Dio ci attraversa nella carne sin dall’inizio del nostro respiro. Non serve che qualcuno ce lo consegni, non è un premio per i credenti né un bottino dei devoti: è una presenza tacita, come un respiro che esisteva già quando non sapevamo nemmeno formulare una domanda.

Rainer Maria Rilke non ha mai smesso di misurarsi con quella presenza. Ha rifiutato porte sbarrate, formule ripetute e risposte troppo pronte; ha temuto ogni mediatore che volesse frapporsi tra l’uomo e il divino: Gesù trasformato in ostacolo, i sacerdoti in interpreti, la fede in disciplina. A lui interessava una sola cosa: sentire Dio sulla pelle della vita quotidiana. Non cercava rassicurazioni, preferiva restare nel dubbio, nell’apertura, nel silenzio delle chiese vuote dove si può piangere senza motivo, solo perché un attimo sembra più grande di noi. Cercava un Dio senza mura, senza esclusività, un Dio che puoi intuire nei Salmi, nella terra, in un fiore blu, nella notte in cui non arriva sonno.

Per lui credere non significava accettare un dogma, ma lasciarsi toccare dove non controlli nulla. La fede imposta sembrava un peso, mentre l’esperienza era un lampo: arrivava in un istante senza nome, spesso in contrasto con ciò che si è imparato, e allora non importava più se lo si chiamasse credere, tremare, amare o restare senza fiato. Rilke voleva un Dio libero e sfuggente, grande come il mistero dell’Antico Testamento e allo stesso tempo fragile come un respiro dietro un muro sottile: non un Dio posseduto, ma un Dio che continua a sfuggire anche mentre ti abita.

Per questo invitava a smettere di svalutare la terra. “Essere qui è meraviglioso”: qui nascono le lacrime e il desiderio, qui si intrecciano dolore, pienezza, amore e solitudine, e qui si comprende che il divino non è un altrove consolatorio, ma un compito. La presenza di Dio non elimina il buio, ma lo attraversa; non pretende purezza, ma disponibilità. È un invito a trasformare ciò che viviamo in qualcosa che continui la sua opera.

Anche il linguaggio, per lui, era un territorio sospeso. Le parole possono essere ponti oppure muri: fanno nascere ciò che ancora non sappiamo dire, ma possono anche soffocarlo. Ogni parola è una domanda, e se la trattiamo come risposta smette di fiorire. Per questo cercare Dio non significa costruire templi, ma mantenere aperta una fessura: accettare che la bellezza e l’orrore coesistono, che la vita è delicata e inviolabile anche quando si spezza, che la presenza divina non annulla l’enigma ma lo accompagna.

Alla fine resta un gesto semplice: restare nel silenzio, ascoltare un respiro che non sappiamo nominare, accettare un mistero così vicino da poter abbattere un muro con un solo grido. Non per possedere Dio, ma per lasciarci plasmare da ciò che ci attraversa da sempre.

La congiunzione è legittima? Sì.

Non si accede alla realtà – nemmeno a quella di Gesù – senza collocarsi, consapevolmente o no, entro un punto di vista. Ogni conoscenza, inclusa quella della fede, è inevitabilmente prospettica. Da qui nasce la convinzione che un approccio a Gesù remoto Christo e sine fide christiana non solo sia possibile, ma anche legittimo. È lo stesso tipo di legittimità che mi consente di studiare una moneta da un euro come un semplice oggetto di metallo-nichel: non ho bisogno di sapere nulla della Banca Centrale Europea per identificarne la composizione materiale. Tuttavia, se voglio comprenderne il valore, se voglio sapere che cosa “vale” un euro nel sistema economico, allora devo entrare in relazione con l’istituzione che lo garantisce e con il significato che quella moneta assume.

Così accade anche con Gesù. Mancuso analizza innanzitutto il “metallo Gesù”, vale a dire la sua realtà storica, secondo la prospettiva della ricerca storico-critica; solo in un secondo momento affronta la questione di ciò che significa chiamarlo “Cristo”, cioè del suo valore teologico. È vero: i Vangeli non sono biografie nel senso moderno del termine, ma testimonianze di fede. È altrettanto vero che i fatti non si offrono come oggetti neutrali, bensì vengono colti e disvelati all’interno di un atto interpretativo, di una prospettiva. Eppure, proprio perché il Verbo si è fatto carne, storia, uomo concreto, questa carne e questa storia – la vicenda umana di Gesù – sono accessibili a tutti attraverso l’uso della ragione. Negarlo non significa soltanto criticare Mancuso: significa, in ultima analisi, mettere in discussione un pilastro della fede cristiana stessa, l’incarnazione.

Quando si parla di “pretesa cristiana”, si intende spesso l’affermazione che il punto di vista della fede cristiana, rispetto a quello agnostico, ateo o semplicemente altro, sia l’unico possibile su Gesù. Ma il nodo non è dire che Gesù è il Cristo: questo lo può affermare anche un ateo, come semplice dato storico-linguistico. Il vero problema è stabilire quale messianismo debba essere attribuito a Gesù. Poiché i messianismi sono stati molti, è legittimo – anzi necessario – interrogarsi, distinguere, chiarire il rapporto tra Gesù e il Cristo.

La pretesa che proprio questo Gesù sia il Cristo, e non altri, non può essere semplicemente creduta: deve essere continuamente argomentata, pensata, assunta responsabilmente. In questo senso, la distinzione tra Gesù e Cristo, operata da Mancuso, non è contro la fede, ma al servizio della fede. Dopo ottocento pagine si può ben dire: “non mi convince”. È una posizione legittima. Ciò che non è legittimo, invece, è sostenere che questa operazione di distinzione non possa nemmeno essere tentata. Una simile affermazione contraddice la fede cristiana stessa, che non espelle il dubbio ma lo assume dentro di sé.

Se c’è dubbio, significa che la copula “Gesù è Cristo” non è un’evidenza incontrovertibile. Lo attestano persino le ultime righe del Vangelo di Matteo: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano” (Mt 28,17). E se dubitano, allora la distinzione è legittimata intra moenia ecclesiae. La pretesa cristiana non si fonda sull’incontrovertibilità, ma su una decisione della volontà, su un atto di fiducia. Come scrive Agostino: ipsum credere nihil aliud est quam cum assensione cogitare.

All’interno di uno stesso soggetto convivono più punti di vista: quello del credente e quello del non credente, dello storico e del devoto. Sono distinti, non si assorbono l’uno nell’altro, e tuttavia coesistono. Per tutte queste ragioni, il lavoro di Mancuso non indebolisce la fede: la provoca, la costringe a pensarsi, e proprio per questo la aiuta.

Che c’entra la fisica quantistica con Nicea?

La fisica quantistica ha mostrato che una stessa realtà può essere descritta in modi diversi a seconda del livello di osservazione: prima della misura un sistema è rappresentato dalla funzione d’onda, che esprime un insieme di probabilità, mentre dopo la misura appare come un evento determinato, una particella con proprietà definite. Non si tratta di due realtà diverse, ma di due linguaggi descrittivi applicati alla stessa realtà, uno più fondamentale (fisica quantistica) e uno più fenomenologico (fisica classica). La fisica classica non è falsa, ma è limitata: funziona quando si descrivono gli eventi osservabili (fenomeno), ma non esaurisce la struttura profonda del reale (noumeno).

In modo analogico, la cristologia distingue tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Gesù di Nazaret è un evento storico, situato nel tempo, soggetto alla nascita, alla crescita, alla sofferenza e alla morte (fenomeno). Il Cristo, o Logos, è invece il Figlio eterno, generato dal Padre, principio di intelligibilità e fondamento dell’essere (noumeno). Anche qui non si parla di due realtà, ma di due livelli di linguaggio applicati alla stessa persona: il piano storico-economico e il piano ontologico. Non due realtà ma due punti di vista. La fede non aggiunge un “secondo essere” accanto a Gesù, ma interpreta la sua realtà da un livello più profondo, così come la descrizione quantistica non sostituisce l’evento osservato ma ne esplicita la struttura di possibilità.

In questo quadro si può comprendere l’errore di Ario come una confusione sistematica dei linguaggi. Ario prende affermazioni vere sul piano storico – Gesù nasce, cresce, obbedisce, soffre, dice che il Padre è più grande di lui – e le trasferisce senza distinzione sul piano ontologico, concludendo che il Logos abbia avuto un inizio, che sia una creatura eccellente ma non consustanziale al Padre. È un’operazione concettuale simile a quella di chi, vedendo solo la particella localizzata, nega l’esistenza o la necessità della funzione d’onda: riduce tutta la realtà al livello fenomenico e rifiuta un linguaggio più fondamentale. Si tratta, quindi, di riduzionismo.

Il Concilio di Nicea risponde non introducendo nuovi dati storici, ma correggendo il linguaggio: “homoousia to Patrì” serve a distinguere il piano intra-divino (generato, non creato) da quello della manifestazione storica (creato). Il Verbo non è creato nella sua essenza, ma assume la condizione creata nell’Incarnazione; ciò che è eterno si rende temporale, ciò che è necessario si rende contingente, senza che questo implichi una divisione o una diminuzione dell’essere divino. Come nella fisica quantistica, non cambia la realtà, ma il livello di accesso e di descrizione che ne abbiamo. Si guarda l’eterno dal punto di vista del tempo.

Certamente il confronto tra fisica quantistica e cristologia è un’analogia: la funzione d’onda è una struttura matematica, il Logos è una persona. La fisica parla di strutture impersonali, la teologia di relazioni personali. Tuttavia l’analogia è potente perché mostra che il dogma cristologico non è una mitologia arbitraria, ma una regola epistemica che impedisce riduzioni indebite: non confondere, non separare, non appiattire un livello sull’altro. In questo senso si può dire con rigore che Ario non negava i fatti, ma sbagliava il registro, tentando di parlare del mistero del Cristo con un solo linguaggio, quello storico-temporale, come se fosse sufficiente.

La relazione è l’apertura


Il pensiero di Hilary Lawson si colloca nel solco della filosofia post-kantiana, ma ne radicalizza l’impianto fino a trasformarne i presupposti fondamentali. Al centro della sua riflessione vi è la nozione di openness (apertura), introdotta per indicare ciò che precede e rende possibile ogni determinazione concettuale, linguistica e ontologica, senza tuttavia potersi identificare con alcuna realtà positiva o descrivibile. Lawson riprende da Kant la convinzione che non abbiamo accesso alla realtà “in sé”, ma solo a ciò che appare entro schemi concettuali e categoriali umani; tuttavia, egli rifiuta l’idea kantiana del noumeno come qualcosa che, pur non essendo conoscibile, possiede comunque uno statuto ontologico determinato. Parlare del noumeno come di una “cosa in sé” significa, per Lawson, ricadere in una forma di reificazione che contraddice la stessa funzione critica del concetto.

In questo senso, l’apertura non è una nuova versione del noumeno, né un fondamento metafisico nascosto, ma il nome dato alla resistenza del reale a ogni tentativo di chiusura definitiva. Essa non è un ente, non è una struttura, non è un principio, e non può essere tematizzata senza essere tradita. Ogni volta che il pensiero parla del mondo, lo fa attraverso operazioni di “chiusura”, vale a dire attraverso la stabilizzazione provvisoria dell’indeterminato in oggetti, soggetti, relazioni causali, identità, eventi. Il mondo fenomenico non è per questo illusorio o falso: esso è necessario, operativo e funzionale alla vita, alla scienza e all’azione, ma non è mai ultimo. La realtà che conosciamo è sempre il risultato di una chiusura, non l’espressione diretta dell’apertura.

In tale quadro, categorie come spazio, tempo e causalità non possiedono più, come in Kant, uno statuto trascendentale universale e necessario. Esse sono piuttosto modalità storiche, linguistiche e pratiche di organizzazione dell’esperienza, che funzionano all’interno di specifiche chiusure e possono, in linea di principio, essere riaperte o trasformate. La causalità, in particolare, non viene negata nel suo valore pragmatico e scientifico, ma perde ogni pretesa di descrivere la struttura ultima del reale. Causa ed effetto (cfr. anche karma) non sono proprietà fondamentali della realtà, bensì strumenti concettuali che consentono di rendere il mondo intelligibile e governabile entro una certa chiusura. In questo senso, Lawson si distingue tanto dal realismo ingenuo quanto dal relativismo radicale: la causalità “vale”, ma non come verità ontologica ultima.

Questa impostazione avvicina Lawson ad autori come Donald Hoffman, nella misura in cui entrambi rifiutano l’idea che il mondo percepito e concettualizzato coincida con la realtà in sé. Tuttavia, mentre Hoffman propone una nuova ontologia positiva – fondata sugli “agenti coscienti” (cfr. le seity di Federico Faggin) come realtà fondamentali e sostenuta da modelli matematici – Lawson rifiuta esplicitamente ogni tentativo di sostituire un’ontologia con un’altra. L’apertura non è una teoria su ciò che esiste davvero dietro le apparenze, ma il segnale del fallimento inevitabile di ogni pretesa ontologica definitiva. In questo senso, Lawson assume una posizione più radicalmente negativa e apofatica: non indica ciò che la realtà è, ma mostra perché ogni risposta a questa domanda comporta una chiusura.

La nozione di apertura presenta una forte affinità con una concezione radicale della relazione, intesa non come rapporto tra termini già dati, ma come ciò da cui i termini stessi emergono. Se la relazione viene pensata come “tra” originario, privo di sostanzialità e non oggettivabile, essa può svolgere una funzione filosofica analoga a quella dell’apertura. In tal senso, la posizione di Lawson è avvicinabile a ciò che Carlo Rovelli chiama interpretazione relazionale della Fisica Quantistica. Tuttavia, Lawson evita deliberatamente il linguaggio della relazione, poiché esso rischia di suggerire una nuova struttura ontologica o una simmetria concettuale che tradirebbe il carattere indeterminato dell’apertura. Chiamare l’originario “relazione” è, per Lawson, già una chiusura, seppur sofisticata.

È proprio su questo punto che il confronto con il Monismo Relativo diventa illuminante. Il Monismo Relativo condivide con Lawson il rifiuto della sostanza, del dualismo e di un Uno positivo; pensa l’originario come relazione “no-thing”, costitutiva dei termini e non derivata da essi. Tuttavia, il Monismo Relativo compie un passo ulteriore, assumendo consapevolmente una forma di ontologia minimale: afferma che l’essere è relazione, pur precisando che tale relazione non è un ente né un fondamento sostanziale. Lawson, invece, resta su un piano meta-filosofico e critico, insistendo sul fatto che anche questa affermazione, per quanto cauta, rappresenta una chiusura. La differenza non è tanto nei contenuti quanto nel gesto filosofico: Lawson mantiene aperta la ferita del dicibile, mentre il Monismo Relativo accetta una chiusura riflessa come necessaria.

Infine, la questione della libertà consente di cogliere un’ulteriore distanza da Kant. Se in Kant la libertà è collocata nel regno noumenico, come causalità di un ordine diverso rispetto a quello naturale, in Lawson essa non appartiene a un altro livello della realtà, ma coincide con la capacità di riaprire le chiusure in cui siamo immersi. La libertà non è evasione dal mondo fenomenico, bensì trasformazione del nostro rapporto con esso; non consiste nell’accesso a un fondamento ultimo, ma nella consapevolezza della parzialità e della contingenza delle nostre determinazioni. In questo senso, l’apertura non è un altrove metafisico, ma una dimensione sempre già implicata in ogni esperienza, che si manifesta ogni volta che una chiusura mostra i propri limiti.

Nel suo complesso, il pensiero di Hilary Lawson può essere letto come una radicalizzazione della critica kantiana della metafisica, condotta però senza ricorso a strutture trascendentali fisse e senza la sostituzione del noumeno con un nuovo fondamento. L’apertura non risolve il problema della realtà ultima, ma lo mantiene vivo, sottraendolo tanto alla reificazione quanto alla dissoluzione nichilistica, e facendo della filosofia non una dottrina dell’essere, ma una pratica continua di vigilanza sulle chiusure del pensiero.

Dio è l’apertura (ἄνοιγμα)

Il termine greco ἄνοιγμα (ánoigma) deriva dal verbo ἀνοίγω (anoígo), che significa aprire o dischiudere. Dal punto di vista etimologico è composto dal prefisso ἀνά-, che indica un movimento verso l’alto, di ritorno o di intensificazione, e da una radice verbale arcaica οἴγω / οἶξαι, che esprime l’atto dell’aprire. Ἄνοιγμα non designa semplicemente uno stato, ma un’azione o un processo: l’evento dell’apertura, il dischiudersi di ciò che prima era chiuso. Nel greco classico e biblico il termine può indicare l’apertura concreta di una porta o di una bocca, un varco nello spazio, ma anche, in senso figurato, l’apertura della parola, della comprensione o del cielo. In questo senso conserva sempre un carattere dinamico: non un oggetto o un vuoto statico, ma il farsi-aperto di qualcosa.

La parola “enigma” deriva invece dal greco αἴνιγμα (aínigma), che significa indovinello, discorso oscuro o parola allusiva. Essa proviene dal verbo αἰνίσσομαι (ainíssomai), che indica il parlare per allusioni, il dire senza dire apertamente. Anche questa famiglia lessicale è collegata a una radice greca più antica legata all’idea dell’aprire, ma in una forma indiretta e obliqua. Mentre ἄνοιγμα indica un’apertura manifesta e diretta, αἴνιγμα designa un’apertura che non si compie del tutto, che lascia intravedere il senso senza chiuderlo in modo definitivo. Nell’enigma il significato non viene esposto, ma suggerito, mantenuto in sospensione. Per questo, nella cultura greca e poi filosofica, l’enigma non è ciò che semplicemente oscura, ma ciò che apre uno spazio di interpretazione senza risolverlo, un’apertura che resiste alla chiusura concettuale.

In ambito religioso Dio è l’enigma o meglio ancora l’anigma (ἄνοιγμα). Dio non si scopre nella realtà risolvendo i suoi enigmi ma dischiudendoli verso il Mistero. Il Mistero non è enigma. Un enigma è ciò che rimane chiuso, irrisolto, come una porta che non si apre. Il mistero, invece, non è un ostacolo alla conoscenza, ma un orizzonte che si dilata. Non si esaurisce mai: ogni passo verso la sua comprensione apre nuove prospettive, nuove profondità, nuove luci.

Il mistero come anigma non è confusione o oscurità. Non è la nebbia che nasconde, ma la luce che rivela senza mai finire di rivelare. È un invito a entrare sempre più dentro, senza mai poter dire: “ho capito tutto”. La sua grandezza sta proprio nell’essere inesauribile, nel non ridursi mai a un concetto chiuso. Il mistero non è un segreto inaccessibile, ma una profondità sempre accessibile. Come scrive Jürgen Werbick, non si tratta di un contenuto nascosto, ma di una realtà che si offre senza mai consumarsi. È un dono che si lascia conoscere e, nello stesso tempo, supera sempre la nostra conoscenza.

“Dio” non va fatto funzionare nel nostro linguaggio religioso come fosse un “enigma”, non è un ente reale da dimostrare o confutare, ma è un termine che funziona nel linguaggio umano per “tenere aperto” l’Oltre. Il termine ἄνοιγμα significa l’ “apertura”, “aprirsi”.


“Infatti si deve sempre parlare di un mistero quando una cosa o una persona, o un qualsiasi essere, ci si dischiude soltanto a partire dal suo intimo. In un mistero non si può penetrare dall’esterno, non lo si può penetrare con violenza. Dall’esterno non v’è alcun accesso al mistero. Le sue porte si aprono soltanto dall’interno. Se però si aprono, allora il mistero diviene non soltanto esperibile, ma anche interamente comprensibile senza tuttavia cessare di essere un mistero. Non è quindi che noi affermiamo l’inconoscibilità di Dio, quando ci limitiamo semplicemente a dire di Lui che è un mistero, il mistero per eccellenza. E non è affatto che Dio cessi di essere un mistero, se noi veniamo a conoscerlo. É questo che distingue il mistero dall’enigma: il fatto che, quando viene compreso, esso non cessa di essere misterioso”
(E. Jüngel, “Che cosa significa dire: Dio è amore?”, in Protestantesimo, 56(2001), 160-161.  

Dio non è una realtà metafisica oggettiva, una causa prima o un essere supremo descrivibile attraverso concetti o prove razionali. Il mondo – infatti – non è una “cosa” già data, ma qualcosa che viene reso stabile attraverso le nostre operazioni di chiusura: linguaggi, teorie, sistemi simbolici e storie.

Considerare Dio come un oggetto o come una verità definibile significherebbe chiuderlo, e dunque snaturarne il senso. La religione, in questo quadro, non è una forma di conoscenza paragonabile alla scienza: non produce enunciati veri o falsi sul mondo. La sua funzione è piuttosto quella di mantenere “aperto” ciò che la conoscenza tende a chiudere, di indicare i limiti del linguaggio, dei concetti e del controllo umano.

Quando la religione pretende di offrire descrizioni definitive della realtà, sotto forma di dogmi o verità assolute, fallisce il proprio compito. Dio deve rimanere il nome di ciò che non può essere chiuso: ciò che eccede ogni sistema concettuale, che sfugge alla spiegazione e resiste alla rappresentazione. Non è qualcosa che “esiste” nel mondo, ma un segnale del limite di ogni chiusura possibile. In questo senso il discorso su Dio è affine all’arte e a una certa filosofia: non descrive, ma indica.

Gli esseri umani hanno bisogno sia di chiusura, per creare ordine, stabilità e possibilità di intervento nel mondo, sia di apertura, per non assolutizzare i propri sistemi e riconoscerne i limiti. Dio rappresenta simbolicamente questa esigenza di apertura radicale. Anche nelle società secolarizzate, la funzione che Dio svolge non scompare, ma riemerge sotto altre forme, come assoluti morali, ideologie o pretese scientifiche elevate a verità ultime.

Questa visione non è né teista né atea in senso tradizionale, ma semplicemente rifiuta di considerare Dio come oggetto e come verità finale, pur conservando il valore di Dio come nome dell’Oltre, del non-chiudibile. Dio non è qualcosa in cui credere o non credere, ma il limite che ricorda a ogni sapere, a ogni linguaggio e a ogni potere che il mondo resta, in ultima istanza, aperto.

Credere per diventare Cristo

La nostra fede cristiana inizia dall’affermazione che “Gesù è Cristo”, indicata come una verità data, oggettiva, che precede ogni risposta umana. Non dipende dall’“io” e non nasce dall’interiorità personale: è una realtà rivelata. Indica che il Gesù storico è il Cristo, l’Unto, il Figlio di Dio. Dal punto di vista “oggettivo” della fede si afferma che l’essere del Cristo appartiene unicamente a quella persona concreta, unica e irripetibile. Nessun altro essere umano potrebbe identificarsi con quel Gesù che è diventato il Cristo.

L’espressione “credo-che” rappresenta il livello iniziale della fede: l’adesione mentale e assenso interiore alla verità che Gesù è Cristo. Non è ancora un’unione vitale con Lui, ma un primo movimento della libertà che riconosce questa verità proveniente dall’alto.

Da una parte è vero che “io” non sono Gesù, cioè non sono quella persona storica. È un atto di realismo e di umiltà: riconosco che la mia identità non coincide con quella di Gesù ebreo del I. sec. che vive la sua religiosità ebraica. Io non sono quel Gesù. Non c’è alcuna fusione della mia identità con quella di Gesù uomo di allora.

Dall’altra parte, però, “io” divento Cristo, cioè la mia identità più profonda indica il processo spirituale attraverso cui il mio essere umano viene trasformato dalla grazia che è la vita divina che era in Gesù di Nazareth e ora opera e agisce in me. Poiché l’agire di Dio è il suo stesso essere, ne segue che la grazia (= agire di Dio) mi rende, mi conforma e mi identifica nel Cristo. Pur non essendo e non potendo mai essere Gesù in quanto persona storica, l’uomo può diventare conforme al Cristo non solo nella vita morale, interiore e relazionale, ma ontologicamente.

L’ “io” diventa Cristo. La tradizione cristiana parla infatti dell’essere “conformi al Figlio”, “rivestire Cristo”, “lasciarsi trasformare in Lui”. Non si tratta di diventare quel Gesù, ma di diventare il Cristo in cui Gesù è stato trasformato, per partecipazione, imitazione e grazia. L’ “io” di Gesù, così anche il mio “io”, è in Cristo nel senso più forte e ontologico. Una sola ipostasi, una sola persona di Cristo. Con un esempio: il mio “io” è come 1, così anche l’ “io” di Gesù è 1. Il Cristo è l’Uno, il Logos, di tutte le cose. È la struttura relazionale (il segno della moltiplicazione “x”). 1 x 1 = 1. Senza che nessuno perda la sua identità personale, diventiamo l’una persona di Cristo. Io sono Io ma in Cristo io divento “più-che-io” (ego-trasformato) non essendo più io (ego-isolato).

Nel Commentario della Lettera di Giovanni ai Parti (trattato 2, n. 14), Agostino afferma: “Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Cosa devo dire? Vuoi diventare Dio? – Non oso dirlo da solo; ascoltiamo la Scrittura: Ho detto: ‘Voi siete dèi, e tutti figli dell’Onnipotente.’ (PS 81.6)”. Giovanni della croce così dice nella Notte Oscura: Notte che mi guidasti, oh, notte più dell’alba compiacente! Oh, notte che riunisti l’Amato con l’amata, amata nell’Amato trasformata!”.

Possiamo ritrovare una simile comprensione del rapporto tra l’io e Dio nell’omelia di Benedetto XVI per la Veglia di Pasqua del 2006, in cui riprendendo le parole di Paolo nella lettera ai Galati (2,20) – «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» – così afferma:

«L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un ‘non’ e si trova continuamente in questo “non”: Io, ma “non” più io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e che, semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza».

Un’altra omelia, ancor più famosa, quella del Sabato Santo di Epifanio di Salamina pone sulle labbra di Cristo, rivolto ad Adamo, le seguenti parole: «Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui [dagli inferi]! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura». Il testo originale in greco non dice natura ma «un’unica e indivisa persona (ἕν πρόσωπον)» (A. Vaillant, L’ homélie d’Épiphane sur l’ensevelissement du Christ, Staroslavenski Institut, Zagreb 1958, p. 99).

A questo soggetto cosmico allude Teilhard quando afferma che «la Creazione, totalmente dominata dal Cristo, andrà a perdersi in Lui e per Lui nell’Unità definitiva, secondo gli stessi termini di san Paolo che rappresentano la più netta affermazione di un “Panteismo” cristiano ἔσται ὁ θεὸς τὰ πάντα ἐν πᾶσιν» (Teilhard de Chardin, Panteismo e Cristianesimo, cit., 77).

Il “credo-che” della fides quae indica la soglia tra la verità proclamata su Cristo nella fede e il cammino di trasformazione dell’uomo. Accettare intellettualmente che Gesù è il Cristo non è ancora essere trasformati, ma apre la possibilità di esserlo. La crescita spirituale dell’io avviene proprio nell’accogliere questa rivelazione nella vita concreta.

L’identità personale rimane distinta, non diventa la persona storica di Gesù, ma viene configurata al Cristo senza confusione e senza separazione. L’immagine, quindi, mostra la differenza tra l’io e Gesù e, allo stesso tempo, la vocazione dell’io a entrare in comunione con Cristo non solo attraverso la fede (fides quae) ma la fede mistica dell’abbandono fiducioso (fides qua) che ci rende “uno” in Cristo.

In sintesi, ciò che emerge è una dinamica teologica chiara: Gesù è il Cristo; io non sono Gesù ma io divento il Cristo con Gesù. Riconoscendo questa verità posso essere trasformato da Cristo, diventando conforme alla sua vita senza confondere la mia identità con quella di Gesù, ma divenendo unito sostanzialmente (o ipostaticamente) a Cristo.

Monismo relativo come metafisica del darsi

Nella lingua comune, “si dà” può significare “accade”, ma questa costruzione è metafisicamente interessante perché esprime un evento senza soggetto. L’evento non viene attribuito a un agente, ma è qualcosa che si dà da sé in senso riflessivo. “Si dà” è la forma riflessiva di terza persona singolare del verbo “dare” (lui/lei/esso si dà), indicando che il soggetto compie e subisce l’azione riflessa su se stesso (es. “Lui si dà da fare”, “Lei si dà per vinta”), accompagnato dalla particella pronominale “si” che si unisce al verbo.

È importante sottolineare che, in tedesco, “c’è” si esprime con “es gibt”, ovvero “si dà”. In altri termini, ciò che si dà, ovvero si mostra, rimane indicibile; al contrario, ciò che può essere detto può solo essere mostrato come senso. Questo esserci, darsi o mostrarsi – forse riconducibile a una nostra intuizione – non appartiene al mondo, ma costituisce piuttosto un registro dell’Essere non riducibile al mondo stesso. Secondo Wittgenstein, il mistico (das Mystische) esiste, c’è. Non si tratta neppure di un “altro mondo”, né del mondo intelligibile concepito come separato dal mondo sensibile. Sorge quindi l’interrogativo: se non è parte del mondo, a quale regione dell’Essere appartiene il mistico? E inoltre, quale modalità dell’essere gli si può attribuire?

6.522 Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische. C’è davvero dell’inesprimibile. Esso mostra sé, è il mistico (Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus).

C’è un soggetto che “si dà” ma nella forma d’evento. L’espressione indica un accadere puro, un fenomeno che si presenta senza che l’origine sia tematizzata o nominabile. Il “si” del “dar-si” (forma riflessiva) è impersonale. È una forma elementare di fenomenalità, una soglia in cui il dato non è dato da qualcuno: è semplicemente dato da Qualcuno o Qualcosa che non è nominato.

Da un punto di vista fenomenologico, si può leggere il “si dà” come la traccia linguistica di una “donazione originaria”. La realtà si dà alla coscienza prima ancora che noi la interpretiamo; un fenomeno si dà prima che lo descriviamo; ciò che è, è nella misura in cui si manifesta. In questo senso il “si dà” suggerisce un movimento di donazione senza donatore: non un dare attivo, ma un venire-alla-presenza. Semplicemente, dato come dono. L’essere appare senza che sia necessario supporre una volontà o un soggetto (umano o divino) che lo faccia apparire. Si può dire, quasi paradossalmente, che ciò che esiste, esiste nella misura in cui si-dà. Si dischiude e si apre.

Nell’uso logico-modale, come nell’espressione “si dà che…”, l’espressione introduce la struttura del possibile: “si dà il caso che…” indica un accadere contingente, un’apertura modale. La frase istituisce un mondo possibile (Y) in cui X è vero e quindi rivela che la realtà non è chiusa nella necessaria identità (X = X) ma è intrinsecamente apertura, rivelativa (x = x + y). Il “si-dà” consiste proprio in questo “+”. Il reale (x), attraverso questo semplice meccanismo linguistico, mostra la sua natura intrinsecamente aperta, capace di accogliere ciò che accade pur potendo non accadere.

Il “si” qui è riflessivo e sembra impersonale ma non lo è. La negazione “im-“ indica che non è identificabile con un soggetto ma è “più(+)-che-soggetto”: è in senso radicale “trans-personale”. Come nell’ “es gibt” heideggeriano (“c’è / viene dato”), il “si dà” italiano suggerisce che l’Essere non si esaurisce in soggetti e oggetti: esiste un piano pre-personale (fondativo) e trans-personale (ultimativo), un campo anonimo dell’Essere (Essere = ni-ente) dove gli enti “si danno” come “ev-enti” – mostrando il loro carattere di dono – e si manifestano senza creatore-padrone. Questo impersonale non significa “nessuno”, ma piuttosto “prima di chiunque”: un livello originario in cui la manifestazione non ha ancora ricevuto attribuzioni o intenzioni.

L’espressione “si dà” possiede così tre caratteristiche ontologicamente rilevanti. È transitiva senza Colui che transita. Il verbo “dare” non ha un soggetto, suggerendo una auto-manifestazione di un “Soggetto-assoluto” che intende, vuole e decide creare il mondo, producendolo. Il mondo – invece – non è prodotto, condotto (ducere) davanti e avanti (pro-) maappare, semplicemente si presenta. Teofania. Introduce inoltre una realtà situata: un “si dà che X” non accade mai nell’astratto, ma sempre in un contesto concreto, e quindi la manifestazione è sempre un evento situato, incarnato.

In questa prospettiva si possono formulare tre tesi. L’Essere si manifesta in modo impersonale: prima di ogni soggetto c’è un darsi anonimo. Ogni fenomeno è un dato, non un prodotto: il mondo non è fatto da noi, e nemmeno da Dio, ma si dà a noi. Il possibile è la modalità primaria del reale: il “si dà che…” testimonia la contingenza come struttura fondamentale dell’esperienza.

In conclusione, “si dà” è una piccola soglia linguistica attraverso cui si intravede una grande tesi metafisica: la realtà non è primariamente qualcosa che Qualcuno fa e produce, ma Qualcosa che si offre (in tedesco: Es gibt). Prima del soggetto, c’è un darsi; prima dell’atto intenzionale, un’apparizione. L’Essere stesso, nel suo farsi presente, si lascia dire da questa espressione minima che porta in sé la traccia di un evento più vasto: il semplice, originario fatto che ciò che è, è perché si dà.

Si dà

Nel silenzio prima dei nomi,
qualcosa accade:
si dà.

Non viene da mano né da voce,
non cerca soggetto,
non chiede un perché.
Appare.

È dono senza donatore,
soglia che apre il possibile,
luce che mostra senza dire.

Nel mondo che non è fatto,
ma che si offre,
l’Essere sfiora il nostro sguardo
e—semplicemente—
si dà.

Tolleranza + (e non zero) per il cristianesimo

Simmaco, Terza Relatio 10: «È giusto che ciò che tutti gli uomini adorano sia considerato uno solo. Vediamo le stesse stelle, il cielo ci è comune, lo stesso universo ci include. Perché è così importante secondo quale dottrina (prudentia) ognuno cerca la verità (verum requiat)? Non si può trovare un mistero così sublime in un solo modo (uno itinere non può perveniri ad tam grande secretum). [Quinto Aurelio Simmaco, Relatio, III,10, ed. it. in La maschera della tolleranza, tr. di Alfonso Traina, Bur, Milano 2006, p. 65.”]

Ambrogio, 18 Lettera 8: «Dice Simmaco che “non si può giungere per una sola via a un mistero così grande>”. Ciò che voi ignorate, noi lo sappiamo dalla voce di Dio (Quod vos ignoratis, id nos Dei voce cognovimus). E ciò che voi ipotizzate, a noi è noto dalla stessa sapienza e verità di Dio. Non c’è accordo dunque fra la vostra e la nostra condotta» [Ambrogio, Lettera al beatissimo principe e grazioso imperatore, Sua Maestà Valentiniano, 18, 8].


La questione della tolleranza in rapporto alla verità e alla fede attraversa l’intera storia del pensiero religioso e politico. Da un lato, la verità — in senso logico — possiede una struttura esclusiva: ciò che è vero non può essere simultaneamente falso. Tuttavia questa “intransigenza” appartiene alla logica, non alla morale. La verità non è intollerante: semplicemente, non ammette la contraddizione. L’intolleranza, invece, è un atteggiamento umano, un modo di porsi nei confronti delle idee e delle persone. Confondere la natura della verità con l’uso che di essa fanno gli uomini significa sovrapporre piani differenti.

Un caso emblematico di questa tensione si osserva nel confronto tra la posizione pluralista di Simmaco e quella esclusiva della rivelazione cristiana di Ambrogio. Per Simmaco, la verità è grande, forse inaccessibile nella sua interezza; gli esseri umani, collocati in un universo condiviso, possono cercarla seguendo vie diverse. Tale visione poggia sull’umiltà epistemica: non è possibile che un’unica dottrina esaurisca il mistero del divino. Ne deriva un atteggiamento di tolleranza: la pluralità delle vie non è un problema, ma un segno della comune e limitata condizione umana.

La posizione di Ambrogio nasce invece da un’altra premessa: Dio ha parlato, e la rivelazione cristiana non è una ricerca, ma una conoscenza. Se ciò è vero, la pluralità non è un insieme di tentativi legittimi, ma una moltiplicazione di errori. La conclusione, perfettamente logica rispetto alla premessa, è che non può esservi compromesso tra chi possiede la verità rivelata e chi segue dottrine umane.

Il confronto tra le due posizioni mostra che la logica, di per sé, non decide quale sia la visione più corretta: essa garantisce coerenza interna, non verità delle premesse. La logica di Simmaco è rigorosa se si assume il limite conoscitivo dell’uomo; quella di Ambrogio lo è se si assume la certezza della rivelazione. La scelta delle premesse appartiene non alla logica, ma a una filosofia dell’uomo, della conoscenza e del divino. È un apriori… scelto ed evidente solo per chi lo ha scelto.

Tuttavia, la posizione di Ambrogio poggia sul presupposto fondamentale che la verità è stata rivelata (in un momento preciso della storia e in una persona: Gesù di Nazareth) e ha un luogo udibile e dicibile ben preciso che permane nella storia – in cui questa verità rivelata viene affidata – che è la Chiesa cattolica (tutti i battezzati). Extra ecclesia nulla veritas. Non solo: ci sono uomini (ovvero “maschi”) che hanno il carisma di interpretare con autorità questa verità rivelata: fedelmente (i vescovi) e infallibilmente (il papa).

Rimane allora la domanda: se la rivelazione è vera e la fede è la condizione per riconoscerla, segue forse che solo chi crede debba essere tollerato? Questa conclusione non è necessaria. Il fatto che la fede sia indispensabile per accogliere la verità non implica che chi non crede debba essere escluso o represso. Dalla verità rivelata non discende automaticamente una dottrina dell’intolleranza… anche all’interno della Chiesa. Perché? Se la verità è (stata) rivelata e la fede – dono di grazia, non naturale ma di scelta divina – è data non a tutti (infatti, c’è chi crede e chi non crede), ne segue che la verità non è qualcosa di necessario ma di contingente. La verità dipende dalla grazia divina, cioè dalla grazia che dona la fede a questo e non a quello. La verità – infatti – dipende dalla fede di chi crede.

Chi crede sa il vero.

D quale fede si sta parlando? Se si tratta del credere come “affidamento” (fides qua), affidarsi al Mistero ineffabile e trascendente è strutturato nell’umano. È di tutti e non di pochi. Se si tratta, invece, del credere come “contenuto” del credere (fides quae), allora ne segue che le dottrine sono la verità (che è stata rivelata). Negare o contraddire queste dottrine significa predicare (cioè dire) il falso (che il non-vero). Che lo Stato abbia imposto in passato la verità religiosa è dovuto al fatto che l’errore doveva essere eliminato. Avere affermato – con il decreto Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II – che la libertà interiore dell’uomo è valore morale, prescindendo dalle dottrine che confessa, ha fatto implodere un certo modo di concepire il cristianesimo come la verità (unica ed esclusiva).

“Dio e il suo Verbo incarnato sono già misteriosamente, ‘anonimamente’ presenti, anche se non ancora definiti né riconosciuti, nella ricerca umana di senso e negli atti d’amore per il prossimo (Mt 25,40)” [Tomaś Halík, L’esperienza di fede come punto di partenza per una teologia sinodale, in F. Strazzari (ed.), Dire Dio oggi, 20.]

Se la fede è un atto libero, infatti, la sua autenticità richiede la possibilità del dissenso. Imporre la verità significa distruggere la condizione stessa della sua accoglienza che è il credere (fides qua). Si può assumere che Dio abbia parlato, ma se si sostiene una concezione della verità fondata sul rispetto della coscienza, nella quale la verità non si impone con la forza, ma si propone alla libertà dell’uomo, ne segue che Dio possa parlare altrove e altrimenti. La tolleranza nasce dal riconoscimento che la verità, per essere accolta, esige la libertà e la libertà esige sia la trascendenza divina che il suo trascendersi nell’umana risposta. “Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,20),

Dio trasgredisce il nostro credere.

In questa prospettiva, il conflitto tra pluralismo e rivelazione non è necessario ma è superato nel farsi di Dio sempre più uomo nell’umano (incarnatio continua). È possibile credere in una verità trascendente senza negare spazio alla ricerca e alla differenza. La libertà religiosa non è la negazione della verità, ma il suo presupposto umano.

Un atto immaginario

Onestamente dispiace per l’occasione persa… per fare chiarezza sul post-teismo e dintorni non si poteva invitare anche un rappresentante di questo paradigma? Anche per rispondere alle domande e per avviare un dialogo costruttivo. In alternativa, offro un atto immaginario di quanto doveva succedere e non è accaduto

“Dio in Questione. Dialogo sul Post-teismo”

Personaggi

  • FERRETTI – Filosofo, rigoroso, ordinato, attento alla logica dell’argomentazione.
  • GUGLIELMINETTI – Filosofo, più esistenziale, inquieto, amante delle contraddizioni vitali.
  • STAGLIANÒ – Teologo, appassionato, oratore ardente, immaginifico.
  • GAMBERINI – Teologo post-teista, calmo, relazionale, determinato a far capire il suo “monismo relativo”.

ATTO I – IL SOSPETTO

(Una sala accademica. Quattro sedie e un tavolo. I tre critici sono già seduti. Entra Gamberini. Breve silenzio.)

FERRETTI

(avanza piegando leggermente il busto, con rispetto ma fermezza)
Benvenuto, Paolo.
Vorrei iniziare con la questione centrale:
nel tuo “monismo relativo”, la creatura è detta “la stessa essenza divina”.
Come puoi sostenere questo senza cancellare la distinzione creatura–Creatore?

GAMBERINI

(si siede con calma, mani aperte)
Giovanni, non voglio cancellare nulla.
Voglio togliere un muro.
La distinzione resta, ma è relazionale, non metafisica.
La creatura non è Dio, ma non è separata da Dio.
Come la fiamma non è separata dal fuoco.

FERRETTI

(alza un sopracciglio)
E la libertà divina?
Se Dio “non può non creare”, non è più libero.

GAMBERINI

La fonte non “sceglie” se zampillare:
è la sua libertà.
Così l’Amore.
Dio crea perché è Amore che si effonde, non perché è costretto.

(Ferretti annuisce, ma resta teso.)


ATTO II – LA PAURA DELL’UNICO

GUGLIELMINETTI

(si sporge in avanti, inquieto)
Paolo… quello che mi inquieta è l’unità.
L’onda nell’oceano.
Se tutto è Uno, allora il singolo scompare.
E senza singoli non ci sono conflitti, né politica, né storia.
Solo un grande mare… e noi niente.

GAMBERINI

(sorride con dolcezza)
Enrico, l’unità non è fusione.
È un campo relazionale.
L’onda non scompare: acquista senso.
La sua forma è unica, irripetibile.
Ma nasce dalla relazione con il mare.

GUGLIELMINETTI

(battendo il pugno leggermente sul tavolo)
Ma il male?
Il dolore?
L’angoscia?
Se tutto è Uno, diventano illusione?

GAMBERINI

No.
Diventano lacerazioni della relazione, non illusioni.
L’unità non elimina il tragico: lo attraversa.
Il conflitto non è abolito: è trasformato.

(Guglielminetti si rilassa, ma rimane pensoso.)


ATTO III – IL FUOCO CRISTOLOGICO

STAGLIANÒ

(alzandosi in piedi, con passione)
Paolo, io parlo da teologo:
che fine fa Gesù Cristo?
Se la divinità è ovunque, Gesù è solo un uomo più risvegliato degli altri.
E allora addio rivelazione, addio incarnazione, addio risurrezione!

(Pausa drammatica.)

GAMBERINI

(alzandosi anch’egli, ma pacato)
Antonio…
Gesù non è dissolto: è rivelato.
È colui che manifesta pienamente ciò che siamo tutti in potenza:
unità con il Padre.

La sua unicità non diminuisce, si universalizza.
La risurrezione non è un miracolo isolato,
ma l’anticipazione della vocazione di ogni essere umano.

STAGLIANÒ

(con tono più basso, ma intenso)
E l’amore?
Non voglio un amore-energia cosmica.
Voglio il Dio che ama nel fango della storia.

GAMBERINI

E io lo voglio con te.
L’amore non è energia impersonale:
è la struttura dell’essere come relazione.
Gesù lo incarna nella storia:
per questo è “vero Dio e vero uomo”,
non per appartenenza metafisica,
ma per trasparenza relazionale.

(Staglianò guarda in basso. Non convinto, ma toccato.)


ATTO IV – LA PREGHIERA

FERRETTI

Se Dio non è un Tu distinto,
la preghiera non è più dialogo.
È monologo.
Autosuggestione.

GAMBERINI

(siedendo lentamente)
No, Giovanni.
La preghiera resta dialogo,
ma non come conversazione tra due individui separati.
È dialogo intra-relazionale.
La voce che ascolto in me non è solo mia:
è la parte di me che eccede me.

FERRETTI

(quieto)
Vuoi salvare tutto.
Ma non so se resta ancora il Dio cristiano.

GAMBERINI

Forse resta un Dio più biblico di prima.
Il Dio che è Ruah,
respiro,
relazione,
non l’Individuo supremo seduto nel cielo.


ATTO V – L’ULTIMA OBIEZIONE

GUGLIELMINETTI

(guardando entrambi)
Paolo, c’è un rischio politico.
Se tutto è relazione, nessuno è responsabile.
La democrazia nasce dal conflitto, non dall’armonia.

GAMBERINI

(con fermezza nuova)
La relazione non è armonia.
È tensione.
È esistenza.
È incontro e scontro.
Il monismo relativo non dice “siamo tutti uno, quindi pace per sempre”.
Dice:
siamo tutti uno, quindi il conflitto non è guerra di nemici, ma frizione tra fratelli.

(Silenzio. Le parole risuonano.)


ATTO VI – EPILOGO

(I tre critici si guardano. Gamberini si siede. L’atmosfera è diversa: non c’è accordo totale, ma comprensione nuova.)

FERRETTI

(con sincerità)
Paolo, forse continuiamo a non pensarla allo stesso modo.
Ma la tua distinzione “non separativa” merita riflessione.

GUGLIELMINETTI

(sospira)
E forse l’unità non è il nostro nemico.
Lo diventa quando ci fa paura.

STAGLIANÒ

(con calore)
Io continuo a temere per Cristo.
Ma riconosco che vuoi difenderne il cuore:
l’amore che tutto sostiene.

GAMBERINI

(guardandoli uno per uno)
Io non propongo un’altra religione.
Propongo di ascoltare la trama relazionale che sostiene il cristianesimo da sempre.
Il monismo relativo non è negazione,
ma approfondimento.

(Le luci calano lentamente.)


FINE

Atto immaginario incompiuto

Onestamente dispiace per l’occasione persa… per fare chiarezza sul post-teismo e dintorni non si poteva invitare anche un rappresentante di questo paradigma? Anche per rispondere alle domande e per avviare un dialogo costruttivo. In alternativa, offro un atto immaginario di quanto doveva succedere e non è accaduto.

“Dio in Questione. Dialogo sul Post-teismo”

Personaggi

  • FERRETTI – Filosofo, rigoroso, ordinato, attento alla logica dell’argomentazione.
  • GUGLIELMINETTI – Filosofo, più esistenziale, inquieto, amante delle contraddizioni vitali.
  • STAGLIANÒ – Teologo, appassionato, oratore ardente, immaginifico.
  • GAMBERINI – Teologo post-teista, calmo, relazionale, determinato a far capire il suo “monismo relativo”.

ATTO I – IL SOSPETTO

(Una sala accademica. Quattro sedie e un tavolo. I tre critici sono già seduti. Entra Gamberini. Breve silenzio.)

FERRETTI

(avanza piegando leggermente il busto, con rispetto ma fermezza)
Benvenuto, Paolo.
Vorrei iniziare con la questione centrale:
nel tuo “monismo relativo”, la creatura è detta “la stessa essenza divina”.
Come puoi sostenere questo senza cancellare la distinzione creatura–Creatore?

GAMBERINI

(si siede con calma, mani aperte)
Giovanni, non voglio cancellare nulla.
Voglio togliere un muro.
La distinzione resta, ma è relazionale, non metafisica.
La creatura non è Dio, ma non è separata da Dio.
Come la fiamma non è separata dal fuoco.

FERRETTI

(alza un sopracciglio)
E la libertà divina?
Se Dio “non può non creare”, non è più libero.

GAMBERINI

La fonte non “sceglie” se zampillare:
è la sua libertà.
Così l’Amore.
Dio crea perché è Amore che si effonde, non perché è costretto.

(Ferretti annuisce, ma resta teso.)


ATTO II – LA PAURA DELL’UNICO

GUGLIELMINETTI

(si sporge in avanti, inquieto)
Paolo… quello che mi inquieta è l’unità.
L’onda nell’oceano.
Se tutto è Uno, allora il singolo scompare.
E senza singoli non ci sono conflitti, né politica, né storia.
Solo un grande mare… e noi niente.

GAMBERINI

(sorride con dolcezza)
Enrico, l’unità non è fusione.
È un campo relazionale.
L’onda non scompare: acquista senso.
La sua forma è unica, irripetibile.
Ma nasce dalla relazione con il mare.

GUGLIELMINETTI

(battendo il pugno leggermente sul tavolo)
Ma il male?
Il dolore?
L’angoscia?
Se tutto è Uno, diventano illusione?

GAMBERINI

No.
Diventano lacerazioni della relazione, non illusioni.
L’unità non elimina il tragico: lo attraversa.
Il conflitto non è abolito: è trasformato.

(Guglielminetti si rilassa, ma rimane pensoso.)


ATTO III – IL FUOCO CRISTOLOGICO

STAGLIANÒ

(alzandosi in piedi, con passione)
Paolo, io parlo da teologo:
che fine fa Gesù Cristo?
Se la divinità è ovunque, Gesù è solo un uomo più risvegliato degli altri.
E allora addio rivelazione, addio incarnazione, addio risurrezione!

(Pausa drammatica.)

GAMBERINI

(alzandosi anch’egli, ma pacato)
Antonio…
Gesù non è dissolto: è rivelato.
È colui che manifesta pienamente ciò che siamo tutti in potenza:
unità con il Padre.

La sua unicità non diminuisce, si universalizza.
La risurrezione non è un miracolo isolato,
ma l’anticipazione della vocazione di ogni essere umano.

STAGLIANÒ

(con tono più basso, ma intenso)
E l’amore?
Non voglio un amore-energia cosmica.
Voglio il Dio che ama nel fango della storia.

GAMBERINI

E io lo voglio con te.
L’amore non è energia impersonale:
è la struttura dell’essere come relazione.
Gesù lo incarna nella storia:
per questo è “vero Dio e vero uomo”,
non per appartenenza metafisica,
ma per trasparenza relazionale.

(Staglianò guarda in basso. Non convinto, ma toccato.)


ATTO IV – LA PREHENSA DELLA PREGHIERA

FERRETTI

Se Dio non è un Tu distinto,
la preghiera non è più dialogo.
È monologo.
Autosuggestione.

GAMBERINI

(siedendo lentamente)
No, Giovanni.
La preghiera resta dialogo,
ma non come conversazione tra due individui separati.
È dialogo intra-relazionale.
La voce che ascolto in me non è solo mia:
è la parte di me che eccede me.

FERRETTI

(quieto)
Vuoi salvare tutto.
Ma non so se resta ancora il Dio cristiano.

GAMBERINI

Forse resta un Dio più biblico di prima.
Il Dio che è Ruah,
respiro,
relazione,
non l’Individuo supremo seduto nel cielo.


ATTO V – L’ULTIMA OBIEZIONE

GUGLIELMINETTI

(guardando entrambi)
Paolo, c’è un rischio politico.
Se tutto è relazione, nessuno è responsabile.
La democrazia nasce dal conflitto, non dall’armonia.

GAMBERINI

(con fermezza nuova)
La relazione non è armonia.
È tensione.
È esistenza.
È incontro e scontro.
Il monismo relativo non dice “siamo tutti uno, quindi pace per sempre”.
Dice:
siamo tutti uno, quindi il conflitto non è guerra di nemici, ma frizione tra fratelli.

(Silenzio. Le parole risuonano.)


ATTO VI – EPILOGO

(I tre critici si guardano. Gamberini si siede. L’atmosfera è diversa: non c’è accordo totale, ma comprensione nuova.)

FERRETTI

(con sincerità)
Paolo, forse continuiamo a non pensarla allo stesso modo.
Ma la tua distinzione “non separativa” merita riflessione.

GUGLIELMINETTI

(sospira)
E forse l’unità non è il nostro nemico.
Lo diventa quando ci fa paura.

STAGLIANÒ

(con calore)
Io continuo a temere per Cristo.
Ma riconosco che vuoi difenderne il cuore:
l’amore che tutto sostiene.

GAMBERINI

(guardandoli uno per uno)
Io non propongo un’altra religione.
Propongo di ascoltare la trama relazionale che sostiene il cristianesimo da sempre.
Il monismo relativo non è negazione,
ma approfondimento.

(Le luci calano lentamente.)


FINE