lo Spirito rende presente il senso dell’evento cristico, permettendo che esso continui a parlare alle epoche, alle culture, alle coscienze.

In questa prospettiva, Cristo non è un oggetto fisso, statico, definito una volta per sempre, bensì un evento di senso, una fonte di significato che si rinnova continuamente. È un’Idea viva, sorgente di intelligibilità, che fonda la fede e, allo stesso tempo, trascende ogni formulazione storica o dogmatica che ne fa eco. Cristo è evento — un accadere — non semplice dato: è il punto in cui l’umanità e il divino si incontrano, si interpretano e si trasformano reciprocamente nella storia.

Da qui nasce la distinzione, ma non la separazione, tra gesuanesimo e cristianesimo. Il gesuanesimo indica la figura storica di Gesù di Nazaret, uomo concreto, inserito nella cultura del suo tempo; il cristianesimo, invece, è la comprensione progressiva di quell’evento storico alla luce della fede, della teologia, dell’esperienza ecclesiale e dello sviluppo spirituale dell’umanità. Essi non si annullano a vicenda, né si confondono: il cristianesimo non cancella Gesù storico, e il Gesù storico non esaurisce Cristo. Il cristianesimo nasce come interpretazione vivente e continua del gesuanesimo, ma questa interpretazione non è un semplice sviluppo lineare: è un processo dialogico, un movimento spirito-storico.

Per questo, invece di pensare in termini di semplice giustapposizione (Gesù e Cristo), è più appropriato usare la logica della copula, cioè dell’identità dinamica:

CRISTO = CRISTO + GESÙ

Questa formula, ispirata al Monismo relativo, non è un paradosso, ma una via per esprimere che Cristo comprende sia la memoria storica dell’uomo Gesù sia la sua potenza trascendente che si attualizza oltre la storia. Cristo è il Gesù storico interpretato nello Spirito, e nello stesso tempo è il Cristo che eccede ogni interpretazione storica, aprendosi a nuove comprensioni.

In altri termini:

  • Gesù è la radice storica.
  • Cristo è il significato sempre crescente di quella radice nella storia dello Spirito.
  • La rivelazione è il processo attraverso cui lo Spirito conduce l’umanità a riconoscere progressivamente la profondità dell’Evento Cristo.

Così, la fede non è un ritorno al passato, ma un cammino nello Spirito: memoria vivente che diventa profezia. Cristo non è solo il “Dio dell’In Alto”, ma anche il “Dio dell’In Avanti”: Colui che guida la storia verso la sua pienezza, continuando a rivelarsi nella coscienza, nelle culture e nelle trasformazioni spirituali dell’umanità.

“Il Logos di Dio, anche lui Dio, vuole sempre e in ogni cosa attualizzare il mistero della sua incarnazione. Βούλεται γὰρ ἀεὶ καὶ ἐν πᾶσιν ὁ τοῦ Θεοῦ Λόγος καὶ Θεὸς τῆς αὐτοῦ ἐνσωματώσεως ἐνεργεῖσθαι τὸ μυστήριον”.

(Maximus the Confessor, Ambigua [hereafter Amb.] 7.22, in On Difficulties  in the Church Fathers, 2 vols, trans. Nicholas Constas (Cambridge, MA: Harvard University Press,  2014), vol. 1, p. 107; trans. altered.)

Il Verbo di Dio – che è Dio – vuole attuare il mistero dell’incarnazione sempre e in tutti. Quindi (!), non è sufficiente per Massimo il Confessore dire con fede “Gesù è Cristo”, ma è necessario anche aggiungere “Noi siamo Cristo”. Non è stravaganza di qualche neo-cristiano, post-cristiano o post-teista! È un Padre della Chiesa, e con lui tanti altri (cfr. Scoto Eriugena e Cusano) che gridano questo.

Per questo Teilhard de Chardin GRIDA, GRIDA, GRIDA:

«Continuiamo per abitudine a considerare la Parusia, con cui il Regno di Dio sarà consumato sulla Terra, come un evento di natura puramente catastrofica, ovvero suscettibile di verificarsi in qualsiasi momento della storia, indipendentemente dallo stato definito dell’umanità. Questo è un modo di considerare la questione. Tuttavia, perché non dovremmo supporre, in accordo con la più recente visione scientifica dell’umanità in uno stato effettivo di antropogenesi, che la scintilla della parusia possa, per necessità fisica e organica, essere accesa solo tra il Cielo e un’umanità che abbia biologicamente raggiunto un certo punto critico di maturità evolutiva collettiva?»

(Teilhard de Chardin, The Future of Man, 267).

Teilhard individua l’avvento di una forma rinnovata di esperienza cristiana — definita “Neo-cristianesimo”, “Iper-cristianesimo”, “Cristianesimo re-incarnato”, “Cristianesimo rinato”, “ultra-cristianesimo”, “Cristianesimo trans-cristiano” — in cui il ruolo centrale è svolto dalla categoria di evoluzione. Attraverso un lessico teologico atipico e innovativo, popolato da espressioni come “Cristo cosmico”, “Cristo evolutore”, “Super-Cristo”, “Pleromizzazione”, “Dio evolutore”, “Panteismo cristiano” e “nuovo Dio”, Teilhard dà forma a un modo inedito di sentire e pensare la fede, condensato nella formula “praesentire cum Ecclesia”. Con essa, il gesuita propone un pensiero religioso capace di andare oltre la rigida normatività del “sentire cum Ecclesia” neoscolastico, aprendo un nuovo sentiero che invita la Chiesa a dialogare positivamente con i fenomeni culturali e scientifici della modernità.

Preferisco, in tal senso, il “Neo-cristianesimo” di Teilhard de Chardin a quello di Mancuso poiché riconosco la forza ermeneutica dell’Idea della sua bellezza sui facta bruta. Intuisco in Teilhard la forza dell’incarnazione dell’Idea, del Mistero, di Dio. Il Senso che si fa strada sui sentieri del non-senso “nella” storia. La forza ispiratrice anche della parola “redenzione” riletta certamente attraverso l’esperienza di un cristianesimo che ha duemila anni di storia. Un cristianesimo di santi e peccatori, di traditori e trasmettitori. Ma è un cristianesimo che segue il paziente corso della Parousia. Un Senso incarnato ma che continuamente si incarna. Eνεργεῖσθαι τὸ μυστήριον. Il mistero – cioè l’Idea – è Atto ed esige sempre, è (so)spinto sempre ad attuarsi, ad incarnarsi. Mai a restare “fuori” della Storia. «Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν» (Gv 1,14).

L’avvento che è alle porte ci invita ad avere pazienza per poter così coniugare Gesù “e” Cristo nella generazione della “è”. Seguendo la pazienza di Cristo, ecco cosa Teilhard de Chardin ci dice di essa:

Prima di tutto abbi fiducia nella lenta opera di Dio. Noi siamo naturalmente impazienti di arrivare subito, in ogni nostra impresa, alla conclusione. Vorremmo bruciare le tappe. Siamo insofferenti di essere in cammino verso qualcosa di sconosciuto, di nuovo …. Tuttavia non c’è progresso che si raggiunga senza passare per momenti di instabilità e di precarietà.

A poco a poco, le tue idee maturano, tu lasciale crescere, lascia che prendano forma. Non cercare di “forzarle”, quasi che tu potessi essere oggi quella che ti farà domani il tempo (la grazia, cioè, e le circostanze che agiscono sulla tua buona volontà).

Dio solo sa come sarà questo spirito nuovo che, a poco a poco, si sta delineando in  te. Fa credito a Dio, pensa che la sua mano ti guida nell’oscurità e nel “divenire” e accetta per amor suo l’inquietudine di sentirti sospesa e come incompiuta.

Teilhard de Chardin, Lettera del 4 luglio 1915 alla cugina Marguerite.

La “logica” della Redenzione

L’identità ontologica tra Logos (x) e logoi (y) va intesa in senso relazionale e non aritmetico. Non si tratta di un’equazione identitaria del tipo “x = y”, che annullerebbe la distinzione, e nemmeno di un’aggiunta estrinseca come “x + y”, che comporterebbe dualismo o composizione. Piuttosto, essa si manifesta filosoficamente come “x = x + y”, dove i logoi sono compresi all’interno del Logos senza aggiungervi nulla ontologicamente di nuovo. Se si risolve l’equazione, si giunge a “y = 0”: non nel senso che i logoi non esistono, ma nel senso che esistono solo come riferiti, contenuti, espressi e partecipati dal Logos. Il loro essere è derivato, dipendente, manifestativo.

Questa identità non annulla la differenza, ma la fonda. L’identità ontologica tra Logos e logoi è creatrice: essa implica una relazione generativa, per cui i logoi sono la modalità fenomenica e partecipata con cui il Logos si dona, si esplica e si manifesta. Ciò significa che le creature (i logoi) non sono un’aggiunta esterna o estrinseca al Logos, bensì sono incluse eternamente in Lui come idee, ragioni divine, pensieri della sua Mente. Sono come l’incarnazione concettuale del Logos stesso, la sua fenomenicità, la sua explicatio, per usare il linguaggio di Cusano.

Per comprendere questo vorrei utilizzare la metafora della luce. La luce bianca, che apparentemente è semplice e uniforme, contiene già in sé, in modo indiviso e unificato, tutti i colori. Essa è la sintesi armonica e indistinta dei molteplici. Quando la luce passa attraverso un prisma — simbolo della manifestatio, della explicatio o dell’incarnazione — essa si “dispone”, si “dispiega” nei vari colori fondamentali: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e viola. Questi colori non sono aggiunti, ma erano già tutti inclusi nella luce bianca: il prisma si limita a rivelarli, a renderli visibili, fenomenici, partecipabili. I logoi sono questi colori, queste manifestazioni differenziate del Logos-luce, che in Dio sono eternamente “complicati” e, nella creazione, “esplicati”.

La dispersione visibile della luce — come nella formazione dell’arcobaleno attraverso le gocce d’acqua — diventa così simbolo della creazione, dell’incarnazione, della rivelazione, della storia della salvezza. Ciò che è eternamente uno nel Logos divino, si mostra temporalmente molteplice nei logoi, ovvero nelle creature, nelle idee divine che prendono forma nello spazio e nel tempo.

Secondo questa prospettiva, profondamente radicata nella patristica greca, in Massimo il Confessore, in Dionigi Areopagita, e ripresa da Cusano, Gioberti e oltre, la relazione tra Logos e logoi non è estrinseca, ma intrinseca, relazionale, salvifica. Le creature, partecipando al Logos, sono chiamate a ritornare a Lui: exitus et reditus, dispersione e ricapitolazione. In Cristo (Logos incarnato), tutte le cose sono ricondotte all’unità originaria.

Così, il rapporto tra “Gesù, Maria e noi” non è esteriore o giustapposto, ma è intrinseco all’identità salvifica tra Logos e logoi. Maria è partecipa del Logos, così come Gesù e noi. La differenza sta nel fatto che Maria ha dato alla luce Gesù corporalmente (biologicamente), Gesù ha realizzato la redenzione dando il proprio corpo, la propria vita a Dio (esistenzialmente), infine, noi realizziamo la redenzione come “corpo” dei credenti (ecclesialmente). La redenzione, quindi, è evento spirituale del Logos incarnato, dell’unità vivente tra il Logos eterno e i logoi dispiegati. Nel Logos sussiste il centro ontologico in cui tutta la creazione, in Maria e in noi, trova principio, senso e compimento.

In questa visione, l’intero cosmo, la storia, l’uomo, la Chiesa, non sono realtà estranee a Dio, ma manifestazioni partecipate del Logos incarnato. La molteplicità non contraddice l’unità, ma la esprime. E il Logos, incarnandosi, non si separa dai logoi, ma li assume, li redime, li riconduce a sé, affinché l’unità originaria, pur nella differenza, risplenda come armonia, come sinfonia della luce divina.