
Dio ci attraversa nella carne sin dall’inizio del nostro respiro. Non serve che qualcuno ce lo consegni, non è un premio per i credenti né un bottino dei devoti: è una presenza tacita, come un respiro che esisteva già quando non sapevamo nemmeno formulare una domanda.
Rainer Maria Rilke non ha mai smesso di misurarsi con quella presenza. Ha rifiutato porte sbarrate, formule ripetute e risposte troppo pronte; ha temuto ogni mediatore che volesse frapporsi tra l’uomo e il divino: Gesù trasformato in ostacolo, i sacerdoti in interpreti, la fede in disciplina. A lui interessava una sola cosa: sentire Dio sulla pelle della vita quotidiana. Non cercava rassicurazioni, preferiva restare nel dubbio, nell’apertura, nel silenzio delle chiese vuote dove si può piangere senza motivo, solo perché un attimo sembra più grande di noi. Cercava un Dio senza mura, senza esclusività, un Dio che puoi intuire nei Salmi, nella terra, in un fiore blu, nella notte in cui non arriva sonno.
Per lui credere non significava accettare un dogma, ma lasciarsi toccare dove non controlli nulla. La fede imposta sembrava un peso, mentre l’esperienza era un lampo: arrivava in un istante senza nome, spesso in contrasto con ciò che si è imparato, e allora non importava più se lo si chiamasse credere, tremare, amare o restare senza fiato. Rilke voleva un Dio libero e sfuggente, grande come il mistero dell’Antico Testamento e allo stesso tempo fragile come un respiro dietro un muro sottile: non un Dio posseduto, ma un Dio che continua a sfuggire anche mentre ti abita.
Per questo invitava a smettere di svalutare la terra. “Essere qui è meraviglioso”: qui nascono le lacrime e il desiderio, qui si intrecciano dolore, pienezza, amore e solitudine, e qui si comprende che il divino non è un altrove consolatorio, ma un compito. La presenza di Dio non elimina il buio, ma lo attraversa; non pretende purezza, ma disponibilità. È un invito a trasformare ciò che viviamo in qualcosa che continui la sua opera.
Anche il linguaggio, per lui, era un territorio sospeso. Le parole possono essere ponti oppure muri: fanno nascere ciò che ancora non sappiamo dire, ma possono anche soffocarlo. Ogni parola è una domanda, e se la trattiamo come risposta smette di fiorire. Per questo cercare Dio non significa costruire templi, ma mantenere aperta una fessura: accettare che la bellezza e l’orrore coesistono, che la vita è delicata e inviolabile anche quando si spezza, che la presenza divina non annulla l’enigma ma lo accompagna.
Alla fine resta un gesto semplice: restare nel silenzio, ascoltare un respiro che non sappiamo nominare, accettare un mistero così vicino da poter abbattere un muro con un solo grido. Non per possedere Dio, ma per lasciarci plasmare da ciò che ci attraversa da sempre.







